Giovani in azione: Kevin Delaiti – Di Astrid Panizza
La sartoria, passione genetica diventata lavoro. La storia di Kevin che a 23 anni ogni giorno nel suo laboratorio crea pezzi unici per i suoi clienti
Foto di Carla Manica.
Un vero atelier di moda, uno di quelli piccoli, dove tutt’attorno, appesi ai muri, vedi i vestiti finiti in attesa di essere consegnati ai clienti.
In questi luoghi magici che sanno ancora d’antico, si assapora da una parte il desiderio di possedere un abito su misura, dall’altra la maestria del saper interpretare al meglio le aspettative del cliente, del saper preparare abiti in maniera artigianale con la propria abilità e con le proprie mani.
Nell’epoca imperante del prêt-à-porter - l’alta moda adattata alle taglie standard pronta da indossare - è a questo prezioso settore di nicchia che ogni giorno si dedica con passione Kevin Delaiti, che a 23 anni gestisce il «55», un laboratorio di sartoria che si trova a Rovereto, in via Bezzi 27.
«Ammetto che ci vuole del coraggio ad aprire oggi un’attività in proprio, specialmente nell’ambito della sartoria e della moda. Sono riuscito a farlo, però, soprattutto grazie a mia madre, Carla, senza la quale ora non sarei qui.
«È lei che mi ha spinto sin dall‘inizio e che tuttora mi sostiene sia economicamente che spiritualmente in ogni passo di questo impegnativo percorso in salita. Insomma, ho trovato in lei un supporto fondamentale e per questo non smetterò mai di ringraziarla.»
Quale è stato l’antefatto di questa storia d‘altri tempi?
«Beh, come base professionale ho frequentato a Trento la Scuola di moda Canossa la quale mi ha dato le conoscenze necessarie per inserirmi nel mondo della sartoria. Conclusa la scuola sono stato poi preso per un po’ di mesi come stagista in due distinti laboratori dove ho potuto fare direttamente pratica sul campo.
«È stato in quel periodo che parlando con mia mamma ho iniziato ad abbozzare un sogno, quello di immaginarmi in un mio esclusivo laboratorio, fra disegni, stoffe e macchine da cucire. Un sogno in cui potere esprimere liberamente la mia creatività al servizio di qualsiasi cliente entrasse in sartoria.
«Per la verità è stata dura passare dalla dimensione del sogno a quella della realtà, una decisione all’inizio quasi sofferta perché se da una parte avevo un grande desiderio da realizzare, dall’altra avevo una paura tremenda a fare quel passo, a buttarmi in un’avventura che non conoscevo se non nei dettagli.
«All'epoca, ricordo, avevo appena 20 anni e credevo che in caso di insuccesso potesse succedere il finimondo. Adesso che tutto è andato bene, mi sono ovviamente ricreduto.»
Come è nata la tua passione nel creare abiti?
«Forse ti sembrerà strano, ma a dirti la verità non so ancora oggi da dove sia nata di preciso. Posso dirti, però, il periodo in cui è iniziata e cioè negli anni delle Scuole medie quando mi sono ritrovato spesso a schizzare disegni di abiti e modelli di moda. Mi piaceva questa cosa, anche se non avevo ancora maturato l’idea di trovare in esso uno sbocco lavorativo per la mia vita.
«È stata la mia mamma che un giorno ha trovato per caso la pubblicità del Centro moda Canossa e quindi è stato lì che alla fine delle Medie mi sono iscritto, cogliendo al volo l’opportunità offertami a poca distanza da casa mia.
«Chissà, forse questa passione è sempre stata dentro di me fino a quando non si è rivelata o è addirittura genetica perché mia nonna era una sarta e quindi magari mi ha passato proprio lei la predisposizione alle confezioni di moda.»
Il nome del tuo laboratorio, e conseguentemente del tuo marchio, è «55». Cosa si nasconde dietro a questo numero?
«Considero il 5 è il mio numero fortunato, anche per una serie di casi curiosi: sono nato il 5 dicembre e la somma dei numeri della mia data di nascita fa 5.
«Quindi per una credenza nella numerologia che mi piace, ho voluto utilizzare questi due numeri assieme perché chissà che non mi portino ancora più fortuna!»
In questi tre anni come sei cambiato e come è cambiato il tuo laboratorio?
«Fino adesso è andata molto bene. Sono sempre riuscito a pagare tutte le mie spese e ho parecchio lavoro. Chiaramente essendo un laboratorio artigianale, come tutti i lavori di questo tipo va a periodi.
«A volte ci sono più richieste, altre volte meno, però per il momento sono soddisfatto. Ciò che è importante è che sono cresciuto professionalmente e sento di crescere ogni giorno attraverso l’esperienza richiesta da nuovi impegni e da nuove sfide.»
