Ne parliamo col prof. Alessandro Quattrone – Di Nadia Clementi
Il direttore del Cibio: «Sono fiducioso sui risultati della ricerca, ma la politica non deve commettere errori: di fatto siamo già un dipartimento universitario di medicina»
Il direttore del Cibio Alessandro Quattrone - © Romano Magrone.
Che il Cibio sia una vera e propria punta di diamante del sistema universitario e scientifico della nostra provincia è ormai un fatto assodato.
Il Centro di ricerca dell’Università di Trento con sede a Povo infatti si è reso protagonista negli ultimi anni di innumerevoli prodezze nell’ambito delle biotecnologie per la salute umana: dallo sviluppo di un bisturi genomico per intervenire sul DNA malato, allo studio sul microbioma minacciato dallo stile di vita occidentale, dalla lotta alla fibrosi cistica fino allo studio di farmaci per malattie rare e poco conosciute.
L’approccio del Cibio è altamente interdisciplinare e integra al suo interno ricercatori esperti di chimica, fisica, informatica, matematica e ingegneria.
Il programma del Cibio è articolato in laboratori guidati da ricercatori indipendenti, ed è diviso in 4 principali aree: genomica e biologia del cancro; biologia cellulare e molecolare; microbiologia e biologia sintetica; biologia dello sviluppo e neurobiologia.
L’ultima volta che abbiamo parlato del Cibio erano gli inizi dell’anno in corso e il 2018 aveva rappresentato un vero e proprio anno d’oro per il Centro di ricerca con sede a Povo coronato dalla decisione di trasformarlo in dipartimento universitario, il cui direttore è Alessandro Quattrone fin dalla prima sua fondazione come Centro interdipartimentale, nel lontano 2007.
Quali sono dunque i traguardi raggiunti degli ultimi 12 mesi? Partiamo da una notizia recente, come la fondazione della start-up trentina Sibylla Biotech, che studia i farmaci del futuro e ha appena ricevuto un maxi finanziamento da 2,4 milioni di euro.
A coordinarla, insieme ad altri, ci sono Emiliano Biasini e Graziano Lolli, entrambi professori associati dell’Università di Trento proprio al Dipartimento Cibio.
Proseguono poi gli studi e i risultati nel campo della salute umana: dalle scoperte relative al microbioma intestinale e le sue relazioni con i tumori del colon, alla lotta alla fibrosi cistica con strumenti innovativi messi a punto dai ricercatori trentini, passando alle notizie più di cronaca, ma non meno significative, come la storia di Emma, una ragazza di 21 anni che ha scelto di studiare proprio al Cibio per indagare sulla rara malattia neurodegenerativa che le è stata diagnosticata da bambina.
Un centro di eccellenza che da oltre 10 anni colleziona successi e crea ricchezza sul territorio, attirando investitori e start-up.
Crescendo però, c’è bisogno di spazio: quelli attuali, a Povo, non sono più sufficienti per ospitare tutti i ricercatori e gli studenti del Cibio.
Così è sorto il problema di dove spostare la sede del dipartimento. Le ipotesi sono tre e tutte sono allo stesso livello.
L’ultima, in ordine di tempo, è quella che vuole per il Cibio un futuro a Rovereto, al polo della Meccatronica.
Lì ci sarebbero gli spazi sufficienti per ospitare il dipartimento senza, per di più, spendere cifre importanti per la nuova struttura.
Ma questa ipotesi non viene ben vista a Trento, che non vuole lasciarsi sfuggire una risorsa così preziosa per il territorio.
La prima ipotesi storicamente avanzata per la nuova sede del Cibio era quella di Piedicastello, nell’area dell’attuale motorizzazione civile.
Già lo implica il piano guida per l’area Italcementi, il quale prevede anche un adeguato collegamento alla città tramite una passerella pedonale all’altezza di via Verdi.
La presenza del Cibio avrebbe completato un’area a forte vocazione scientifica ma non solo, visto che qui è prevista la realizzazione anche di uno studentato da 200 posti e i nuovi spazi fieristici.
La terza ipotesi che è quella di far restare il Cibio dove si trova allargando la sede attuale.
Per capire meglio il futuro del Cibio abbiamo intervistato il direttore del dipartimento prof. Alessandro Quattrone.
Prof. Quattrone, per il Cibio il 2019 è stato davvero un anno pieno di soddisfazioni. Quali sono le scoperte più rilevanti nell’ultimo anno?
