Giovani in azione: Pamela Alovisi – Di Astrid Panizza
Il sorriso di Pamela nonostante il suo vivere quotidiano con una malattia molto rara
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Pamela è una bella ragazza di 35 anni, un'insegnante di scuola dell'infanzia che ama i bambini e trasmette a loro tutta la sua allegria.
Ci troviamo in un bar, lei entra sorridente, con al seguito la sua fedele bombola di ossigeno, che le fa compagnia ormai da qualche mese per 24 ore al giorno.
«Si chiama Roxy, – mi dice ridendo. – Ho deciso di darle un nome dato che ci devo passare tutto il giorno assieme!»
Da dieci anni a questa parte, l'allegria che la contraddistingue è stata in parte offuscata da una grave malattia il cui nome pare essere uno scioglilingua: «Linfangioleiomiomatosi».
Questa patologia, che per comodità viene chiamata LAM, è fra le malattie polmonari quella più rara in assoluto.
Si tratta di una malattia degenerativa, il che significa che con il passare del tempo progredisce e al momento non è ancora stata trovata una cura, seppur la ricerca non si fermi mai.
Colpisce solo il mondo femminile, in particolare giovani donne in età fertile.
«Secondo le ultime indagini – ci racconta Pamela – in Trentino dovrei essere l'unica persona affetta dalla LAM, mentre in Italia in totale siamo circa un centinaio.
«Tuttavia non esiste un registro nazionale e quindi non si è sicuri di quante persone soffrano di questa malattia.
«C'è però un'associazione che riunisce le persone con la LAM, si chiama A.I.LAM. Onlus e fornisce sostegno e aiuto a chi dovesse averne bisogno, – continua Pamela. – Ho stretto amicizie molto forti con alcune ragazze dell'associazione che, come me, portano ogni giorno il peso di questa malattia.
«L'associazione, inoltre, ha come mission anche quella di informare i medici, dato che è una malattia così rara e poco conosciuta che perfino chi è del settore può non esserne perfettamente aggiornato.
«Infine A.I.LAM. si propone di sensibilizzare la popolazione per raccogliere fondi che andranno a sostenere la ricerca.»
L'IBAN per effettuare eventuali domazioni è i seguente: IT 12 W 08305 35820 000000057917.
Descrivendo gli effetti della malattia con parole semplici, possiamo dire che sulle pareti del polmone si creano delle bollicine che si possono unire formando una bolla più grossa, la quale scoppiando provoca uno pneumotorace, la presenza, cioè, di aria nella pleura che come conseguenza fa collassare il polmone.
La bolla cicatrizzata, poi, lascia dei segni profondi sul tessuto polmonare, in modo tale che con il tempo viene sempre meno la capacità respiratoria.
Come hai scoperto di avere questa malattia?
«Nel 2008, all'età di 25 anni, ho avuto il primo episodio di pneumotorace. Ciò che provavo era una forte fitta nella spalla, come se mi avessero piantato un coltello. Quel giorno stavo lavorando all'asilo e ho passato delle ore tremende, sentivo proprio male. Se mi piegavo, però, mi accorgevo che respiravo meglio.
«Alla fine della giornata sono andata in guardia medica da dove mi hanno mandata a fare i raggi: lì si è subito visto che avevo uno pneumotorace. Di solito nel giro di due-tre giorni una situazione del genere si risolve, ma nel mio caso il polmone non si riprendeva, quindi i medici sono intervenuti chirurgicamente prelevando un pezzetto di tessuto per esaminarlo.
«Il mese dopo sono arrivati i risultati e mi hanno convocata in ospedale. Pensa che sono andata all'appuntamento da sola perché, per casualità, mia mamma aveva un impegno alla stessa ora e quindi non poteva accompagnarmi. Ma ero fiduciosa, avevo in mano il referto con la risposta per cui si era finalmente capito di cosa si trattava. Di quella lunga parola impronunciabile, però, non avevo voluto cercato nulla su internet.
