Giuseppe Milan, «A tu per tu con il mondo» – Di Daniela Larentis

L’autore, professore ordinario di Pedagogia interculturale e sociale, nel saggio offre una visione incentrata sulla ricchezza del dialogo interculturale – L’intervista

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«A tu per tu con il mondo. Educare al viaggiare interculturale nel tempo dei muri» è il titolo di un interessantissimo saggio scritto dal prof. Giuseppe Milan, massimo esperto di problematiche pedagogiche delle relazioni interpersonali e interculturali (Pensa MultiMedia Editore, 2020).
Rivolto a un pubblico eterogeneo, in particolare al mondo adulto, agli educatori e ai genitori, il volume è strutturato come una sorta di sceneggiatura composta da tre capitoli, tre atti, tappe di un itinerario educativo articolato, e si sviluppa intorno alla tematica pedagogica dell’alterità e dell’ospitalità, offrendo validi strumenti per far fronte a sfide oggi particolarmente rilevanti, prime fra tutte la relazione interpersonale autentica, la costruzione della comunità, l’interculturalità.
Alcune brevi note biografiche prima di passare all’intervista.
 
Giuseppe Milan è professore ordinario di Pedagogia interculturale e sociale all’Università degli Studi di Padova.
È stato direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione (2008-2011) e del Centro interdipartimentale di Ricerca in Pedagogia e Psicologia dell’infanzia (2008-2017), presidente del Corso di Studio in Scienze dell’educazione e della formazione (2015-2019).
Oltre che all’Università di Padova insegna discipline pedagogiche all’Università di Trento, all’Istituto Universitario Sophia (Incisa Valdarno) e presso la Facoltà Teologica del Triveneto.
 
Presidente della Scuola di Preparazione Sociale (Trento), collabora con varie istituzioni e coordina progetti di ricerca-formazione in Italia e all’estero.
È autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali che testimoniano il suo impegno per la dimensione teorica della pedagogia e per una prassi educativa dialogico-comunitaria aperta all’interculturalità e alla cittadinanza planetaria.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e di porgergli alcune domande.
 
Iniziamo dal prologo: lei racconta di un luogo particolare, lo storico Caffè Pedrocchi di Padova, crocevia di intellettuali e artisti. Che cosa rappresenta in termini antropologici?
«Il Caffè Pedrocchi è un luogo simbolo di un’ospitalità aperta al mondo fin dalla sua apertura, avvenuta nel 1831, con la sua saletta verde che per statuto è liberata dall’obbligo di consumazione.
«Ne sono sempre stato affascinato fin da ragazzo, amavo sostarvi quando ero ancora studente universitario; fra le sue pareti ho avuto occasione di dialogare con poeti, amici, alcuni dei quali arrivavano da lontano, per esempio dall’America Latina.
«Mi viene in mente un amico cantautore, valente musicista, ma potrei citarne tanti altri; erano momenti particolarmente intensi quelli vissuti in quel luogo ospitale.
«Oltre alla saletta verde vi sono peraltro altre sale, la bianca con i suoi altorilievi, raffigurazioni dell’alba e del tramonto, che alludono al trascorrere del tempo, poi la rossa, alle cui pareti sono appese i dipinti dei due emisferi di mappamondo, antiche carte geografiche che potremmo definire rovesciate, ma che in realtà offrono solo una visione diversa dei continenti e che ci aiutano a capire come il mondo possa essere osservato da altre prospettive.
«Al secondo piano si trovano sale che rendono omaggio a diversi periodi storici, romano, etrusco, greco, egizio ecc.
«Il Pedrocchi, noto per essere il caffè senza porte, è quindi un luogo che ha una storia, che rappresenta qualcosa di reale, ma è anche allo stesso tempo spalancato al mondo, veicolando un significato antropologico profondo. E per questo motivo l’ho citato nel prologo.»
 
Il focus del libro ruota attorno al concetto di relazione interpersonale autentica, un tema a lei caro. Come potremmo definire questo tipo di relazione?
«È la relazione che parte dalla realtà dell’essere umano, che è già di per sé relazione. È l’aprirsi all’altro senza pregiudizi, in maniera empatica, una grande sfida anche per l’educazione. È infatti importantissimo il modo di porsi innanzi al proprio interlocutore.»
 
