Storie di donne, letteratura di genere/ 360 – Di Luciana Grillo

Anna Kantoch, «Buio» – Una donna si confessa: «Quanto vorrei essere me stessa… dimenticare tutto… vorrei entrare in quel bagno e prendermi tra le braccia»

Titolo: Buio
Autrice: Anna Kantoch
 
Traduttore: Francesco Annicchiarico
Editore: Carbonio Editore 2020
 
Pagine: 192, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
 
Vincitore del Premio Zulawski nel 2012, questo romanzo, pubblicato solo nel 2020 in italiano, ci trasporta in una Polonia lontana, in un mondo sempre in bilico tra realtà e immaginazione, in ambienti assai diversi tra loro – un sanatorio per malati mentali sul Baltico, la casa delle vacanze a Buio, quella della prima infanzia a Saska Kepa, l’abitazione del fratello maggiore Franciszek a Varsavia – che l’io narrante, una donna senza nome, descrive connotando ogni capitolo con un «Adesso» o un «Ricordi».
Nell’Adesso c’è il sanatorio, dove «sembra di trovarsi in uno di quegli stabilimenti termali alla moda, abbiamo un campo da tennis e le serate di bridge, il grammofono e la radio… Mangiamo, passeggiamo, giochiamo a tennis… Siamo piuttosto in salute, forse solo un po’ stanchi, un po’ perduti. Abbiamo il diritto di vivere.»
 
Ma c’è anche il suo essere donna, «sono sola, senza tutela maschile…», come nei Ricordi, quando riflette sui suoi fratelli e sulla sua solitudine: «Franciszek era di papà, e Stas di mamma. Io ero tra i due, la figlia di mezzo e di nessuno… le madri dicono sempre cose così, che i figli più grandi devono essere responsabili e dare l’esempio ai più piccoli scatenati. Solo per me manca un ruolo definito. Sono una bambina, poco più di un rudimento femminile, un essere informe a cui si permette di giocare con i propri fratelli».
La piccola donna rifiuta ruoli e stereotipi, «quando Franciszek e Stas ricevono un libro sugli indiani da nostro padre… io ne sono esclusa: sono una bambina e quindi mi regalano una bambola, che non voglio, preferisco il libro».
 
Da adulta, ha nostalgia dell’infanzia, si sente diversa, si riconosce in un uomo mai visto prima, «esattamente identico a me. Un diverso, uno straniero a questo mondo» la cui presenza - vera o no? - la fa sentire meno sola.
Si rifugia nel passato, «ho nostalgia dell’essere bambina… una bambina con un vestito fino al ginocchio e le sue odiose scarpine… I miei ricordi si cancellano spesso… i colori sbiadiscono, gli eventi si perdono nell’oblio», poi si affacciano prepotenti quando un viso, una parola, un odore le richiamano alla mente il passato.
 
Le torna davanti agli occhi il viso bello di Jadwiga, in cui finisce con l’identificarsi; rivede lo sguardo del padre che la dimentica come figlia, «Tadeusz mi fissa negli occhi. Tutto in lui, il suo viso, i suoi gesti, tutto mi dice quanto sia concentrato solo su di me…siamo solo noi due, quasi fuori dal mondo… Un bell’uomo mi sta lusingando…, e ho finito per farmi irretire dal suo fascino… L’irrealtà mi sovrasta come il velo di una sposa».
E poi si concentra su Jadwiga, dice a se stessa: «L’amore verso un uomo è un amore semplice, per lo meno si sa cosa si vuole da un uomo. L’amore verso una donna è decisamente più complesso» e si chiede: «Cosa avrei voluto, io, da Jadwiga? Essere la sua migliore amica, sua sorella, sua figlia adottiva? Tutto questo insieme, e molto di più. La parola amante emerge dalle rive della coscienza…».
 
Ora bambina, ora donna, ora Jadwiga reincarnata, ora figlia vivace e qualche volta un po’ troppo maschiaccio («nella mia non memoria c’era quella bambina maleducata che si arrampicava sugli alberi… ma quando cantavo il Te Deum insieme a tutti gli altri, la mia anima purgata del peccato si innalzava, pronta a sedere alla destra del Padre»), finisce col capire che «era tutto un inganno: la fede dei miei genitori, la loro apprensione e il loro amore, la nostra gioia quando passeggiavamo nei campi blu dei nontiscordardimé. Tutto».
E all’improvviso a Buio, durante un te in giardino «ho la sensazione che siamo tutti stanchi: di questo fine settimana, dell’estate, di stare insieme e di fingere».
 
Affiorano i ricordi che scacciano la finzione, compaiono la vera Jadwiga, le sue mani che «scivolavano sulla mia pelle, lasciando una traccia infuocata… Desideravo così tanto sparire, svanire tra le sue braccia calde e forti…», uno scricchiolio o un filo di vento, «aprii gli occhi e trovai il volto scioccato di mio padre… da quel momento in poi i miei ricordi si fermano».
E anche la recensione si ferma, per non dire troppo, per non rivelare fino in fondo la storia di questa donna che dice a se stessa: «Quanto vorrei essere me stessa… dimenticare tutto… vorrei entrare in quel bagno e prendermi tra le braccia».
 
Luciana Grillo – [email protected]
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