«Meno male - mi sono detta in seguito - perché in quel caso avrei trovato solo altri interrogativi alle mie molte domande e crudeli risposte che mi avrebbero fatto intravedere un futuro difficile...
«Quindi sono arrivata dallo pneumologo curiosa di sapere il significato di quella parola, ancora inconsapevole della gravità di ciò che mi sarebbe stato detto. Il medico mi ha gentilmente fatta accomodare e mi ha spiegato con parole semplici e delicate che ero affetta da una malattia rara, poco simpatica. Mi ha consigliato di non cercare informazioni sul web, ma di dare un'occhiata, invece, al sito dell'associazione A.I.LAM. Onlus, perché le referenti mi avrebbe aiutato a capire, a trovare risposte e sostegno.
«E così ho fatto. Ho conosciuto Elisa, la referente del Trentino, che mi ha dato un supporto psicologico non indifferente. In un secondo momento sono entrata in contatto anche con Eleonora, siciliana, fondatrice del sito Internet.»
Quali sono i limiti che ti ha imposto la LAM?
«Fin da subito mi è stato detto che non avrei potuto avere figli, perché ciò accelera in maniera esponenziale l’evolversi della malattia. Per farti capire, ho avuto un'amica che pur sapendo di essere malata ha deciso di avere un figlio, ma quando il bambino ha avuto un anno e mezzo lei è peggiorata e non ce l'ha fatta.
«I medici non ti nascondono nulla, ti dicono così perché vogliono, ed è loro dovere, mettere tutte le carte in tavola. Questo della negata maternità è stato, credo, il limite più grande che mi ha imposto la malattia.
«Ti dirò, però, che da qualche mese a questa parte sono diventata zia di due splendidi gemellini che ritengo davvero un regalo della vita e di cui mi prendo cura. Provo per loro una gioia e un amore immensi, che li fa sentire un po' anche miei.
«Un altro limite della mia condizione è quello del lavoro. Mi spiego meglio. Fin dall'inizio mi è stato sconsigliato di lavorare a contatto con i bambini per la facilità di trasmissione delle malattie. Anche una semplice influenza, infatti, per una persona come me, con basse difese immunitarie, potrebbe diventare un serio problema.
«A quel lavoro, tuttavia, non ho mai voluto rinunciare, almeno fino a quando non ho dovuto ricorrere all'ossigeno. Per cui dopo la diagnosi iniziale sono riuscita ad insegnare ancora per altri dieci anni e tutto ciò lo ritengo una grande vittoria nella mia personale battaglia contro la malattia. In questo periodo, dopo l’ultimo step che mi ha costretta a portarmi appresso la bombola dell’ossigeno, sono a casa in convalescenza. Più avanti, con calma, mi cercherò un lavoro d'ufficio.
«Mi sono sempre adattata a quello che capita. Infatti, avere la LAM significa che ogni giorno è tutto un tentare, uno scoprire, un mettersi alla prova. Paradossalmente i limiti imposti dalla malattia mi hanno permesso di conoscermi meglio, di ascoltarmi di più rispetto a quanto facevo prima.
«Ora sento quello che mi succede dentro, apprezzo le piccole cose, semplici, come rifarmi il letto o fare una passeggiata. È così, in queste situazioni, che ogni cosa diventa un traguardo.»
Dopo il trauma del primo momento, cosa è successo?
«Fin da subito ho deciso di darmi da fare. Non ho voluto che la malattia avesse il sopravvento su di me perché prendendo in mano le redini della mia vita ho scelto io di trarre il massimo, tutto il positivo da quello che mi stava succedendo.
«Ho quindi cominciato a fare anche cose concrete, come ad esempio raccogliere fondi per l’Associazione, esponendo una bancarella alla festa patronale del paese con cose fatte a mano dalla mia mamma e dalla nonna.
«Ho partecipato anche all’edizione di quest'anno, e Volano, il mio paese, ha reagito in maniera positiva dandomi supporto e aiuto fin dall'inizio.
