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Storie di donne, letteratura di genere/ 553 – Di Luciana Grillo

Ivana Saiko, «Piccole morti» – Un applauso convinto sia all’autrice di questo romanzo suggestivo e inquietante che... alla bravissima traduttrice

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Titolo: Piccole morti
Autrice: Ivana Sajko
Curatrice: Elisa Copetti
Traduttrice: Alice Parmeggiani
Editore: Voland, 2024
Genere: Letteratura femminile contemporanea
Pagine: 128, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
 
Chi ha letto l’Ulisse di Joyce ricorda il flusso di coscienza, vede pagine e pagine in cui le parole si susseguono senza punteggiatura, segue per ventiquattro ore la vita dei dublinesi, incontra Leopold Bloom, sua moglie Molly e l’intellettuale Stephen Dedalus.
In «Piccole morti» i brevi capitoli si susseguono, le parole sono accompagnate dalle virgole, non ci sono punti.
Dunque si legge e si vive qualche breve pausa, eppure la lettura non stanca, anzi coinvolge: il protagonista è in treno, va dal sud verso il nord, guarda, osserva, ricorda, rivive, scrive.
 
Chi legge, attraversa luoghi, stati d’animo, situazioni storiche visti dagli occhi del viaggiatore, un giornalista free lance, uno scrittore di scarso successo che va a Berlino dopo la fine di una relazione: «…non cerco nulla e non desidero nulla, tranne scrivere, ma non ce la faccio e non ce la faccio e non ce la faccio, quindi taccio, sebbene quel silenzio non lasci cicatrici a nessuno tranne che a lei, come pure i libri che non ho scritto non mancano a nessuno tranne che a me, è la nostra vita, era la nostra vita… Potrei viaggiare così per sempre, senza nessuna meta, senza scendere dal treno a Berlino…».
 
Ripercorre la sua esperienza in teatri di guerra, quando «contro la loro incredulità si ergevano le nostre metafore e concetti disfunzionali come i valori europei… mi servì del tempo per ammettere che io stesso salvavo l’apparenza… con le mie dichiarazioni anche io rimandavo lo stato di emergenza che era già cominciato, con la mia fede, speranza e positività facevo violenza ai fatti… avrei potuto ritirarmi, ma non lo feci, perché avevo le diarie pagate per questo, nascondevo il mio cinismo e il mio dubbio e la mia confusione e la mia paura…».
 
E dalle guerre raccontate passa ai ricordi di famiglia, alla violenza del nonno, alla fuga con sua madre e suo fratello per salvarsi da un padre malvagio, al soggiorno presso la nonna, all’incontro con una vecchia signora bavarese che alla domanda: «a che serve lo stato?» rispose, decisa: «lo stato non deve servire a nulla. Lo stato si ama», alla maledizione che aveva colpito suo padre, tanto che «le donne al tavolo della nonna ci guardavano con un misto di pietà e di disprezzo… in ogni cosa vedevano tracce della maledizione, tracce di violenza, tracce di autodistruzione».
 
Il giornalista viaggiatore non può non pensare alla donna che ha amato, vorrebbe dirle che scrive «della morte dell’amore, fingendo di scrivere della morte di mio padre, della morte di mia madre, della morte dell’Europa, e che capisse quello che le sto dicendo, perché queste morti non possono toccarmi come mi toccherebbe la nostra morte, il nostro fallimento, la nostra sconfitta… e proprio nel divario tra la sua probabile consapevolezza e i miei pensieri inespressi è cominciata la nostra morte…».
 
Naturalmente non può non fare riferimento alla situazione politico-sociale dell’Europa che «sprofonderà nella sua ipocrisia, nei suoi interessi locali, nella sua cosiddetta democraticità, di cui si serviranno i diversi fascismi in una lotta unitaria contro la ragione…» e alla sua Berlino, al percorso in bicicletta da Kreuzberg verso ovest.
Insomma, ricorda e ricorda e ricorda: «L’infanzia è una fotografia che ha smesso di essere una fotografia, perché non mostra quasi più nulla, i colori sono sbiaditi, le persone somigliano a spiriti, hanno appena un accenno di mano o occhio, luogo o momento…».
 
Rivede suo fratello e lo specchio per far morire le talpe, l’appartamento della nonna e la casa estiva in montagna, il piattino con polvere di caffè che serviva alla nonna per leggere il futuro, le visite della mamma che portava doni e denaro.
E infine arriva alla meta, il viaggio finisce: in un appartamentino che ha affittato, preso dall’inquietudine «per la quantità di cose sconosciute», si lascia confortare dal messaggio che un amico gli ha mandato sul cellulare: «il bello delle continue partenze è che a un certo punto quel folle vagare ti riporta dalle persone che ami»… ma sarà proprio così?
 
Un applauso convinto va all’autrice di questo romanzo suggestivo e inquietante, un altro alla traduttrice che ha saputo regalarci parole e pensieri coinvolgenti.

Luciana Grillo - g.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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