L’11 luglio di cent'anni fa l’Italia occupava l’isola di Pelagosa
La storia di un’isola in posizione strategica in mezzo all’Adriatico e la triste fine di 18 marinai affondati col sommergibile Nereide
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Le isole Pelagose formano un piccolo arcipelago del Mar Adriatico situato tra le Isole Tremiti e l'isola di Lagosta, a circa 53 km dalla penisola italiana (il punto più vicino è la costa del Gargano).
Per struttura geologica l'arcipelago è la naturale continuazione delle Isole Tremiti e della penisola del Gargano, caratteristica che lo vede appartenere geograficamente alla regione e alla piattaforma italiana piuttosto che a quella dalmata. Inoltre il piccolo arcipelago, pur essendo croato, è più vicino alla terraferma italiana che a quella croata.
L'arcipelago è composto da due isole maggiori.
Pelagosa Grande, lunga circa 1,4 km, larga fino a poco più di 300 m, ha una superficie di quasi 0,4 km² e un'altezza massima di 92 m s.l.m. (monte Castello) ma raggiunge i 116 m considerando il faro che sorge sulla cima e rappresenta il punto più alto di tutto l'arcipelago.
Le coste alte e scoscese, in particolare sul lato meridionale, offrono due uniche piccole insenature atte all'approdo: la Calanca di Squero Vecchio sul lato settentrionale e la cala di Zalo o Zadlo sul lato sud.
Pelagosa Piccola, lunga poco più di 400 m, ha una superficie di circa 0,03 km² e un'altezza massima di 51 m.l.m. rappresenta il proseguimento emerso della maggiore vicina. Vi è solo una piccola spiaggia sul lato orientale in cui è possibile l'approdo.
Vi sono poi una dozzina di altri isolotti e scogli secondari (per taluni si tratta di semplici affioramenti) tra i quali si segnalano Cajola, lunga circa 180 m, piatta rocciosa e circondata da secche, distante 3 miglia a sud-est dalle due isole maggiori; Sasso di Tramontana e Sasso d'Ostro, situati a ridosso della Piccola Pelagosa; gli scogli di Manzi e Pampano.
Lo stretto canale marino che separa la Grande dalla Piccola Pelagosa è detto Passo di Bogaso o Bogaso Grande.
Come si è detto, geograficamente e geologicamente l'arcipelago fa parte della regione italiana e presenta numerose analogie con l'arcipelago delle Tremiti e l'isola di Pianosa.
Le isole sono situate infatti a 68 miglia nautiche (120 km circa) a sud di Spalato, 37 (70 km circa) da San Nicola delle Tremiti (FG), 30 (60 km circa) dal porto di Peschici (FG) e a 160 km ad est di Pescara, nonché a 26 miglia da Lagosta e 21 da Pianosa.
Grazie alla loro relativa inaccessibilità, le isole hanno mantenuto una ricca flora mediterranea, tra cui spiccano sedici specie di piccole orchidee, e fondali ancora intatti. Le isole danno anche il nome ad un minerale chiamato Pelagosite.
I fondali circostanti sono inoltre tra i più pescosi dell'Adriatico e per questo motivo sono tutt'oggi frequentati costantemente da pescherecci sia italiani che croati.
Oggi le uniche strutture antropiche sono il complesso del faro con annesso osservatorio meteorologico, una chiesa e due piccoli edifici.
Vi si trova una piccola area archeologica vicino ad una piacevole spiaggia dotata di sabbia molto fine, apprezzata dagli occasionali turisti.
Dipendono dal comune croato di Comisa.
Storicamente fu legata a Venezia e alla Puglia per divenire temporaneamente italiano nel 1861.
Nel 1966, dato che non venne presa in considerazione nel trattato che seguì la Terza Guerra d’Indipendenza (dove l’Italia aveva perso la flotta a Lissa), l’Impero Austroungarico se ne impadronì senza colpo ferire e senza proteste da parta del Regno d’Italia.
Vista la posizione strategica, l’Italia decise di riappropiarsene allo scoppio della Grande Guerra. Ci riuscì, ma non fu un’operazione da niente. Merita raccontare cosa successe.
Dalle origini alla Serenissima
Le isole erano già abitate in età preistorica, come attestato dal rinvenimento di tumuli e tombe ad opera degli archeologi Carlo de Marchesetti e Richard Burton nel 1875.
Conosciute fin dall'epoca romana col nome di Pelagusa, le isole mostrerebbero nel loro nome un'etimologia greca che allude alla loro posizione al centro dell'Adriatico (dal greco "pelagos", ossia "mare").