Il concetto di «ospitalità» si collega al pensiero di un grande filosofo e pedagogista, da lei ampiamente indagato nella sua pubblicazione «Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber». Come si realizza l’essere umano secondo la sua visione?
«L’idea di ospitalità trova un valido fondamento proprio nel pensiero di Martin Buber. Secondo il suo principio dialogico l’essere umano si comprende e si realizza come essere in relazione, come apertura-a che diventa incontro, dialogo, Io-Tu.
«È proprio nel relazionarsi autentico, che è reciproca ospitalità, che si mette in gioco la totalità del proprio essere, che si prende coscienza di se stessi.
«Come spiego nei miei scritti, Buber sostiene che ciò che fa dell’altro un Tu oppure un Esso non dipende dal suo essere oggettivamente uomo o cosa, ma dal modo, dalla qualità della relazione con cui l’io gli si pone di fronte.
«I diversi tipi di relazione si modificano, quindi, in base all’atteggiamento assunto, infatti anche un essere umano può essere trattato da oggetto, da Esso, e viceversa.»
 
Potrebbe riassumere con una frase l’idea di «ospitalità» veicolata nel libro?
«L’autentica ospitalità comincia dal non porre se stessi come meta. Dal punto di vista educativo, per esempio, nell’abituare fin dalla scuola i bambini a crescere nella relazionalità, entrando in empatia con l’altro, mettendosi nei panni dell’altro, imparando a costruire insieme, vengono messi in campo dei talenti e sviluppate delle potenzialità che realmente aiutano a crescere.»
 
Tra le sfide oggi particolarmente rilevanti lei annovera la costruzione delle comunità e l’interculturalità. Potrebbe condividere brevemente un pensiero a riguardo?
«Possiamo pensare alla comunità come un’identità plurale, si autentica e si realizza perché è aperta alle altre comunità. All’interno di questa dimensione si instaurano relazioni particolarmente intense ma c’è anche una progettualità, intesa verso valori alti.
«È da intendersi quindi come un qualcosa di aperto, il pericolo è proprio la chiusura, la mancanza di relazione con altre realtà. Il discorso della comunità è particolarmente rilevante anche in ambito educativo, è molto importante, infatti, abituarsi fin da piccoli ad essere aperti agli altri.
«La relazione interpersonale è importantissima, ed è un punto di partenza, certo, però l’incontro che si sperimenta già nel piccolo gruppo, pensiamo all’attività scolastica, o nella comunità, è una dimensione altra, ulteriore.
«Possiamo pensare all’interculturalità come a un incontro tra dimensioni comunitarie diverse. Rappresenta una delle sfide fondamentali di tutte le epoche, e specialmente oggi, visto il tasso di migrazione, si deve essere capaci di incontrare l’altro.
«Altro che è l’altra cultura. Accogliere l’altro non significa renderlo uguale a noi, azzerando le differenze, ma nemmeno deve accadere il contrario, perdendo le proprie radici. È un rimanere uniti nella diversità, nel rispetto reciproco.»
 
Come è strutturato il volume e a che pubblici si rivolge?
«Il libro è rivolto soprattutto al mondo degli adulti, siano educatori, genitori e non solo. Il punto di partenza è una riflessione sulla complessa realtà odierna, pensando all’educazione. L’educazione è un percorso che parte da una realtà per arrivare a una finalità.
«Nei diversi luoghi nei quali esplica la sua azione (famiglia, scuola, associazioni ecc.), ha il compito di far incontrare, insegnando a usare il pensiero, la parola, in favore del dialogo autentico. Il volume è stato pensato come una sorta di sceneggiatura composta da tre capitoli, tre atti, ovvero tappe di un itinerario educativo complesso.
«Nel primo capitolo metto a fuoco la realtà che ci sfida con i suoi molteplici problemi. Parlo della modernità arida dei muri che innalziamo quotidianamente, con una serie di citazioni. Nel secondo capitolo mi chiedo dove vorremmo arrivare, quindi metto in luce la finalità.
«Nell’educazione non può non esserci una finalità. Nel terzo capitolo evidenzio quale percorso intraprendere, indico una sorta di decalogo pedagogico attraverso dieci parole chiave e poi dieci passi della relazionalità, che sono come dei consigli di movimento, degli atteggiamenti da adottare.
«Complessivamente è un discorso in tre atti che parte da un palcoscenico vuoto e che diventa una sorta di percorso formativo, una proposta concreta, attuabile.»
 
