Reportage di viaggio dal Sud America – Di Maurizio Panizza
Argentina, Buenos Aires, ESMA, la casa degli orrori
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Se cercate in Google la parola «ESMA», le risposte che potrete ottenere saranno molte e tutte diverse.
La prima sarà quella riferita all’acronimo dell’European Securities and Markets Authority, un'autorità di vigilanza dell'Unione europea.
La ricerca restituirà poi l’accesso alla pagina web dell’ESMA, un’azienda italiana per la produzione di essicatoi per cereali, e poco dopo, ancora, quella dell’ESMA, l’Ecole Supérieure des Métiers Artistique di Montpellier, in Francia.
Poi a seguire, perlomeno un’altra ventina di risultati identici per la ricerca di ESMA come «parola chiave».
Per trovare quello che sto cercando io, però, bisogna passare molte e molte pagine. Eppure, l’ESMA di Buenos Aires meriterebbe di certo il primo posto in assoluto anche in Google, se non altro per quello di terribile che si consumò all’interno dei suoi locali fra il 1976 e il 1983.
Pur se l’acronimo è sempre lo stesso, stavolta si tratta della «Escuela de Mecánica de la Armada», la scuola cioè per la formazione degli ufficiali della marina argentina, fondata nel 1924.
Da quell’anno, il prestigioso Istituto continuò regolarmente la sua nobile attività fino al 1976, fino a quando, cioè, fu convertito in centro di detenzione clandestina.
Qualcuno si chiederà di cosa stiamo parlando, giacché pochi, anche in Argentina, conoscono nel dettaglio questa «storia».
Vogliamo parlarne perché è proprio da qui, da questo luogo, che partì 44 anni fa una feroce dittatura, quella del generale Jorge Rafael Videla, presidente dell'Argentina durante il regime militare, in seguito condannato all’ergastolo per crimini contro l'umanità.
Una specie di necessità personale di conoscere e di capire mi spinge durante il mio ultimo viaggio in Argentina, compiuto a febbraio, a visitare questo edificio diventato oggi un museo.
Un luogo di fatto off-limits per i turisti in visita a Buenos Aires in quanto escluso dagli itinerari di viaggio dei tour-operator internazionali, i quali, come ben si sa, preferiscono offrire ai propri clienti solo cose belle, folklore, quartieri alla moda e attrattive naturali.
È da dire, comunque, che diversamente da altri Paesi vittime di dittatura (come ad esempio il vicino Uruguay), l’Argentina in anni recenti ha fatto un enorme lavoro di elaborazione della memoria, di commemorazione delle vittime, di condanna dei criminali responsabili e questo luogo ne è la prova.
Con tali pensieri, entro lieve all’ESMA, nella centralissima Avenida Libertador, come si può entrare in una cattedrale.
Se non che, qui la croce non è solo una, ma migliaia, tutte appese alle pareti sotto forma di un’infinità di fotografie scattate dai militari negli anni della dittatura ai veri o presunti oppositori del regime.
In questo momento siamo solo noi nelle sale dell’ESMA e l’unico rumore sono i nostri passi, ma il silenzio qui pare assordante perché a guardare quegli occhi e quei visi - tutti di giovani donne e uomini - sembra ancora di sentire le loro urla e i loro lamenti provenire dai locali in cui venivano sottoposti a tortura.
Giovani che nella stragrande maggioranza dei casi non sarebbero tornati più alle proprie famiglie e che negli anni passeranno poi alla storia come i desaparecidos.
Da questi locali, per inciso, passarono in clandestinità 5mila delle 30mila persone incarcerate complessivamente durante la dittatura e vi passarono per essere interrogate, torturate e poi mandate al loro destino.
Leggo sotto alle foto alcuni cognomi: Carlotto, Fossati, Menna, Della Quadra, Molfino, Marras, Pietragalla, cognomi di famiglie che un giorno lasciarono l’Italia cercando un futuro di pace e di lavoro qui in Argentina.
Noto, però, che anche fra quelli degli aguzzini ci sono molti cognomi di origine italiana: Galtieri, Bignone, Gerardi, Rossin, Cavallo… Come è stato possibile?
Per rispondere, facciamo un passo indietro nel tempo. Buenos Aires, tra la fine dell’800 e i primi anni ’50 del Novecento, fu il punto di arrivo per migliaia di italiani che tentavano di rifarsi una vita nel vasto e spopolato territorio argentino.