Meno accreditata è la versione di alcuni geografi che vi vedono un riferimento all'antica popolazione dei Pelasgi.
La leggenda narra che proprio a Pelagosa sbarcò e fu poi sepolto Diomede, l'eroe di Troia. Sull'isola sono stati comunque rinvenuti notevoli resti di ceramiche greche. E le “diomedee” sono uccelli marini che popolano le isole dell’Adriatico meridionale, soprattutto le isole Tremiti, il cui verso richiama il vagito di un bambino, tanto vero che la tradizione popolare racconta che si tratta delle anime dei soldati di Diomede che piangono il loro eroe morto.
Declinata la potenza di Roma (di cui rimangono tracce di un tempio) e rimaste di nuovo disabitate, le isole ebbero nel Medioevo la prima visita eccellente. Il 9 marzo 1177, mercoledì delle ceneri, secondo alcune fonti ecclesiastiche il Papa Alessandro III sbarcò a Pelagosa nel corso di un suo viaggio nell'Adriatico, attratto dalla bellezza selvaggia dell'arcipelago. In seguito a questa visita, il pianoro posto su Pelagosa Piccola è da allora chiamato Campo del Papa.
Le isole appartennero poi alla Serenissima, che però non vi insediò stabilmente alcuna popolazione e non vi esercitò alcuna sovranità se non per contrastare il nobile Lusignan che, esiliato da Venezia e stabilitosi su Pelagosa Grande, aveva trasformato l'isola in una fortezza munita che ostacolava la pesca nella zona.
Dai Borbone ai Savoia
In seguito l'arcipelago di Pelagosa fece parte del Regno delle Due Sicilie e ne costituì l'avamposto più remoto nell'Adriatico. Amministrativamente fu riunito alla provincia della Capitanata (l'attuale provincia di Foggia), alla quale appartenne fino alla caduta dei Borbone nel 1861, quando, al pari della terraferma, passò sotto la sovranità del neo-costituito Regno d'Italia. Ma l'annessione, di fatto, fu solamente formale poiché le autorità italiane non si curarono affatto delle isole e non si premurarono d'installare un proprio caposaldo su di esse.
A Pelagosa a quel tempo si parlava il napoletano nella variante ischitana: questo è spiegabile in quanto l'isola fu ripopolata (assieme alle vicine isole Tremiti) da Ferdinando II delle Due Sicilie nel 1843 con pescatori provenienti da Ischia, che vi continuarono a parlare il dialetto d'origine. Con l'avvento del Regno d'Italia l'incuria e l'inefficienza delle nuove istituzioni nazionali fecero sì che i pescatori emigrassero tutti entro la fine dell'Ottocento.
Dall'Italia all'Austria
Anche negli anni successivi il Regno d'Italia non colse l'importanza strategica dell'arcipelago e lo neglesse fino al punto di dimenticarsene. Fu allora che gli Austriaci, con un'azione unilaterale, se ne impossessarono nel 1873 e vi eressero un faro il 25 settembre 1875, uno tra i più notevoli dell'intero Adriatico, impiantando così una propria presenza stabile sulla Grande Pelagosa.
Tale occupazione venne tacitamente tollerata (limitandosi il Regno sabaudo a flebili rimostranze diplomatiche che non sortirono alcun effetto) e nemmeno una successiva interrogazione del deputato radicale napoletano Imbriani al presidente del Consiglio Di Rudinì (1891) servì a riaprire la questione.
Stampa propagandistica italiana che enfatizza la difesa dell'isola durante la battaglia del 30 luglio.
La prima guerra mondiale e l'annessione all'Italia
Con lo scoppio della prima guerra mondiale l'arcipelago fu occupato dall'Italia esattamente cent’anni fa, l'11 luglio 1915.
Gli Austriaci tentarono di riprendersi le isole il 30 luglio seguente, quando una squadra di due incrociatori leggeri austriaci e di sei caccia effettuò un'azione di sorpresa a Pelagosa, bombardando l'isola e sbarcandovi alcuni marinai, prontamente ricacciati dagli italiani.
All'alba del 5 agosto ebbe luogo un altro e ben più tragico scontro. Il sommergibile Nereide, ormeggiato davanti a Pelagosa, scorse a distanza ravvicinata una silurante subacquea austriaca che avanzava tra i flutti. Pur di non fuggire e di salvare il sommergibile da un affondamento certo, il capitano di corvetta Carlo del Greco decise di affrontare il nemico e di tentare l'immersione per lanciare il siluro, ma il sommergibile austriaco riuscì a colpirlo per primo, colando a picco il Nereide e l'intero suo equipaggio (35 vittime), alla memoria dei quali venne tributata la prima medaglia d'oro al valor militare della Regia Marina nella prima guerra mondiale.
