Giovani in azione: Sara Podetti – Di Astrid Panizza

«La voce degli occhi»: nel mare di Grecia ad accogliere i migranti

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«Quando li guardi negli occhi non sai mai cosa dire, non si può comunicare perché le lingue sono diverse, ma in quei momenti - ricordo bene - quando prendevo in braccio i bambini per strapparli al mare, quegli occhi mi parlavano.»
Sara Podetti, 23 anni, originaria della Val di Sole, studia alla magistrale di Antropologia Culturale a Torino.
Mostra dei grandi occhi azzurri e si lascia andare a un timido sorriso che dietro di sé, però, nasconde una grande forza d'animo.
 
«A Venezia, alla triennale, ho studiato Arti Visive, – ci racconta. – Indubbiamente l'arte è una mia grande passione, in seguito, però, ho deciso di cambiare focus. Adesso studio antropologia perché ho fatto un'esperienza in Grecia che mi ha lasciato il segno, mi ha aperto lo sguardo su di un orizzonte che prima conoscevo solo in lontananza.
«Già durante la triennale avevo partecipato a un Erasmus a Istanbul, in Turchia, nel 2015, ed è lì che ho iniziato a condurre un corso di arti per bambini siriani rifugiati.
«A quel tempo Istanbul rappresentava uno snodo importante nei flussi migratori provenienti dalle zone di guerra. Lavoravo spalla a spalla con una ragazza di 12 anni che mi faceva da traduttrice dall’arabo, lingua a me sconosciuta, anche se a volte non serviva nemmeno una traduzione, perché con i bambini spesso bastano i gesti.
«Quello è stato l'inizio del mio percorso ed è lì che ho conosciuto alcuni greci attivi nell'accoglienza ai rifugiati. Attraverso di loro ho poi avuto l’occasione di essere presente sulle isole dove solitamente arriva la maggior parte dei gommoni carichi di rifugiati.»
 

Chios, aprile 2018 - Foto di Pantelis.
 
«Sono le isole di Kios e di Lesbo, – continua Sara nella sua narrazione. – Quest'ultima la più famosa mediaticamente come maggior punto d'approdo per chi fugge dalla guerra di Siria.
«Io e il mio gruppo di amici abbiamo dato una mano a due gemelli del posto, conosciuti come i pirati di Kios perché hanno un aspetto da pirati con la bandana e la barba, ma di veri pirati non hanno nient'altro.
«Loro, quando hanno cominciato a veder arrivare i primi gommoni (in Grecia gli arrivi sono prevalentemente di piccole imbarcazioni), hanno aiutato i migranti semplicemente accogliendoli sulla spiaggia, portando dell'acqua, della frutta, qualcosa insomma per riprendersi dal viaggio.
«Anch’io ero lì con loro. Ho vissuto in prima persona le immagini che vediamo tutti i giorni sullo schermo delle Tv. E non puoi nemmeno immaginare il sentimento che si prova quando vedi quello che ho visto io.»
 
«Il primo arrivo di un barcone è un ricordo limpidissimo, non riuscivo a dire parola, sono rimasta completamente zitta e ho solo agito. Ci avevano un po' preparato su come fare, chi prendere prima, non separare i bambini dalle madri altrimenti poi non si trovano più e molte altre strategie da seguire che non ti sto nemmeno a spiegare.
«Ricordo che avevo un paio di jeans e senza pensarci due volte sono entrata in acqua fino ai fianchi dimenticando le prudenze per poter essere pronta a dare una mano. Ho aiutato le persone a scendere dal barcone con il solo pensiero di azione. C'è stata poca comunicazione tra noi, il tempo era urgente, ma ho sentito una forte intesa di sguardi, ti assicuro tutti gli occhi parlano una lingua universale.
«Quando poi tutti sono scesi dalla barca, io e la mia amica spagnola con cui avevo intrapreso quell'avventura ci siamo guardate e abbiamo detto semplicemente: Ah, ma quindi è così.... Nient’altro ci usciva dalla bocca, ma la mente era in subbuglio.
«Da quel momento in poi ho cominciato a riflettere molto su me stessa e su quello che volessi fare della mia vita.» 
 