«Occorre partire dal fatto che il Dipartimento Cibio pubblica circa cento articoli di ricerca all’anno, uno ogni due giorni lavorativi e mezzo, ciascuno dei quali è il risultato di un progetto di ricerca attivo spesso da anni, e meriterebbe certamente menzione.
«Ciò che decidiamo di diffondere, d’accordo con la Direzione Comunicazione dell’ateneo, sono le scoperte – per usare un brutto termine – più notiziabili, più traducibili nel linguaggio comune, e al tempo stesso più rilevanti.
«Se l’anno scorso è stato decisamente dominato dall’invenzione del bisturi genomico sicuro, che ha avviato un filone molto promettente per il laboratorio di Anna Cereseto, quest’anno l’hanno fatta da padrone gli incredibili risultati di Nicola Segata sul microbioma intestinale: con tre articoli a brevissimo giro su tre riviste di assoluta visibilità nel campo biomedico.
«Nicola ha completamente rifondato questo settore di ricerca, producendo il catalogo finale dei batteri dell’intestino (prima di lui erano noti il 65% dei batteri residenti) e dimostrando che alcuni di essi sono associati al carcinoma del colonretto. Risultati che lo hanno confermato come il ricercatore europeo di maggior spicco in questa area così calda della scienza. Non abbiamo altri ricercatori al Cibio di una tale visibilità internazionale.
«Potrei poi elencarle molti altri raggiungimenti, ma mi fermo qui, un elenco sarebbe noioso: basti dire che stiamo contribuendo con grande energia, e dall’Italia – cosa non facile, come si sa – ai progressi della biomedicina in tutti i suoi settori di punta, dalla biologia sintetica alla oncologia molecolare, dalla identificazione di nuove molecole attive come potenziali farmaci a quella di nuovi biomarcatori precoci di malattia, in uno spettro impressionante, per vastità ed eterogeneità, di malattie, e contribuendo anche in modo importante allo sviluppo di nuovi metodi di indagine.»
Nicola Segata - Microbioma.
Tante nuove scoperte e riconoscimenti in Italia e all’estero, i meriti sono anche dei finanziamenti della Provincia?
«Si può dire che nei 9 anni che vanno dal 2008 al 2016 la Provincia abbia coinciso, sul piano finanziario, con il Cibio, visto che ha messo a disposizione tutte le risorse per la nostra costituzione e il nostro primo consolidamento.
«Una aggiunta significativa di finanziamento si è avuta nel 2018, quando l’attribuzione di una quota cospicua del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale ci ha permesso di rimpiazzare alcune apparecchiature obsolete e di aggiungerne di nuove.
«Questo finanziamento aggiuntivo ci ha permesso di sfuggire per tanto tempo alle logiche redistributive dell’ateneo, che ovviamente hanno una gestione interna volta a privilegiare i progetti già a regime.
«Adesso siamo nella nuova legislatura, e i segnali che mi giungono sono decisamente positivi, c’è attenzione nei nostri riguardi, ma non posso pronunciarmi finché la nuova governance non comincerà ad assegnare risorse mirate a specifici progetti del territorio, se come tutti speriamo lo farà.»
La realtà del Cibio rappresenta un’eccellenza in Italia anche per il riconoscimento pubblico e i fondi stanziati. Nel resto d’Italia non accade spesso, si può fare ricerca anche in questo modo?
«Per rispondere a questa domanda prendiamo un attimo in considerazione i numeri del Cibio. Il progetto ha ricevuto 25 milioni di euro in totale per le infrastrutture (le macchine) - compreso l’ultimo finanziamento che ho citato e che tuttavia era competitivo - in poco più di 10 anni di attività significativa. Altri 20 milioni circa sono andati a finanziare il personale stabile e i suoi avanzamenti di carriera.
«Attualmente il dipartimento sopravvive con uno stanziamento da parte dell’università di 1,3 milioni all’anno, usati prevalentemente per la manutenzione degli apparecchi, a cui si aggiungono 2,5 milioni l’anno per gli stipendi.
«Ecco, queste cifre sono dalla metà a un quarto rispetto ai costi che riscontriamo in iniziative europee di biomedicina di qualità equivalente, certo non migliore. Perché? Un motivo è sicuramente la capacità dell’università di fare economie di scala, pagando l’infrastruttura di base (luce elettrica, acqua, spese per il mantenimento degli edifici ecc…) a cifre concorrenziali.
«Un’altra variabile a favore - si fa per dire - di Cibio sono i bassi salari previsti dalle tabelle stipendiali universitarie per il personale per così dire avventizio, dottorandi di ricerca e assegnisti di ricerca, e per il personale tecnico e amministrativo.