Il relitto del sommergibile, rinvenuto a 250 metri dalla costa a 37 metri di profondità, venne poi riportato a galla nel gennaio 1972 per mezzo di un'operazione congiunta italo-jugoslava.
L’isola fu tenuta saldamente per tutta la durata del conflitto, anche se il presidio militare italiano sull'isola venne abbandonato il 18 agosto per difficoltà di comunicazione e per l'approvvigionamento dei viveri.
Nel 1920 l'arcipelago di Pelagosa passò ufficialmente al Regno d'Italia e venne inglobato nel comune di Lagosta, nella provincia di Zara, cui appartenne fino alla seconda guerra mondiale.
Il governo italiano vi trapiantò alcuni pescatori dalle Tremiti e vi costruì un osservatorio meteorologico nel faro, una chiesa e due piccoli edifici tuttora esistenti.
Nel 1927 il governo italiano dedicò il posamine omonimo, che venne poi cannoneggiato e affondato il 9 settembre 1943 nel golfo di Genova[5].
Dal 1941 al 1943 appartennero al Governatorato della Dalmazia sotto la provincia di Spalato.
Dalla Jugoslavia alla Croazia
Dopo la seconda guerra mondiale, il Trattato di Pace di Parigi tra l'Italia e le Potenze Alleate firmato il 10 febbraio 1947 stabilì all'art. 11 comma 2 la cessione alla Jugoslavia della «piena sovranità sull'isola di Pelagosa e sugli isolotti adiacenti», precisando che l'isola di Pelagosa sarebbe rimasta smilitarizzata.
Lo stesso Trattato di Pace stabilì anche che i pescatori italiani avrebbero goduto «gli stessi diritti a Pelagosa e nelle acque adiacenti di quelli goduti dai pescatori jugoslavi prima del 6 aprile 1941» (ossia il diritto, in base agli «Accordi di Brioni» del 14 settembre 1921 e agli «Accordi di Nettuno» del 20 luglio 1925 tra il Regno d'Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, di pescare con non più di 40 barche di stanza a Lissa e in determinati specifici periodi).
In tacita applicazione di questo trattato, le acque di Pelagosa sono ancora oggi visitate da numerosi pescherecci italiani, nonostante si tratti di acque territoriali croate, per la pesca alle sardine.
Dal 1991 l'arcipelago di Pelagosa fa parte della repubblica indipendente di Croazia.
Popolazione
Data la sua vicinanza alle coste della Puglia, Pelagosa ha sempre avuto una popolazione italiana simile a quelle del Meridione italiano prospiciente. Solo dopo la seconda guerra mondiale l'isola, passata sotto il controllo jugoslavo, si è spopolata e ancor oggi, sotto l'amministrazione croata, non vi si registrano stabili insediamenti, fatti salvi i guardiani a presidio del Faro.
Da alcuni anni però, due appartamenti ricavati nell'edificio del faro sono messi a disposizione dei turisti che possono affittarli previa prenotazione all'Ente nazionale croato del Turismo.
Storia del sommergibile «Nereide» della Regia Marina
La costruzione del sommergibile Nereide fu impostata il 1º agosto 1911. Fu varato il 12 luglio 1913 ed entrò in servizio 20 dicembre 1913.
Una volta in servizio entrò a far parte della III Squadriglia Sommergibili, con base a Brindisi.
Nel maggio 1915 era comandante dell’unità il tenente di vascello (poi capitano di corvetta) Carlo Del Greco.
Nella notte tra il 23 ed il 24 maggio 1915 fu inviato in missione offensiva al largo di Cattaro, facendo ritorno il 25: con 280 miglia percorse (anche se parte dell’andata avvenne a rimorchio del cacciatorpediniere Borea) e 37 ore di navigazione in immersione, fu la prima missione svolta da un sommergibile italiano nella prima guerra mondiale.
Svolse poi alcune altre missioni in Adriatico. L’11 luglio 1915 truppe italiane sbarcarono nell’arcipelago di Pelagosa, stazione di vedetta nel Basso Adriatico, e la occuparono. A sostegno delle unità impegnate nello sbarco, il Nereide fu dislocato in agguato nei pressi di Capo Planka (Dalmazia).
Dopo l’occupazione, alcune unità italiane furono periodicamente dislocate di guardia nei pressi di queste isolette, nel caso fossero state attaccate da navi della Imperial Regia Marina da Guerra Austriaca.