Le prime persone che ho visto arrivare - Chios, novembre 2015 - Foto di Sara.

«Il pensiero emergente, la voglia che avevo in quel periodo era solo il desiderio di rimanere sui confini. Nonostante i confini siano un concetto labile, complesso, di difficile interpretazione, è proprio qui dove si confondono molti luoghi e molte culture che si riesce a capire di più, ci si rende conto di cos'è l'uomo, cosa c'è dietro.
«Che poi i confini siano invisibili, che si tratti semplicemente di una linea invisibile, geopolitica, per le persone che fuggono questo non conta. Per noi che li attraversiamo tutti i giorni, sono nulla. Per loro sono tutto, da una parte la morte, da un’altra la vita. La visibilità e l’invisibilità di questo spazio è un concetto su cui sto riflettendo molto.
«Qualche mese dopo sono andata anche a Lesbo, lì gli arrivi si susseguivano l'uno dopo l'altro in una maniera convulsa e disperata. Si contavano in quel periodo - era il 2016 - circa 20 -25 barconi al giorno, ognuno con a bordo una cinquantina di persone.
«In queste due esperienze sono stata sempre sulla spiaggia: io e il team di cui facevo parte ci occupavamo proprio del primo soccorso.»
 
«Ora la situazione è cambiata, ma tutto questo continua ad accadere. A Lesbo si trova il più grande campo profughi d'Europa, si chiama Moria, che si trova in condizioni terribili perché contiene il quadruplo delle persone che dovrebbe accogliere.
«Puoi quindi immaginare a quale livello di guardia sia arrivata la situazione igienico-sanitaria e quella del cibo. Per dirti, ci sono persone che alle quattro di mattina fanno la fila per la colazione che è alle 7 perché se arrivano troppo tardi potrebbero non riuscire a riceverla.
«Il corpo medico è sottodimensionato e per questo vengono considerati solo i casi più gravi, ma c'è un estremo bisogno di cure, di medicine anche per cure minori.»
 

Il cimitero dei salvagenti - Lesbo, gennaio 2016 - Foto di Sara.
 
«Finita la mia esperienza lì sulle isole, a settembre del 2017 mi sono laureata e subito dopo sono partita per Atene, grazie ad un contatto nel mondo della cooperazione internazionale. Conosco infatti un ragazzo greco che mi aveva informato dell'apertura di un hotel, l'Hotel City Plaza, abbandonato e ormai vuoto da anni che era stato occupato da attivisti nell'aprile 2016, quando avevano fatto entrare i profughi che stavano accampati a piazza Vittoria e in tutta Atene.
«Mi avevano detto che prima erano state aperte le porte alle famiglie più vulnerabili, poi ai bambini e ai ragazzi senza genitori che vivevano in strada. In tutto 400 persone.
«Sono partita per andare a vedere com'era la situazione. Ho così conosciuto i ragazzi ospiti dell'hotel e ho tenuto loro qualche laboratorio di arte e di pittura oltre che aiutare in cucina e nelle pulizie. Tutto era autogestito e quindi le persone presenti nella struttura, a turno dovevano pulire, cucinare, gestire il bar. Ogni cosa funzionava in questo modo, grazie al lavoro di tutti, ovvio poi che con centinaia di persone non era facile. Ma l’Hotel City Plaza è un luogo speciale, un luogo di lotta.»
 

Laboratorio di disegno all'Hotel City Plaza - Atene, novembre 2016 - Foto di Sara.
 