Una fabbrica, una terra da coltivare, una valle ai piedi delle Ande: dalla pampa alla Patagonia, dal mare alla montagna, gli italiani lavoravano senza sosta pensando al futuro dei propri figli, i quali che con l’arrivo di un relativo benessere iniziarono a frequentare le scuole pubbliche e a partecipare alla vita culturale, sociale e politica.
Furono proprio quegli stessi giovani a reclamare agli inizi degli anni ’70 libertà e democrazia e a organizzarsi in gruppi per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Tutto ciò, fino a quando nel 1976, come si diceva, un colpo di Stato non distrusse all’improvviso i loro sogni scatenando la repressione militare, uccidendo o imprigionando tutti coloro che venivano sospettati di essere degli oppositori del regime.
Il seminterrato in cui avvenivano le torture.
Proseguo sbigottito nella visita alla casa degli orrori e mi inoltro nei locali. Essa era stata divisa in settori in cui c'erano zone destinate ad alloggiare ufficiali e sale dove si decidevano i rapimenti e le strategie di sequestro e uccisione. Un’ala era adibita alle torture e agli interrogatori e un’altra alla detenzione.
La «Capucha» era una zona angusta e senza finestre, dove i detenuti rimanevano in isolamento costantemente incappucciati.
Il Pañol, invece, conteneva i beni sottratti ai prigionieri e aveva anche un settore destinato alle donne incinte.
In questa fucina di morte, dopo giorni di orribili torture e stupri, i detenuti venivano uccisi e fatti sparire, altri venivano caricati su aeroplani militari e gettati vivi nell'oceano Atlantico, al largo del Rio della Plata. Furono più di mille coloro di cui non si trovarono più i corpi.
Il locale in cui partorivano le donne recluse.
La «Guerra sporca», come fu chiamata, ebbe poi un altro risvolto spietato e inumano: quello del rapimento e dell’appropriazione dei bambini nati nei vari luoghi di detenzione (l’ESMA fu solo il più importante) durante il sequestro e la morte delle loro mamme.
Dopo la fine della dittatura e con l’avvento della democrazia, si formò un movimento formato dalle madri e dalle nonne dei desaparecidos che ogni giovedì manifestavano (e manifestano tuttora) in Plaza de Mayo per rivendicare la scomparsa dei loro figli o nipoti e ottenerne la restituzione.
L’elenco di quei bambini include circa 500 nomi, fra questi, molti sono di famiglie italiane.
Sono dei desaparecidos ancora vivi che, adottati illegalmente, non hanno mai conosciuto la loro vera identità.
Grazie all’incessante lavoro del movimento delle nonne di Plaza de Mayo (così è stato chiamato), più di cento nipoti sono stati finora ritrovati e hanno avuto la possibilità di ricostruire la storia di orrore subita dalle loro famiglie e anche il percorso di amore, doloroso e accidentato, che li ha riportati finalmente a casa.
Il 24 marzo del 2004 il presidente Néstor Kirchner e il sindaco di Buenos Aires firmarono un accordo per rendere l'ESMA un museo per la memoria dei crimini della dittatura, per la promozione e la difesa dei diritti umani. L'inaugurazione fu accompagnata dal toccante discorso di uno dei tanti figli di desaparecidos nati all'ESMA.
«Mi chiamo Emiliano Hueravillo, sono nato alla ESMA. Qui mia madre, Mirta Mónica Alonso, mi diede alla luce e poi scomparve.
«Come lei, in tutti i centri di detenzione della zona sud di Buenos Aires, centinaia di donne diedero alla luce i loro bambini in mezzo ai torturatori.
«A tutti i nostri fratelli e sorelle che sono nati qui, e che non sono ancora ritornati alla propria famiglia come ho potuto fare io, voglio che sappiano che li stiamo cercando, li stiamo aspettando, vogliamo raccontarli che le loro madri li amavano, che i loro padri li amavano e che appartennero alla parte migliore di una generazione che si mise in gioco completamente per consegnarci un paese migliore.»
Leggendo queste parole mi prende la commozione e non ne trovo altre da aggiungere. Solo un’esortazione per tutti noi: NON DIMENTICHIAMO MAI.
Maurizio Panizza.