Sul cammino di San Benedetto/ 2 – Di Elena Casagrande
Dalla pianura reatina, detta Valle Santa per il legame con la vita di San Francesco, proseguiamo lungo il Turano, tra i borghi più belli d’Italia, nella Sabina laziale
Teo sul sentiero e Cantalice sullo sfondo.
(Link alla puntata precedente)
Di buonora scendiamo da Poggiobustone, in un bosco «dipinto», fino a San Liberato per poi risalire a Cantalice. Abbarbicato alla montagna, sembra un presepe.
Il bar è aperto e la tv accesa. Pare che l’Italia abbia vinto un altro oro.
«Chi l’ha vinto?» chiedo a Teo.
«Tita e Banti!»
«Davveroooo? Tita è trentino come noi!», – Esclamo! Ma i ragazzi del bar continuano a fumare, in silenzio.
Alla Chiesa incontriamo due pellegrini che stanno facendo il Cammino di San Francesco. Almeno loro parlano volentieri.
Poco dopo, all’Eremo di San Gregorio Magno, ci incuriosiscono alcuni cartelli. Un signore, che sta tagliando l’erba, ci saluta.
«La Sala del disastro aereo del Terminillo è chiusa, ma vi mostro un’epigrafe risalente al Consolato di Caio Cassio e Publio Licinio. Ne ha parlato anche Teodoro Mommsen… roba grossa.»
Ci fa entrare in chiesa, ce la illumina e poi ci offre dei ricordini, senza impegno. Col ricavato paga la bolletta della luce.
Gli lasciamo 5 euro, senza prendere nulla.
Ma lui insiste: ci dà il santino e ci regala un chiodo trovato durante il restauro.
«Vi porterà bene!», – dice, guardandomi con occhi lucidi e sorridenti. Quegli occhi… mi riempiono il cuore.
Santino con Teo davanti a San Gregorio Magno.
Il messaggio di S. Francesco ha una forza magnetica anche ai nostri giorni
Si cammina all’ombra, tra roveri e castagni, mentre le zanzare mi mangiano viva, fino a La Foresta.
Qui, al Santuario di Santa Maria, San Francesco si riposò prima di affrontare l’operazione agli occhi.
A Subiaco, osservando il suo affresco, si nota che un occhio è più piccolo dell’altro. Non è un'imprecisione del «ritrattista», ma il risultato di quell’intervento chirurgico, avvenuto a Fonte Colombo, nel 1225.
Stanno aspettando di entrare anche dei pellegrini parrocchiali di Desenzano: sono quelli visti a Norcia, sotto il noce, nella piana di Santa Scolastica. Scalpitano, impazienti di iniziare la visita.
Il Santuario de La Foresta di Rieti.
Arrivato il nostro turno, un ragazzo della comunità «MONDO X», che vive e lavora qui per ritrovarsi, ci illustra con passione e dedizione la Chiesa, il chiostro, la domus di Francesco, la vasca del miracolo dell’uva e la pietra dove dormiva il Santo di Assisi. Ci emoziona.
È una pena lasciare quest’oasi di pace. Dal Santuario, in 3 chilometri, raggiungiamo la periferia di Rieti, sporca e trafficata. In centro, invece, la città è elegante e linda.
Ci rinfreschiamo con un aperitivo in Piazza Cesare Battisti. Per il pranzo, optiamo per una trattoria.
«Alla Botte» si va di bruschette miste, maialino e pancetta al forno e crostata di fichi.
Dopo un po’ apre la Cattedrale di Santa Maria Assunta e, finalmente, possiamo visitarla. Meritano la cripta e la mostra dei presepi.
La Cattedrale di Santa Maria Assunta a Rieti.
In cammino, quando arrivo in una città, desidero lasciarla quanto prima
Il mattino seguente, attraversato il ponte romano, facciamo colazione al bar La Lira, davanti al monumento alla nostra vecchia moneta.
Finito l’asfalto e dopo un brutto tratto a fianco della Salaria, uno sterrato tra i campi devia verso Belmonte.
La salita è erta. Hanno disboscato e il sentiero è sconnesso e scivoloso. In compenso la vista ripaga della fatica.
Il borgo sembra quasi un transatlantico, immerso in un mare verde, tra due catene di monti, una a destra e una a sinistra. In fondo alla via centrale il bar è aperto, visto che in agosto i paesani sono tornati dalla città.
Per fortuna arriva la panetteria ambulante. Possono farci i panini.
«A noi andrebbe bene col crudo e un goccio d’olio d’oliva… se possibile.»
«Certo, come no!»
Mentre ci sediamo fuori, sentiamo delle voci sul retro.
«Ahò, che c’hai dell’olio?»
«Sì, sì, te lo porto.»
Così, con la collaborazione di tutti, ci rifocilliamo.
All’entrata di Belmonte in Sabina.
I paesini sopra Rieti d'estate si ripopolano accogliendo i forestieri
A Rocca Sinibalda, raggiunta dopo diversi saliscendi lungo un bel crinale, alloggiamo fuori dal paese, al Conventaccio da Silvia e Augusto, due infermieri di Roma, molto gentili, che hanno ristrutturato con gusto questa casa di inizio secolo.
Dista circa 2 chilometri dal centro (4 km andata e ritorno), ma l’indomani saremo già sul cammino.
Nei pressi c’è anche una stazione di servizio, dove ci hanno detto che potremo fare colazione presto.