«Ho capito allora che se c'era un posto in cui mi sarebbe piaciuto vivere o comunque rimanere per un certo periodo, quel posto era Atene. Quindi dopo essere tornata in Italia per un breve periodo sono ripartita con un tirocinio Erasmus post laurea, così da poter avere anche un po' di soldi per poter vivere.
«Il tirocinio era con un artista di galleria, ma nel frattempo, per quanto possibile, continuavo ad aiutare dentro all'hotel. Avevo il mio appartamento ma andavo regolarmente a prestare servizio in cucina e cominciai pure con altre attività. Una di queste consisteva nel seguire una libreria mobile, un furgoncino adibito a libreria realizzato da delle ragazze inglesi, che faceva il giro di tutti i campi profughi ad Atene e dintorni. Si chiama Echo library ed è qualcosa di bellissimo.
«Ce ne sono tanti di campi, Atene è un po' un punto nevralgico degli arrivi, ma se in Italia arrivano principalmente immigrati dall'Africa, in Grecia arrivano flussi dal Medio Oriente, quindi siriani, afghani, iracheni, pakistani, curdi. Ad oggi ci sono anche molti turchi in fuga a causa della situazione politica che si è venuta a formare con il Presidente Erdogan.
«Tutto il Medio Oriente che scappa arriva in Grecia, o in barca o a piedi attraverso il confine dei monti. In quel periodo, come dicevo, con la libreria mobile portavamo nei campi profughi la conoscenza, soprattutto quella delle lingue. I libri di apprendimento linguistico, infatti, erano i più gettonati. Comunicare, in fondo sta proprio alla base del costruire.»
 

Violette e Sara con la libreria mobile Echo Library - Lavrio, gennaio 2018 - Foto di John.
 
«Ogni domenica, inoltre, seguivo un signore greco che faceva danza contemporanea in un campo abbastanza dimenticato, dove vi sono solo curdi, e lì facevamo attività fisica con i bambini del campo. Mi sono affezionata perché siamo stati davvero benvoluti e accolti nella maniera migliore.
«Al nostro arrivo trovavamo sempre una tazza di thè e sorrisi. Infatti sapevano che noi arrivavamo ed erano contenti di vederci, soprattutto i bambini. Con loro facevamo un po' di tutto usando la nostra e la loro fantasia. Immaginati questi bambini che non vanno a scuola, i genitori che non lavorano e sono in uno stato di attesa perenne.
«È ovvio quindi che i genitori siano felici nel vedere il figlio che fa qualcosa di utile e che sorride, perché la vita del campo profughi non è facile, né piacevole, sei 24 ore su 24 assieme ad altre persone, a fianco a fianco senza alcuna privacy.»
 
Qual è la loro prospettiva, cosa aspettano?
«Nel caso di questo campo in particolare la situazione è più unica che rara perché, come ti dicevo, contiene solo curdi. I curdi lottano da decenni per avere un loro Stato, in quanto attualmente si dividono tra Siria, Iraq, Iran e Turchia. Tuttavia questo antico popolo, pur nella sua sempre negata indipendenza, è riuscito a creare un sistema di autogestione democratica dove la donna, diversamente da altre società vicine, ha qui un ruolo molto importante, è sempre in prima fila. Sono donne combattenti in tutti i sensi, che fanno esattamente quello che fanno gli uomini, hanno una situazione paritaria.
«Le persone nel campo arrivano dal Kurdistan siriano, la parte messa peggio al momento, perché non solo devono lottare contro la dittatura siriana, ma anche contro l'Isis che per fortuna ora pare più marginale. La maggior parte di loro vorrebbe andare in Germania, o comunque nel nord Europa, dove ci sono familiari o conoscenti. Solo che attualmente l'Unione Europea ha bloccato le frontiere. I confini sono chiusi e così i curdi, come i siriani e tutti gli altri, sono bloccati lì semplicemente perché non hanno scelta, rimangono in perenne attesa.
«Alcuni fanno richiesta di asilo politico in Grecia, rassegnati all'idea di fermarsi, con il pensiero almeno di far andare i propri figli a scuola, pur sapendo che la Grecia non dà grandi certezze. Tanti, invece, non vogliono arrendersi a questa situazione e preferiscono aspettare che il sogno si avveri e quindi che i confini vengano riaperti. L'attesa è il sentimento forse più logorante, l'attesa senza sapere quando e cosa potrà accadere.
«Mentre ero ad Atene ho pensato a cosa posso fare io, che sono solo Sara, ho 23 anni e vengo da un piccolo paese del Trentino. Non sono nessuno di fronte a problemi del genere, eppure posso, devo fare qualcosa. Ma cosa? È la domanda che mi assillava nel profondo. La risposta che mi sono data è tornare in Italia, studiare antropologia, che è una delle chiavi di accesso al mondo dell'accoglienza italiana e parlare alla gente. Continuare a parlare in ogni luogo e in ogni circostanza. Anche al bar del paese, se esce questo argomento, stai sicuro che dico la mia opinione al riguardo.
«Così nel giugno scorso sono rientrata, per riprendere gli studi dopo 9 mesi di Grecia, perché comunque mi servono delle basi di conoscenza culturale, della storia del Medio Oriente, dell’economia e della politica per sapere i motivi reali del perché le persone scappano dai loro Paesi e come poter rispondere. Davvero ho la necessità di conoscere tutto quello su cui si basa l'accoglienza. Quindi l’antropologia mi sembrava e mi sembra tuttora la scelta giusta.»
 