«Per rispondere quindi alla sua domanda, e per comprendere come ci posizioniamo rispetto al resto d’Italia, bisogna distinguere essenzialmente la ricerca pubblica convenzionale in biomedicina, rappresentata dalle università, dal CNR e dagli IRCSS (ospedali di ricerca), e quella di nuova concezione, costituita essenzialmente dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e dal costituendo Human Technopole.
«Possiamo dire che i primi versano nelle stesse nostre acque, molto perigliose, mentre gli ultimi progetti sono stati dotati di un supporto finanziario che vorrei dire eccessivo, soprattutto rispetto agli standard europei, fenomeno che ha determinato almeno per il caso IIT dei veri e propri sprechi, o quantomeno delle allocazioni discutibili.»
Il team di laboratori Cibio.
Quanti sono i giovani under 35 che lavorano al Cibio? Sono una risorsa incompresa?
«Abbiamo al Cibio 90 dottorandi di ricerca e 70 assegnisti di ricerca, per un totale di 160 giovani under 35 impegnati stabilmente. Se lei considera che l’azienda sopravvive con uno stanziamento universitario di 1,3 milioni all’anno oltre al mantenimento di base, credo si possa dire l’azienda più virtuosa del Trentino.
«I nostri giovani impegnati a tempo determinato sono la nostra vera risorsa, sono il cuore e vorrei dire il fine interno di ogni nostra attività. Purtroppo, li trattiamo male, per quanto sempre meglio che in altri contesti italiani. In termini salariali i dottorandi guadagnano 1.200 euro al mese, mentre gli assegnisti, in funzione della robustezza del curriculum, da un minimo di 1.300 a un massimo di 1.700 euro al mese.
«I dottorandi sono ancora in formazione, sono all’inizio della loro attività sperimentale e sono animati, con rarissime eccezioni, da una grande voglia di lavorare e da grande entusiasmo; forse concorre il fatto che per la loro entrata effettuiamo una rigidissima selezione.
«Gli assegnisti di ricerca invece sono per noi un problema di difficile gestione; sono ricercatori già formati, di una età compresa fra i 28 e i 40 anni, e dovrebbero essere il nostro strumento di punta per la ricerca. Dico dovrebbero perché di fatto il loro orizzonte temporale di permanenza presso la nostra università è di 4 anni, perché il nostro Senato Accademico ha modificato una norma nazionale che prevedeva in 6 anni il tempo massimo di ospitalità complessiva dei giovani ricercatori presso le strutture statali, a meno che non si incamminino verso la carriera accademica.
«Questa restrizione alla norma è stata fatta dal Senato a titolo di protezione della carriera degli assegnisti, ma da noi si rivela un perfetto boomerang, perché non vi sono facili posizioni accademiche da noi per tali ricercatori, e il livello di curriculum che raggiungono anche operando brillantemente in questi 4 anni dopo il dottorato è comunque insufficiente a mantenerli competitivi per altri ingaggi fuori dallo stato.
«Peraltro, questi ingaggi in Trentino di fatto non esistono, per cui ci troviamo a dilapidare sistematicamente un patrimonio straordinario di risorse umane di alta specializzazione, del quale approfittano di solito altri stati europei. Il discorso è estensibile anche ai dottorandi e ai nostri studenti.
«Quindi i nostri giovani ricercatori sono sì una grande risorsa incompresa sia dall’università che dal nostro territorio, il quale è involontariamente refrattario ad essa. La soluzione a questo problema sta solo nella nascita di un distretto biotech nel territorio trentino, soluzione per la quale personalmente sto lavorando, insieme ad alcuni colleghi docenti e tecnologi e agli esperti di Trentino Sviluppo e di Hub Innovazione Trentino (HIT), in modo intensivo.»
Cibio, ricercatori-laboratori.
La diatriba sulla nuova sede non è ancora finita, lei cosa auspica?
«Che molto presto si arrivi a una decisione. La sede di Povo, per quanto in corso di relativo ampliamento da parte universitaria, è ormai totalmente inadeguata alle nostre esigenze, anche in termini di rispetto delle norme di sicurezza. È un progetto nato male e condotto malissimo, quasi addirittura rimpiangiamo la vecchia sede, piccola ma molto funzionale, di Mattarello.