Una delle unità destinata a tale compito fu appunto il Nereide.
Il 5 agosto 1915, tra le 4.30 e le 5 del mattino, il Nereide – in anticipo rispetto al previsto – si portò all’ormeggio sommergibili di Zadlo (Pelagosa Grande). Da terra, su richiesta del comandante Del Greco, giunse una pilotina con un nostromo, per agevolare le manovre di ormeggio.
Manovra che peraltro apparve eseguita in maniera piuttosto inusuale: da terra si pensò che il sommergibile avesse subito in guasto e stesse attraccando per ripararlo.
Non appena il sommergibile si fu ormeggiato, però, rimise nuovamente in moto lasciando gli ormeggi ed iniziò la manovra d’immersione rapida; poco dopo, da riva, fu visto un siluro transitare a proravia del Nereide (che stava manovrando per dirigere per sudovest, da dove proveniva il siluro, mancandolo.
Poi un secondo siluro, lanciato dal Nereide, e immediatamente dopo un’altra arma, partita verosimilmente da un’unità nemica. Questa andò a segno e il sommergibile (del quale a quel punto emergeva solo parte della torretta) affondò all’istante (erano le 5.30), devastato da una forte esplosione.
Fu poi possibile ricostruire quello che era accaduto: il sommergibile austro-ungarico U 5, nascosto dal mare mosso, aveva avvistato il Nereide e si era avvicinato per attaccarlo, lanciando un primo siluro.
Al contempo anche l’unità italiana, individuato l’U-Boot, era di colpo ripartita per immergersi, evitare il siluro e contrattaccare. Dopo aver schivato la prima arma, il Nereide ne aveva lanciata una propria, andata anch’essa a vuoto, ma non aveva avuto modo di evitare un secondo siluro dell’U 5, che l’aveva centrato ed affondato.
L’U 5, portatosi più vicino alla costa (fino a circa 500 metri), fu bersagliato dai cannoni italiani da 76/17 mm e, per evitare di essere colpito, si allontanò immergendosi.
Un'imbarcazione salpò da Pelagosa e si portò 250 metri a sud/sudovest di Zadlo, dov'era affondato il Nereide, per cercare sopravvissuti. Non ne trovò nessuno, ma trovò invece la boa telefonica, staccatasi da sommergibile.
La boa fu collegata ad un telefono da campo e si cercò di mettersi in contatto con eventuali superstiti intrappolati all'interno del sommergibile, ma non giunse alcuna risposta, segnale che l’intero equipaggio era perito.
Con il Nereide scomparvero il comandante Del Greco, il tenente di vascello Carlo Boggio, 5 sottufficiali, 12 tra sottocapi e marinai ed un operaio del cantiere di costruzione.
Alla memoria del comandante Del Greco fu conferita la prima Medaglia d'oro al valor militare della Regia Marina nella prima guerra mondiale.
Il relitto del sommergibile fu poi individuato a 37 metri di profondità, quasi spezzato in due (solo l’asse portaelica univa gli ultimi tredici metri di poppa al resto dello scafo) ma in stato relativamente buono, a circa 250 metri dalla riva, con appoppamento di 20°.
Nel gennaio 1972 le autorità jugoslave (dal 1947 Pelagosa era sotto la giurisdizione della Jugoslavia) decisero di recuperare il relitto.
A fine maggio 1972 la nave recuperi Spasilach della Marina jugoslava, con a bordo 24 esperti subacquei della Marina ed una troupe della RAI, si portò vicino al relitto che fu esplorato per verificarne le condizioni.
Fu peraltro rilevato che all’interno di qualche compartimento di era ancora dell’aria, a 57 anni dall’affondamento.
Ebbero poi inizio le operazioni di recupero: i due tronconi furono definitivamente separati mediante la fiamma ossidrica, dopo di che furono assicurati (con l’uso di cavi di nylon) ciascuno a due serbatoi pieni d’acqua.
Svuotati poi dall’acqua e riempiti d’aria, i serbatoi emersero portando in superficie il relitto.
La carcassa del Nereide fu quindi ispezionata: furono recuperati gli scheletri di 10 uomini (poi portati in Italia e tumulati, con gli onori militari, nel Sacrario Militare di Brindisi) e numerosi oggetti.
Trainato in acque più profonde, il relitto del Nereide fu di nuovo, e definitivamente, affondato facendo scoppiare alcuni dei suoi vecchi siluri.
Si ringrazia Wikipedia per le note e le imamgini.