Dopo la doccia andiamo in paese.
Il castello, dell’anno Mille (ma con aggiunte successive), è a forma d’aquila: il mastio è il becco e la parte finale è la coda biforcata.
Purtroppo è privato e la visita, al nostro arrivo, non è più possibile.
Comperiamo delle arance: la sola frutta disponibile nell’unico negozietto aperto e facciamo il giro della rocca aspettando l’apertura del ristorante.
La «coda d’aquila» del Castello di Rocca Sinibalda.
La gastronomia dell’Alto Lazio subisce l’influenza delle regioni confinanti
«Non vedo l’ora di mangiare le specialità della Fontana, dico, entrando nel locale, dove avevamo prenotato un’oretta prima. Vengo accontentata.
La giovane figlia del proprietario ci offre il meglio della gastronomia di questa zona, contaminata dalla cucina abruzzese e non solo: fiori di zucchina fritti, tagliolini ai funghi, ravioli ricotta e mentuccia al pomodoro, salsicce e arrosticini.
E, come se non bastasse, continua: «Che verdure vi porto?»
«Quello che hai, andrà bene», – le rispondo.
«Per me delle carote grattugiate», – fa Teo.
Provo a guardarlo storto, ma lui insiste: «Sì… e la cicoria te la mangi tu».
La ragazza ripete: «Carote» e comincia a prendere appunti sul taccuino. «Crude e grattugiate», scrive.
«Alla faccia dei piatti tipici», commento.
L’antico ponte di Posticciola e dietro la diga del Turano.
Il cammino prosegue in compagnia di pellegrini, vigili del fuoco e turisti
Oggi si fa tappa doppia. Strada fino a Tomassella, poi sterrato. A Posticciola c’è un’esercitazione dei VVF e la Trattoria di Elena è troppo affollata per una pausa. Peccato!
Usciamo dal ponte romanico (che qui chiamano romano) fino a raggiungere la diga.
La strada è interrotta da una frana, ma si passa.
Castel di Tora si fa desiderare. Quando finalmente ci siamo… bisogna salire! Che fatica. Pranziamo con due panini, al Bar Dea, davanti alla fontana. Ci sono molti turisti.
Arrivano anche i sei bresciani, quelli «raccattati» in auto da Feliciano. Sono paonazzi in volto. Li saluto da lontano.
La signora bionda ci raggiunge al tavolo. Spiega che loro sono dei veri camminatori.
«Abbiamo fatto anche un altro cammino, quello del Sud della Spagna, d’estate», – mi racconta.
Le domando: «Ah sì e quale?»
Non le viene in mente.
«Forse la Via de la Plata?», – le suggerisco.
«Sì, sì, quella.»
«L’ho percorsa anche io, a piedi, nel 2006, in agosto. – le dico. – È stata dura, ma mi ha lasciato un ricordo indelebile.»
Lei tace e io penso: «ALSA (società di trasporti in bus) e N-630 (strada nazionale Ruta de La Plata): quello avete fatto».
Il Lago del Turano visto dai Monti Sabini.
Dai Monti Sabini la vista spazia su pascoli, borghi arroccati e sul Lago del Turano
Dopo la pausa pranzo continuiamo per Orvinio.
Attraversato il lago la strada si impenna, impervia, verso i Monti Sabini, dapprima con una rampa in cemento, poi ancora su, ora nel bosco, ora nella radura, fino ad un pascolo meraviglioso, popolato da mucche bianche, fiere e tranquille.
Da lì si vede anche il sentiero che abbiamo fatto: non c’è nessun pellegrino che sta salendo.
Devono essersi fermati tutti al fine tappa di Castel di Tora. Il valico è sopra, a 1.200 metri.
In basso si scorge appena Pozzaglia Sabina, paese natale di Santa Agostina Pietrantoni, patrona degli infermieri.
Scendiamo lungo un sentiero ripido, tra prati gialli. Essere montanari ci aiuta e voliamo a valle, per un meritato gelato.
Segnali del Cammino di San Benedetto nei pressi del valico.
Orvinio, uno dei borghi più belli d’Italia, è zeppo di turisti, stranieri compresi
Per me, sino ad ora, questa è la tappa più bella del cammino, assieme a quella del Terminillo.
Mancano 6 chilometri, ma nel mezzo ci aspetta un’altra sorpresa: il gioiello romanico di Santa Maria del Piano, fondata - si dice - da Carlo Magno.
La torre austera del suo campanile, quando sbuca improvvisamente tra gli alberi, dopo una prateria color senape, mi toglie il fiato. Si può entrare.
Sembra di essere sul set de «L’armata Brancaleone» di Monicelli. Ci sono anche i cinghiali.
Starei qui per ore, ma dobbiamo andare. Al B&B Souvenirs d’Antan la proprietaria ci dice che stava per vendere la nostra stanza a dei tedeschi.
«Ma come? Glielo avevamo detto che avremo fatto due tappe in una e che saremo stati qui per le 18.»
Per fortuna non l’ha fatto. E sotto al B&B, in pizzeria, chi vediamo prendersi una birra? I bresciani.
In cammino, come al solito, non si sono visti.
Teo mi dice: «Ma dai, non è possibile».
E io: «Aspetta, aspetta. Il cammino e il tempo sveleranno l’arcano».
Elena Casagrande
(La terza puntata del Cammino di San Benedetto sarà pubblicata mercoledì prossimo 9 novembre)
Santa Maria del Piano.