«Da quel primo impegno sono felicemente scaturite iniziative varie proposte da altre persone, come ad esempio chi ha voluto organizzare un concerto, chi una cena di beneficenza. Il mio impegno ha così coinvolto altre persone che si sono attivate per darmi una mano. E devo dire che anche oggi, a distanza di ormai dieci anni dalla prima esposizione, Volano reagisce ancora bene, è un paese che non smette mai di aiutare!»
Parlavi poco fa di lati positivi. Quali sono nel tuo vivere quotidiano in compagnia di una malattia come la LAM?
«Beh, il primo elemento positivo è sicuramente la condivisione, il non sentirsi sola nei momenti più difficili. E questo non solo con le persone che amo, ma soprattutto con le ragazze dell'associazione che sanno esattamente quello che provo perché lo hanno passato pure loro. Anche solo un confronto al telefono può tirarti su di morale e convincerti che pure quel momento, come tanti altri, passerà. Perché, per quanto io possa spiegarti il dolore che provo, tu non lo potrai mai capire appieno se non lo vivi in prima persona.
«Mi sono accorta, inoltre, di quanto gli altri hanno fatto e stanno facendo per me, perché è capitato a volte che persone del paese suonassero il campanello per darmi qualcosa che pensavano potesse essermi utile, senza che fossero miei parenti o amici, ma solamente perché avevano pensato a me. E questo è bello. Solidarietà ce n'è tanta e quella fa bene al cuore e alla mente. Questo è il lato bello di vivere in una piccola realtà di paese.
«Poi certamente la mia vita dopo la scoperta della malattia è stata, come ti accennavo, un continuo adattarmi alla mia condizione, perché dopo il primo pneumotorace ne sono venuti molti ancora con una cadenza di 3-4 mesi uno dall’altro. Ero praticamente sempre in ospedale, perché per riprendermi, poi ci volevano alcune settimane. Era quindi un continuo andare a lavorare e poi smettere, purtroppo...
«Nel 2015, poi, mi è successo l'ultimo episodio grave in cui mi si è collassato un intero polmone. In quel caso sono andata all'ospedale di Verona dove mi è stato fatto il talcaggio, un'operazione, cioè, che consiste nel fissaggio del polmone incollandolo con il talco.
«È una sorta di rappezzo che non risolve completamente il problema, anche se, devo dire, che da lì in poi non mi è più successo nessun altro episodio di pneumotorace.»
So che hai un ragazzo e quindi, volenti o no, siete in due a condividere questa tua malattia. Di te mi hai già raccontato, ma di lui cosa mi dici?
«Quando ho scoperto la malattia avevo un ragazzo che non è lo stesso di ora. Con lui ho vissuto lo spavento dell'inizio e lo sconcerto di questa nuova involontaria avventura. Poi le nostre strade si sono divise e ho incontrato Daniele, il mio attuale compagno.
«Lui sapeva della mia malattia perché ce l'avevo già da qualche anno, ma questo non è mai stato un ostacolo per noi, anzi Daniele mi aiutata tanto, perché riusciamo entrambi a ironizzare sulla malattia e lui mi sprona a non mollare mai.
«Poi certamente anche per lui ci sono dei momenti difficili. Quando, per esempio, ho iniziato a mettere l'ossigeno, ci siamo spaventati tutti e due al punto che io gli ho chiesto: "Ma riusciremo a fare tutto?" e lui mi ha risposto: "Non faremo tutto, ma faremo ancora molto.»
Ecco, volevo appunto chiederti come stai oggi.
«Dopo l'operazione del 2015 mi sento più libera, non entro ed esco dagli ospedali come facevo prima. Sto passando una situazione di stabilità relativa. Certo è che piano piano, con gli anni, mi sono accorta che la malattia sta andando avanti. Basta una salita per farmi venire il fiato corto, ma comunque proseguo ancora con una certa tranquillità. Sono sempre stata a conoscenza del decorso che avrebbe avuto la malattia e sapevo che prima o dopo avrei dovuto ricorrere all'ossigeno-terapia. Quel momento è arrivato tre mesi fa.