«Qui devo fare un appunto alla nostra università, che dimentica troppo spesso le numerose, delicate esigenze che un Polo Scientifico moderno di un ateneo ha. In collina il personale tecnico e amministrativo è insufficiente, la gestione logistica estremamente lenta e burocratizzata. Per non dire dell’architettura totale del Polo Scientifico: c’era l’occasione di fare un vero campus politecnico universitario, mentre il Polo di Povo è un’accozzaglia di grandi edifici aggiuntisi nel tempo senza un piano strutturato, completamente privo di servizi di ogni genere (cose come un asilo di ateneo o una palestra), un luogo dove prendere un caffè in un bar chiacchierando con i colleghi è pressoché impossibile dopo le 4 e mezza del pomeriggio, e dove gli autobus scaricano e caricano studenti su una strada molto trafficata, che taglia il cosiddetto Polo in due come una lama percorsa da automobili che passano a velocità elevata, col rischio continuo di incidenti.
«Quindi il mio auspicio è che il Cibio continui la sua storia in una sede più consona alle sue esigenze, e che possa contribuire a strutturare in modo adeguato per non incorrere nella catena impressionante di errori commessi nell’edificio attuale.
«A mio avviso Piedicastello, l’area ex Italcementi, avrebbe tutte le caratteristiche per funzionare come area dedicata alle Scienze della vita in Trentino; era peraltro l’area prescelta in origine dall’università per costituire il Polo Scientifico dai fondatori colleghi fisici, idea abbandonata subito dopo per motivi a me non noti, a cui è seguito il ritiro presso le colline di Povo.
«E sì, portare la sede a Rovereto permetterebbe esattamente quello che lei dice.»
Sede attuale Cibio.
Portare la sede a Rovereto vorrebbe dire posare la prima pietra per un polo dedicato alla scienza e alla tecnologia, la piccola ma vivace Povo non rischia di svuotarsi?
«Figuriamoci. Povo esisteva prima del nostro arrivo, e continuerà ad esistere dopo. Manterrà questo carattere un po’ abnorme di piccolo borgo con una quantità enorme di infrastrutture scientifiche e tecniche e certamente il mercato degli affitti rimarrà solido.»
La location di Rovereto. -Foto ® Efrem Bertini.
Quali i vantaggi di avere una sede roveretana?
«Ce ne sono di numerosi. Il primo è la nascita intorno al Dipartimento Cibio di un incubatore biotecnologico in cui far venire a stabilirsi aziende dedicate al biotech rosso. Sul fatto che il Cibio potrebbe funzionare da attrattore non ho alcun dubbio, perché nell’arco di dieci anni di vita abbiamo dovuto dire no a ben dieci aziende che si sarebbero molto volentieri inserite al nostro interno per venir incubate, una delle quali capitalizzata con venti milioni di sterline e desiderosa di fare molta ricerca.
«È stata questa una grande opportunità perduta, e che potrebbe essere riscattata soltanto dalla collocazione roveretana del Cibio. Peraltro, quando penso al vero tesoro che abbiamo, quello dei 160 tra dottorandi e assegnisti, o dei 120 studenti all’anno in uscita che presto perderemo dopo averli formati, penso anche che l’unico modo per trattenerli sia quello di favorire l’insediamento di aziende biotech, con la creazione di nuovi posti di lavoro.
«E ciò, per le ragioni che ho detto, verrebbe enormemente favorito da una nostra collocazione a Rovereto, nello spazio di Manifattura Domani, che per altro è un complesso architettonico di una bellezza e di una funzionalità rari.
«Ma occorre in questo caso che la città si organizzi per l’arrivo di quasi un migliaio di persone, fra cui almeno 400 studenti.»
Oltre ai nuovi spazi, quali sono attualmente i vostri bisogni fondamentali?
«Abbiamo anche un bisogno di maggiore riconoscimento, di visibilità politica e presso la popolazione trentina. È notizia di questi giorni l’intenzione della giunta provinciale di avviare un nuovo corso di laurea, quello in medicina e chirurgia, appaltando la cosa a un ateneo esterno, molto probabilmente l’Università di Padova.
«Questa scelta, che avrebbe conseguenze disastrose, deriva fra le altre cose dal fatto che i nostri politici non sanno quel che hanno in casa.
«Il Dipartimento Cibio è di fatto un dipartimento universitario di medicina, che produce ricerca di alta qualità in ambito medico e che è perfettamente in grado di funzionare da centro aggregatore di un corso di laurea di questo tipo, peraltro permettendo di risparmiare al novanta per cento il costo dei primi tre anni del corso, perché i nostri docenti, insieme a qualche sostegno da parte dei colleghi di Fisica e Matematica, sono perfettamente in grado di garantire quegli insegnamenti.
