Giovani in azione: Silvia Battisti – Di Astrid Panizza

Tornata da un’esperienza di volontariato facendo l’infermiera, ora considera il mondo con gli occhi di chi ha visto situazioni difficili

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Silvia Battisti, classe 1993, è una ragazza timida, o meglio, riservata.
Quando la convinco a farsi intervistare è titubante, non crede che nella sua storia di vita ci siano delle svolte o degli eventi così interessanti come in chi gira il mondo quotidianamente o ha realizzato sogni che credeva impossibili.
Ma si sbaglia, quello che cerco di trasmettere dalle storie che vengono raccontate ogni settimana su L’Adigetto.it, è che ognuno ha dentro di sé una storia da raccontare, un percorso che può essere lineare o a zig zag, ma che segue il filo di un sogno. 
La sua storia sembra come tante altre, ma nasconde un’occhiata su un mondo diverso dal nostro. 
 
Silvia viene da un piccolo paesino di provincia, cresce in Trentino e quando finisce le superiori decide di iniziare la facoltà di Infermieristica a Trento.
Il suo percorso universitario termina un anno fa, nel 2017, ed ora dopo un anno da quel momento, lunedì scorso ha iniziato nel reparto di malattie infettive dell’ospedale di Rovereto con un contratto a tempo indeterminato.
«Ho avuto tanta fortuna, – ci confida Silvia. – Perché è uscito il bando per l’indeterminato (non capita tutti gli anni!) dopo poco tempo che mi ero laureata, quindi ero ancora fresca di Università.»
 

 
Dalla laurea al lavoro è passato un anno, cosa hai fatto nel frattempo?
«Io e una mia compagna di corso abbiamo deciso di partire per il Perù una volta laureate, esperienza che ha cambiato il mio modo di vedere il mondo. Grazie alla conoscenza di una persona italiana che gestisce una casa per bambini con disabilità gravi nella città di La Encañada, nel nord-ovest del Perù, siamo infatti riuscite a fare un’esperienza di volontariato come infermiere in un Paese meno fortunato del nostro.
«In questa casa ci sono 60 bambini, ma anche donne con problemi psichiatrici che vivono stabilmente lì. In Perù infatti non esiste un posto dove la famiglia viene aiutata in caso di problematiche nella gestione di un familiare con necessità particolari. I bambini in casi del genere vanno spesso a finire in orfanotrofio, mentre invece le donne con problemi psichiatrici sono lasciate sole. Nei casi fortunati la famiglia si prende cura del malato, ma la maggior parte delle volte chi soffre di un disturbo si trova in mezzo alla strada. In ospedale tengono la persona solo il tempo necessario per risolvere eventuali fasi critiche, poi la dimettono e se ne lavano le mani.
«L’infermiera italiana che ha deciso di aprire questa casa ha accolto tanti bambini da tutto il Perù e offre anche visite ambulatoriali gratuite, mentre invece in ospedale sono sempre a pagamento. Le persone, quindi, conoscono questo luogo e i bambini vengono portati direttamente dalle famiglie che non riescono più a gestire la situazione.»
 
Cosa ti ha lasciato quest’esperienza?
«Èstata di sicuro un’esperienza tanto coinvolgente da un punto di vista emotivo, mi ha portato ad arricchire il mio bagaglio con le storie difficili raccontate dagli occhi dei bambini che c’erano lì. Prima di partire, parlando con una persona che aveva già fatto volontariato, mi era stato detto che: Se vai per un mese, non lo fai per gli altri, lo fai per te stesso, perché un mese è poco e non si riesce a fare molto.
«Contando il fatto che sono rimasta tre mesi, ma di volontariato effettivo sono stati due mesi e mezzo perché ho girato anche parte del Perù, di quel periodo sento comunque che ho più ricevuto che dato.»
 