A proposito di sfide, hai nuovi progetti per il futuro?
«Te lo dico sottovoce, ma mi piacerebbe tentare qualche nuova esperienza lavorativa. Vorrei poter aprire un laboratorio fuori dal Trentino, magari fuori regione.
«Per il momento è ancora un sogno, ancora più ambizioso del primo, ma sarebbe bello poter avere la possibilità di avviare altre idee in altre realtà e di espandermi.»
Quando una persona viene da te, cosa cerca di solito?
«Tendenzialmente cerca l'abito su misura. Vengono principalmente persone con fisicità particolari e che quindi fanno fatica a trovare l'abito adatto già confezionato. Oppure ci sono clienti che vogliono proprio qualcosa di particolare, di unico che non troverebbero mai se non facendolo su misura artigianalmente.
«È molto vario il mio target perché creando da zero permette di avere molte strade da percorrere.
«Attribuisco molta importanza al colloquio iniziale con il cliente. Secondo me è uno dei momenti più importanti del mio lavoro perché in quei pochi minuti cerco di capire cosa desidera veramente la persona che ho di fronte, quali siano le sue esigenze e quali i particolari su cui puntare.
«Approfondita questa parte, mi metto subito all’opera per tradurre in concreto le aspettative del cliente, per trasformare quell'idea in realtà.»
Il fatto che tu sia un sarto-uomo ti ha mai creato problemi?
«No, affatto. Ma sì, capita che a qualcuna faccia strano vedere un ragazzo che fa il sarto. Con alcune persone di una certa età è capitato che rimanessero interdette a vedersi davanti un uomo invece che una sarta, ma è sempre stata questione di attimi.
«Non dobbiamo dimenticare che i più grandi stilisti di oggi sono uomini. Io comunque vorrei rimanere un sarto, perché preferisco la parte pratica, manuale, è quella più divertente secondo me e che dà più soddisfazione.»
Qual è stato il tuo primo capo di abbigliamento?
«L'ho fatto ancora quando andavo a scuola. È stata una gonna semplicissima, senza niente di particolare. Il primo di quando ho aperto la mia attività invece è stata una giacca da uomo per un prestigiatore.
«Era una giacca da sera, elegantissima, che nascondeva al suo interno un labirinto di tasche a scomparsa, comunicanti, che si collegavano per tutti i suoi trucchi.»
Quello invece a cui ti sei affezionato di più?
«Di quelli ce ne sono tanti, perché ogni volta che si consegna un capo finito, si lascia in esso un pezzo di sé. Sono particolarmente legato a un abito da donna in stile celtico, ricamato a mano in ogni singolo dettaglio, confezionato per un'arpista che ho anche visto suonare al Teatro Zandonai. È un'emozione, una bella botta di soddisfazione vedere delle persone che indossano un abito che ho confezionato io, con le mie mani.
«Un altro che mi è rimasto nel cuore l'ho finito recentemente. È un abito da ballo, anche questo da donna, in stile ottocentesco, interamente fatto a mano con il corsetto rifinito in dettagli dell'epoca, indossato al ballo Asburgico delle Feste Vigiliane. «Anche in quel caso l'ho visto indossato mentre la ragazza ballava: è stato incredibile, come se il mio vestito prendesse vita.
«Come detto, in fondo tutti i miei abiti sono un pezzettino di me, un’opera d’arte unica, oserei dire. Per questo ogni volta è una grande soddisfazione.»
Dall’alto della tua seppur breve esperienza, cosa diresti a chi volesse avviare un’attività in proprio, ma ha paura a fare quel primo, fatidico passo?
«Ti rispondo con una battuta: non bisogna mai avere paura della propria paura. È importante ascoltare pure le emozioni negative, non solo quelle positive, perché sono proprio loro che spesso ci aiutano a metterci in riga.
«Se si ha timore, questo è buona cosa, non è negativo: significa che si ha consapevolezza dei rischi, che la testa è sulle spalle. Con tali presupposti è possibile disporre degli elementi di valutazione utili per una decisione finale. Poi, però, indubbiamente bisogna buttarsi, perché non si può aspettare in eterno il momento giusto.
«Se, invece, quel tentativo non dovesse andare bene si fa presto a chiudere e tornare indietro, a cambiare strada. Non finisce la vita solo perché un progetto di vita non ha funzionato. E poi, diciamoci la verità, non è forse peggio rimanere per sempre con il rimorso di non avere avuto quella volta il coraggio di provare?»
Astrid Panizza – [email protected]
(Puntate precedenti)
Si ringrazia la casa di produzione Will o Wisp per il contatto con Kevin Delaiti.