Crisi dei mutui «subprime» negli USA, con riflessi in Europa
Per capire in che cosa consista il problema, è meglio sapere com'è strutturato il mercato immobiliare americano e come si differenzia da quello italiano
La crisi nasce dal crollo
immobiliare americano, che a sua volta ha generato l'insolvenza dei
mutui erogati. Di conseguenza, sia i titoli relativi alle banche
che li hanno concessi che quelli delle finanziarie che hanno
investito nell'immobiliare sono in aperta difficoltà. Ma per capire
in che cosa consista la cosiddetta «crisi dei mutui» negli USA,
forse è meglio spiegare come sia strutturato il mercato immobiliare
americano e come si differenzi da quello italiano ed europeo.
Prima di tutto va assodato che l'amore per la casa è un fenomeno
molto più italiano che americano. Se un cittadino USA dovesse
cambiare lavoro, che lo porta ad una distanza come quella che c'è
fra Trento e Rovereto, è fuori dubbio che venderebbe la casa e si
trasferirebbe comperandone una nuova vicina al nuovo posto di
lavoro. Da noi è difficile che uno cambi casa a meno che non ne sia
costretto, ma soprattutto farà il possibile semmai per acquistarne
un'altra senza vendere quella che ha.
Qui in Italia si acquista volentieri
una casa per investire i propri soldi. La rendita non sarà elevata,
e soprattutto sarà soggetta a spese e tasse, ma certamente verrà
ripagato in termini di rivalutazione dell'immobile, oltre ché da
legami sentimentali. Raramente una crisi immobiliare fa scendere i
prezzi, semmai li rallenta, in casi eccezionali li congela. E
questo vale solo per le nuove case; un centro storico non svende
mai, neppure se dovesse crollare il mondo. Nelle congiunture
negative ne risentono eventualmente gli affitti, così come ne
risentono meno nelle impennate opposte. E in Europa sono molto
lunghe e poco accentuate sia le crisi che le riprese.
I mutui, in Italia, sono abbastanza vantaggiosi. Per le banche, ben
s'intende. Il mutuo non viene concesso solo contro la garanzia
dell'immobile stesso, ma soprattutto sulla capacità che hanno i
proprietari nel pagare le rate. E gli interessi sono un po' sopra
la media europea, se a tasso variabile; insostenibili se a tesso
fisso.
In Italia l'80% della popolazione vive in casa di proprietà. Il che
vuol dire che molti di quell'80% hanno una seconda casa,
principalmente data in affitto al 20% che non ce l'ha, ma -
potendolo fare - non esita ad acquistarne una seconda per le
vacanze, perché il mattone da noi piace. Non ha tradito mai. Se si
vende un immobile, il più delle volte è perché se ne va a comperare
uno migliore, oppure per dividere un'eredità o soddisfare un
divorzio.
Sulle case, le tasse in Italia non sono esagerate. Si parla
addirittura di abolire l'ICI per la prima casa. Ma soprattutto sono
bassi i valori catastali ai quali fa riferimento la legge. Anzi, i
governi stanno cercando di mettere mano ai valori catastali proprio
per poter «abbassare le imposte» in termini percentuali pur
aumentando gli introiti per l'erario.
Proprio partendo da quest'ultimo aspetto, in USA le tasse invece
sono abbastanza sensibili. Si parla di una percentuale dovuta alla
Contea (leggi «Provincia») di appartenenza pari all'1% per
la prima casa e al 2% per la seconda. Prima di dire se è poco o è
tanto, si sappia che ogni anno una commissione ufficiale, composta
da proprietari, inquilini, immobiliaristi, economisti, avvocati,
commercialisti, assicuratori e agenti del fisco, stabilisce quanto
valgono effettivamente gli immobili in quel momento. Il valore sul
quale si effettua il conteggio del prelievo è infatti esatto per
definizione, tanto vero che si usa normalmente la cartella
esattoriale per dare un valore commerciale all'immobile, anche per
impostare le trattative di compravendita.
Se la casa vale un milione di dollari, dunque, il proprietario di
prima casa versa ogni anno alla Contea 10.000 dollari, mentre se
fosse la sua seconda casa ne verserebbe 20.000. Questo è un aspetto
che a un europeo, ma tanto più ad un italiano, farebbe rizzare i
capelli.