«Questa vicenda, che mi auguro si risolverà per il meglio, deriva anche dalla nostra incapacità di comunicare noi stessi al mondo politico trentino. In più ci servirebbe una maggiore visibilità presso la popolazione, perché credo che se riuscissimo a comunicare meglio quello che facciamo potremmo realizzare delle campagne efficaci di finanziamento dei nostri progetti in Trentino, per sopperire alle mancanze del finanziamento nazionale.
«A questo proposito, una cosa che ci sarebbe enormemente utile è anche la possibilità di accedere ai bandi del Ministero della Salute, l’unico a realizzare una campagna adeguata di finanziamento, costante e attendibile nei meccanismi, per la sanità.
«Ancora una volta il fatto di non avere in Trentino la Medicina e soprattutto di non avere un ospedale di ricerca (i cosiddetti IRCCS, Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) è estremamente penalizzante perché ci preclude l’unica fonte di finanziamento nazionale alla quale potremmo attingere.»
Laboratorio ricerca malattie neurodegenerative, del neurosviluppo e psichiatriche.
Su cosa si stanno concentrando le vostre ricerche? Il cancro è certamente il tema che attira l’opinione pubblica e la battaglia contro questa malattia è la sfida del vecchio e del nuovo secolo, lei è fiducioso in merito?
«Le nostre ricerche al momento vertono su quattro aree: la prima è la ricerca di base, importantissima ma difficilissima da finanziare in Italia, sui meccanismi di funzionamento della cellula. Studiamo poi le malattie infettive, virologia e microbiologia, e abbiamo un nucleo nutrito di laboratori impegnati su neuropatologia, malattie neurodegenerative, del neurosviluppo e psichiatriche.
«Abbiamo poi 14 diversi gruppi di ricerca che lavorano sul cancro, la divisione del Cibio più numerosa, meglio finanziata (contiamo ben 7 progetti finanziati da AIRC) e con la maggiore qualità di risultati scientifici.
«Io sono molto fiducioso sulla nostra possibilità di sconfiggere il cancro, in un futuro neanche così remoto.
«Le scoperte degli ultimi dieci anni ci hanno portato a un livello straordinario di comprensione della malattia, che abbiamo cominciato a combattere usando farmaci nuovi, dei proiettili intelligenti in grado di identificare e colpire specifiche lesioni presenti solo in cellule cancerose. E abbiamo anche trovato il modo di risvegliare il fisiologico attacco immunitario dell’organismo verso il tumore, con risultati incredibilmente positivi. In più, la genomica adesso ci permette di vedere con precisione in cosa differisce un tumore da un altro in termini di lesioni dei geni, e di approntare terapie personalizzate.
«Sono molto, molto fiducioso.»
Cellule.
Quali sono, a suo parere, le grandi sfide della ricerca biomedica per il prossimo triennio? A quali traguardi puntate per il 2020? E il Trentino sarà in grado di affrontarli in modo competitivo e di qualità?
«La ricerca biomedica nel prossimo triennio dovrà a mio avviso consolidare i grandi risultati ottenuti nel triennio precedente nella terapia antitumorale e capire perché una frazione di pazienti non risponde alla terapia, trovando una soluzione anche per essi.
«Dovrà anche uscire dall’impasse in cui si trova nella terapia delle malattie neurodegenerative, grazie ai risultati che stanno avendo le tecniche di editing del genoma, il bisturi genomico come lo abbiamo chiamato, all’approntamento del quale come si sa abbiamo grandemente contribuito con una nostra ricerca di successo
«A marzo 2020, quando festeggeremo il nostro decennale, racconteremo gli obiettivi di ricerca che ci stiamo dando per i prossimi dieci anni. Anticipo che stiamo strutturando la nostra ricerca su alcune Grand Challenge, come dicono gli americani, obiettivi molto ambiziosi e molto pratici di biomedicina per il futuro.
«Uno di questi lo anticipo, ed è la possibilità di fare diagnosi precoce del cancro con un semplice prelievo di sangue. Se il Trentino saprà affrontare o meno in modo competitivo questi traguardi dipende direi meno da noi che da altri.
«Il nostro motore romba ed è ben manutenuto, ma qualcuno deve spianarci la pista. Questo qualcuno è la politica, con la quale abbiamo eccellenti rapporti ma che rischia di commettere degli errori – come quello che ho detto per la scuola di medicina – che ci creerebbero invece delle buche pericolosissime nel percorso. Confido che ciò non avvenga, che verremo ascoltati.»
Nadia Clementi – [email protected]
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