«Nonostante tutto, in questi dieci anni di malattia ho scelto di vivere al meglio giorno dopo giorno. Adesso mi godo ancora la vita, perché non mi nego le cose belle che mi si presentano, come per esempio, andare in moto anche a costo di mettere la bombola nello zaino! Riesco a fermare il tempo, a sfruttare ogni secondo per farne un ricordo impresso nella mia mente a cui guardo con gioia immensa.
«Questa malattia è talmente imprevedibile e ancora poco conosciuta per cui può esserci sempre un imprevisto dietro l'angolo, ma ti assicuro che scegliere di essere felici dei piccoli momenti mi permette di dire oggi è una bella giornata, domani sarà quel che sarà!
«Dal 2014, poi, ricopro la carica di presidente dell'associazione A.I.LAM. E anche questo ruolo mi dà forza, mi spinge a dare il massimo per aiutare non solo me stessa, ovviamente, ma tutte le persone che si trovano nella mia situazione.»
Come lo vedi il tuo futuro?
«La malattia non si ferma, ma per fortuna non ferma me, anche se è vero che le analisi mediche parlano chiaro e capisci quando il male riprende ad avanzare. Ho sempre avuto il desiderio di fare un bel viaggio, mi piace il caldo e il mare e quindi quest'inverno sono andata a Dubai e alle Maldive. Ho fatto una fatica terribile in aereo perché con l'altitudine il livello di ossigenazione del sangue era calato e ho sofferto molto, poi, però, come mi sono goduta la vacanza è stata una cosa impagabile!»
Prossimi progetti?
«A dire la verità, per adesso non ho grandi progetti, semplicemente vivo la vita al momento. Mi sto organizzando, quello sì, per andare a vedere qualche Gran Premio dato che sono appassionata di MotoGP, ma per il resto passo tranquillamente le mie giornate.
«Per ora l’obbiettivo primario è quello di trovare un lavoro entro qualche mese. Poi ti confesso che ho un sogno segreto nel cassetto: con il tempo, senza fretta, mi piacerebbe scrivere un libro sulla mia storia di vita. So che non è facile, ma qualcosa ho già buttato giù e tutto per ora è archiviato al sicuro nel mio computer.»
Hai paura del futuro?
«Siccome so cosa succede e come si evolve la malattia, mi sento in vantaggio perché sono pronta ai passi successivi che mi attendono. La paura che ho è solo quella di soffrire, perché, pur sapendo cosa mi aspetta, la domanda che mi pongo è sempre la stessa: Dovrò soffrire tanto o poco?. Semmai è quello il pensiero che mi preoccupa.
«Chiaramente ci sono dei momenti di crisi, di sconforto e di tristezza in cui mi sento a terra. Quando ho messo l'ossigeno, per esempio, i primi giorni è stato difficile abituarsi, anche andare in giro e constatare le reazioni di sorpresa e di curiosità delle persone nel momento in cui mi hanno vista con un tubo trasparente in mezzo al viso.
«I miei amici, invece, per fortuna l'hanno presa benissimo, non hanno fatto una piega e anzi quando possono mi accompagnano a fare delle camminate portandomi l'ossigeno sulle loro spalle. E sai cosa? Anche i miei nipotini, che hanno solo sei mesi, si sono già abituati all'idea di vedere quel tubicino col quale giocano spesso, al punto che ne ho regalato loro uno identico, altrimenti erano sempre lì a tirare il mio.»
L’intervista con Pamela è finita.
La ringrazio per la pazienza cercando di esprimerle la mia ammirazione per il messaggio semplice ma importante che sta trasmettendo a tutti noi.
Lei, invece, con modestia e semplicità ringrazia me e, come c'era da aspettarsi, mentre ci allontaniamo, mi saluta ancora una volta con una battuta allegra e con un grande sorriso.
Astrid Panizza – [email protected]
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