Lei individua alcuni passi necessari per costruire rapporti interpersonali; fra i vari atteggiamenti indica l’accettazione dell’alterità. Che cosa significa davvero accettare l’altro?
«L’accettazione è il presupposto della relazione autentica, ogni incontro con l’altro si autentica nell’accettazione della sua diversità. È una parola che merita di essere sottoposta a una riflessione profonda; alle volte si usa con accezione negativa, si dice devo accettare qualcosa, la situazione ecc.
«Da un punto di vista etimologico, deriva da accip?re, prendere con sé, accogliere; acceptare, frequentativo di accip?re, vuol dire proprio farsi carico delle difficoltà dell’alterità. È interessante notare come accip?re abbia un’etimologia simile a un verbo parallelo che è conc?p?re, generare, far nascere.
«Carl Rogers, famoso psicoterapeuta statunitense, è stato il teorico dell’accettazione incondizionata in ambito terapeutico ma anche educativo, l’accettazione dell’altro, in terapia e anche in educazione, naturalmente, è un dare la vita all’altro. Quindi l’accettazione dell’altro di cui parlo, l’accettazione del Tu, non è una cosa tanto semplice, è già una dimensione maieutica.
«Tu accettando dai la vita, generi qualcosa di positivo. E viceversa, se ti senti accettato cominci ad accettare te stesso, perché talvolta non ci si accetta. In ambito educativo, l’educatore dovrebbe coltivare la capacità di non porsi di fronte ai diversi soggetti con gradi differenti di accettazione. In estrema sintesi, la sua disponibilità dovrebbe essere massima nei confronti di tutti, rispettando la diversità di ciascuno.»
 
Viviamo in un’epoca di individualismo esasperato. Come è possibile oggi ridare consistenza al progetto educativo?
«Coinvolgendo i vari attori, specialmente i genitori, perché il percorso dell’essere umano parte proprio dai genitori.
«Ogni bambino ha degli adulti di riferimento fin dalla nascita. E poi c’è la scuola, naturalmente.
«Partirei proprio dai genitori attraverso una formazione capillare nei territori, dando vita a dei momenti formativi per rendere consapevoli più persone possibile.»
 
Potrebbe accennare alle «pratiche dialogiche» di cui parla nel libro?
«Queste idee forti, l’essere umano dialogico, l’idea di persona, l’idea di comunità ecc., teoricamente importanti, poi bisogna calarle nei contesti.
«Le pratiche dialogiche possono essere pensate come delle strategie di lavoro sociale, culturale e pedagogico che si sono inizialmente sviluppate in Finlandia, applicazioni delle teorie di Martin Buber e Michail Bachtin.
«Lo scopo principale è quello di individuare le diverse forme di vulnerabilità sul territorio, di scoprire le risorse personali e comunitarie presenti ma inutilizzate, mettendo poi in atto esperienze formative dialogiche e partecipative che siano generative in ambito personale, culturale e politico.»
 
Queste idee hanno trovato da noi terreno fertile?
«Stefano Sarzi Sartori, che ho citato nel libro, ha scritto un interessante volume sulle pratiche dialogiche, riferendosi anche a quelle finlandesi. Insieme abbiamo collaborato ad alcuni progetti; per esempio nel contesto del Primiero e in altri luoghi abbiamo incontrato la comunità, facendo intervenire i vari attori, fra i quali gli scout, le associazioni ecc., abbiamo quindi cercato di coinvolgere la popolazione mettendo in atto delle strategie per rispondere alle sfide locali. È estremamente importante creare un sistema di relazioni, dare vita a occasione formative sul territorio.»
 
A cosa sta lavorando? Progetti editoriali futuri?
«Sto preparando gli atti di tre seminari che sono stati svolti negli anni scorsi, sia dal Conservatorio di Trento che dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Padova e da una sede universitaria che è in Toscana, dove abbiamo parlato di tre attività: musica, improvvisazione e arte, con la partecipazione di tanti autori, musicisti, pensatori, educatori, filosofi, teologi.
«Seguirà la pubblicazione di un volume di quattrocento pagine, che curo con una docente del Conservatorio, in uscita verso la fine di quest’anno.
«Per quanto riguarda i progetti futuri, mi piacerebbe scrivere un libro in cui poter sviluppare le tematiche a me care, partendo proprio dalla musica, dalle canzoni.»

Daniela Larentis – [email protected]