 
Avresti voluto rimanere quindi più tempo?
«Allora, lì per lì, quando ero là non sarei rimasta tanto di più, perché è veramente stancante e il lavoro funziona in maniera completamente diversa rispetto a qua. Ci svegliavamo ogni giorno alle 5 e mezza la mattina per lavare tutti i bambini ed eravamo al lavoro 24 ore su 24. Per un periodo, inoltre, durante la notte io e la mia amica facevamo i turni per alzarci, ogni ora e mezza andavamo a controllare che tutti i bambini stessero bene.
«Alla fine di quest’esperienza sono stata contenta di tornare a casa. A posteriori ti dico che mi piacerebbe ritornare, sento, come ti dicevo, che ho più ricevuto che dato e quindi per una persona come me, partita con l’idea di andare a fare qualcosa di concreto, tornare con la sensazione invece di non aver dato abbastanza, non è soddisfacente.
«Quindi tornerei adesso, forse sceglierei un altro posto, perché in Perù vorrei principalmente rivedere i bambini che ho conosciuto e lo farei forse più per me, mentre invece ci sono molte altre realtà che varrebbe la pena aiutare, senza nulla togliere al Perù che è un Paese povero, ma quantomeno con una stabilità politica. Ci sono invece molti altri Stati nel mondo in cui le condizioni sono peggiori.»
 
Qual è il motivo per cui hai deciso di fare un’esperienza così forte?
«È un desiderio che mi accompagna da sempre. Quando mi sono iscritta all’Università e ho scelto infermieristica, infatti, il mio primo pensiero è stato quello di finire il percorso e andare ad aiutare il più possibile, con i miei mezzi, dove c’era bisogno.»
 

 
Pensi che in un futuro riuscirai a fare un’altra esperienza del genere? Oppure, con un lavoro a tempo indeterminato credi che non riuscirai più a sfruttare questa opportunità?
«Conosco tante persone che fanno volontariato nonostante un lavoro fisso. Magari non avrò più la possibilità di fare un’esperienza di tre mesi di volontariato, perché partire per un periodo così lungo è infattibile per uno che vuole mantenere il lavoro e questo un po’ mi dispiace. Tuttavia ci sono persone che un mese di aspettativa lo prendono e vanno, quello lo farei. Ecco, forse non sarei in grado di sacrificare tutta la mia vita, ma la voglia di fare ancora volontariato all’estero, di mettermi a disposizione di chi ha bisogno, quello sì.»
 
Com’è stato fare l’infermiera in Italia dopo aver vissuto lo stesso lavoro ma in condizioni totalmente diverse in un Paese del Terzo Mondo?
«Sai cosa noti subito?! Lo spreco che c’è nel mondo occidentale. Per dirti, gli antibiotici qui vengono buttati, ma antibiotici buoni, solo perché per esempio si è sporcato il vetro e non è bello da vedere. Alle persone che stanno peggio di noi non ci pensiamo, minimamente.
«Anche altri aspetti del mondo sanitario occidentale sono discutibili, e fanno perdere il senso di positività. Qui da noi infatti la sanità si basa sulle buone pratiche, e quindi magari in un reparto buttano via una quantità di materiale che potrebbe essere invece utilizzato ancora, oppure si prenotano un sacco di analisi, esami, sono solo soldi e risorse buttate che potrebbero essere investite in progetti o comunque in modo più utile.
«Considerando poi un altro punto di vista, dopo aver lavorato a stretto contatto con bambini peruviani per tre mesi, tornata qui, il primo lavoretto che ho trovato è stato quello di infermiera in una colonia estiva.
«Non ti so quantificare quanto i bambini italiani siano maleducati e viziati rispetto a quelli in Perù, che basta un sorriso e sono felici per una giornata. Qui invece anche se sono piccoli, i bambini pensano di essere grandi e si comportano in maniera arrogante e irrispettosa. Mi sembra di aver perso fiducia nel modo di vivere occidentale.»
 

 
Cosa pensi che potrebbe fare la società, noi, per migliorare la situazione?
«Noi siamo privilegiati, dovrebbero capirlo tutti. E quindi se si facesse più attenzione su certe piccole cose, cercando di non sprecare ciò che potrebbe essere tranquillamente usato, sarebbe già un passo avanti.
«Scegliamo sempre il meglio per noi stessi, penso sia nella natura umana. Si fa fatica a sacrificarsi per qualcun altro, che non si conosce per di più, che sta lontano da noi. Però magari, pensare di sacrificare delle sciocchezze non sarebbe così difficile. Per dirti, dal punto di vista sanitario, non gettare un farmaco nel giorno esatto in cui scade.
«Siamo essenzialmente una società di spreconi. Se lo yogurt è scaduto da un giorno lo buttiamo, anche se magari è ancora buono. In Perù, come in centomila altre parti del mondo, i bambini invece bevono l’acqua con i vermi. Forse dovremmo pensare di riconsiderare che non esistiamo solo noi e che non tutti stanno bene come qui, mentre invece troppo spesso ci chiudiamo e facciamo finta di non vedere, non sapere.»
 
Astrid Panizza
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