Ricordo di un conoscente che aveva una casa a Miami Beach che
valeva sui 2 milioni e mezzo di dollari, al quale era stato
proposto uno scambio «alla pari» con altra villa situata
nell'«Isola delle Stars». Quel «pari» era riferito alla
superficie calpestabile, non certo al suo valore. Fatto sta che ha
rinunziato allo scambio perché sarebbe passato a pagare da 50.000
dollari a 125.000 all'anno di tasse… Per completezza, sull'aspetto
fiscale vanno aggiunte tre precisazioni.
La prima è che la data di scadenza del pagamento delle tasse sugli
immobili è fissata per il marzo dell'anno successivo, ma il
contribuente viene informato che se paga prima della scadenza gli
viene riconosciuto uno sconto, che aumenta con l'aumentare dei mesi
di anticipo. Un po' il rovescio di quanto accade da noi, dove viene
fissata una data e chi paga dopo si trova a dover pagare interessi
di mora.
La seconda è che, unitamente alla cartella delle tasse sugli
immobili, la Contea informa il contribuente di che cosa farà con i
soldi incassati. Che saranno rigorosamente investiti in iniziative
immobiliari: il rifacimento della scuola, la nuova stazione dei
pompieri, la caserma della polizia, l'ospedale, e così via. Se da
noi si potesse sapere che cosa fanno con le tasse che si pagano,
penso che si scenderebbe in piazza…
La terza è che nelle zone turistiche americane le Pubbliche
Amministrazioni hanno dunque un gettito davvero consistente sulla
base delle seconde case. Una Contea come quella di Broward
(Florida), che ha due città principali come Fort Lauderdale e
Hollywood con non più di 200.000 abitanti residenti, si trova ad
avere sul proprio territorio qualcosa come un milione di
abitazioni. Il reddito fiscale che ne ricava è dunque per il 10%
proveniente dai residenti e per il 90% dai turisti. E questo
indipendentemente che le case siano abitate, affittate o meno.
Ma, proprio per questo, in America si assiste spesso a fenomeni
economici di straordinaria grandezza che in Europa non sono neanche
immaginabili. Con il principio che un'abitazione rende molto
all'erario, difficilmente viene negata un'iniziativa immobiliare.
Adesso per fortuna hanno messo dei vincoli naturalistici
invalicabili, ma fino a qualche anno fa si sarebbe potuto pensare
che in un secolo avrebbero asfaltato e pavimentato l'intera
Florida, comprese le Everglades. Ma, là dove permesso, funziona
così.
Una società immobiliare compera qualche centinaio di ettari di
palude per pochi dollari l'acro. Li bonifica, ne costruisce un
campo da golf e attorno fabbrica un sacco di nuove abitazioni,
dalle più piccole alle più lussuose. Prima ancora di aver venduto
le case appena finite, la società passa a «bonificare» un altro
lotto simile, e così via, finché il mercato non si satura e salta
tutto come in un gioco di Shangai. Ma il guadagno fatto fino a quel
momento ripaga ampiamente del fallimento dell'ultima iniziativa
immobiliare.
In America non ci sono i cosiddetti «Centri storici». Semmai ci
sono le «downtown» (business centre), o i centri abitati
di prima generazione, dove l'unico modo per realizzare una
speculazione edilizia è quello di abbattere il vecchio per
costruire il nuovo con il doppio numero di piani.
Negli anni '70, cioè non più di una trentina di anni fa, nella
citata Contea di Broward si erano accorti che c'erano 25.000
abitazioni invendute. Qualcuno cominciò a svendere, e in pochi
giorni crollò tutto il mercato immobiliare. L'agente che me l'ha
raccontato ricorda che sua cognata aveva venduto oggi il proprio
appartamento per comperarne due l'domani senza aggiungere un solo
dollaro in più. Insomma, dai 100.000 dollari di un appartamento di
100 metri quadri, si era scesi a 40-50.000 in brevissimo tempo. Per
tornare ai valori originali si sono dovute smaltire le abitazioni
rimaste invendute. E così arriviamo a cinque anni fa. Vediamo che
cosa è successo nel 2001.
In USA quando tira la borsa, l'immobiliare ristagna. Sono anzi dei
segnali comunemente utilizzati dall'uomo della strada per capire
come stanno andando le cose in economia. Fino al crollo delle
Torri Gemelle, la borsa tirava da matti. Sembrava che
dovesse solo crescere, come se il denaro potesse rigenerarsi da
solo. Posso raccontare un aneddoto che chiarisce benissimo la
situazione.