Slackline con Fehime - Lavrio, novembre 2017 - Foto di Sara.

Cosa ne pensi della situazione italiana attuale, dopo aver vissuto un'esperienza come quella in Grecia?
«Voglio essere positiva anche se la situazione a mio parere è drammatica, perché sembra sia morto col linguaggio pure il rispetto per le persone. Tutti si sentono legittimati a parlare di ciò che non conoscono solo perché chi è al potere ne parla in modo molto semplicistico, usando slogan più che ragionamenti.
«Purtroppo il potere attuale usa un linguaggio semplice che davvero tutti possono capire, perché parla alla pancia. Per questo motivo tutti si sentono oggi liberi e legittimati a dire la propria opinione che spesso risulta falsa perché attinge a circostanze e a dati numerici non veri scatenando rabbia nei confronti degli emigrati e aumentando così l’odio.
«Tutto questo tipo di cose che fanno nascere l'odio verso l'ignoto, sono false, ma le persone ci vogliono credere perché i sentimenti di pancia sono i primi a parlare e i primi a cui si dà credito.
«Per questo motivo sono preoccupata: più per questa proliferazione dell'odio che non per chi è al governo. Ovvio che questa è in un certo senso una catena: se chi c'è al governo genera odio, quest'odio si incrementa sempre di più, anche perché mette in pratica leggi seguendo la propria linea di pensiero, come il Decreto Sicurezza e Immigrazione.»
 
Secondo te, riguardo la situazione italiana dei migranti, qual è la soluzione tra chi dice che è meglio chiudere i porti e chi invece farebbe entrare tutti?
«La domanda mi pare posta in modo non corretto, o meglio, semplicistico. Non si tratta di aprire o chiudere i porti, che è una questione meramente mediatica, e nemmeno di cercare un compromesso. Non possiamo parlare di compromessi quando parliamo di vite umane. La questione migratoria è molto complessa, include storia, natura, cultura, politica.
«Una soluzione politica non so dartela, so che bisogna partire lontano, dai luoghi da cui queste persone provengono, dall’Africa al Medio Oriente, per poi percorrere il viaggio e capire cosa accade lì, nelle prigioni libiche o turche, fino ad arrivare al Mediterraneo, il mare che tanto soffre per cosa lasciamo accadere, ed infine parlare di integrazione.
«Io credo che sia possibile fare un discorso complesso e riuscire ad attivare politiche a lungo termine, pazienti e che portino benefici per tutta la comunità. Una comunità che gode della diversità, ne è alimentata e senza di essa non può vivere.»
 

Cena condivisa a Vial - Chios, aprile 2018 - Foto di Sara.
 
Come vedi il tuo futuro?
«Mi piacerebbe tanto fare opera di sensibilizzazione più che lavorare direttamente in un campo di accoglienza. Vorrei riuscire ad andare nelle scuole per parlare di ciò che sta accadendo realmente nel mondo, mostrare quello che ho visto, creare laboratori artistici.
«Mi piacerebbe riuscire ad unire quello che è il mio percorso artistico all'antropologia e al lavoro sociale. Non so ancora che lavoro possa essere, ma per ora è un sogno, o meglio, un obiettivo, una strada da seguire.»
 
Astrid Panizza – [email protected]
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