Un amico italiano, che aveva casa in Florida, spiegava come i soldi
della liquidazione ricevuta in USA (per lavoro svolto in quel
Paese) gli rendessero una cifra da capogiro: quasi 20.000 dollari
al mese. Soldi, sia ben chiaro, non ricevuti dalla pensione, né
dalla rendita di obbligazioni o da cedole di azioni, ma da
speculazioni dei fondi di investimento che acquistavano e vendevano
con abilità. Per la precisione, il fondo mese per mese gli
accreditava sul conto la plusvalenza ricavata dalla compravendita
dei titoli in borsa.
Poi, d'un tratto, la borsa si è fermata. «Fermata», non crollata.
Niente variazioni in borsa, niente plusvalenze. Dalla mattina alla
sera non ha ricevuto più un sol dollaro di rendita. In altre
parole, il capitale ce l'aveva ancora ma non rendeva proprio più
niente, anzi, tendeva a perdere. Sicché ha pensato di liquidare il
fondo, di vendere la casa e tornare in Italia. Così si è accorto
che nel frattempo gli immobili avevano ripreso valore. Cosa era
successo?
La gente - ma soprattutto altri fondi di investimento - aveva
cambiato campo di operazione. Dalla borsa si erano portati sul
mattone. Acquistavano case, per rivenderle dopo qualche mese,
capitalizzando il plusvalore acquisito in quel breve periodo.
Scoperta questa nuova via per rigenerare i soldi, la gente aveva
ripreso ad acquistare case: ma non per ricavarne la rendita da
affitto, quanto per speculare sulla crescita del valore. Insomma la
borsa si era trasferita sul mattone, e i prezzi salirono
velocemente. I citati appartamenti della contea di Broward, venduti
negli anni '70 a 100.000 dollari e svenduti negli anni 80 a 50.000,
adesso si erano portati sui livelli di 200-250.000 dollari.
In questa frenesia di compravendita di immobili e di prezzi che si
erano portati fuori di testa, ovviamente le banche l'hanno fatta da
padrone. I mutui venivano concessi senza troppe difficoltà, perché
erano ampiamente coperti dai valori «straordinari» degli immobili.
E' qui che è nato il concetto di «subprime», ovvero la
concessione di credito anche a persone il cui unico patrimonio a
garanzia è formato dall'immobole stesso e senza un reddito tale da
sssicurare la nenesssaria capacità di rimborso. La logica era così
costruita. Per fabbricare un immobile i costi erano rimasti
sostanzialmente immutati, per cui il valore commerciale risultava
anche 5 volte superiore al mutuo richiesto. Il mutuo, che doveva
essere verosimilmente pagato dall'affitto, era l'ultimo problema
degli speculatori che ricavavano cifre ben maggiori.
Ma la realtà alla fine riprende sempre il sopravvento, per cui
quando le unità immobiliari hanno superato e sfondato tetti assurdi
e le borse hanno ripreso a «tirare» più degli immobili, i capitali
si sono spostati nuovamente a Wall Street. In pochi giorni
parecchia gente si è trovata ad avere il cerino acceso in mano:
doveva svendere o perdere ulteriormente valore. A questo punto, se
gli immobili fossero stati abitati dai proprietari, non ci
sarebbero stati problemi: avrebbero perso «virtualmente» di valore,
ma per contro avrebbero pagato meno tasse reali. Il problema era
che gli speculatori non avevano mai acquistato immobili per
abitarli, né tanto meno per darli in affitto.
Quindi sorse il vero problema collettivo: chi avrebbe pagato i
mutui?
I mutui, ovviamente erano ben garantiti dal valore degli immobili.
Ma quale valore, quello della distinta base o quello del mercato?
Comunque sia, anche ammesso che i mutui fossero stati fatti per la
semplice costruzione dell'immobile e non per alimentare la
speculazione (cosa che peraltro più di una banca ha fatto), la
maggior parte di essi non era dotata di un affitto che ne
consentisse il pagamento delle rate. Le banche dunque si sono
trovate ad essere le proprietarie finali delle case. Ma questo non
è il loro lavoro, per cui ne hanno a loro volta affidato la vendita
a società specializzate. Non ricavando abbastanza, come accaduto
negli anni '70, le banche si sono trovate di fronte alla necessità
di scegliere fra tenere gli immobili in attesa di tempi migliori o
a svenderli per «pochi dollari, maledetti e subito».
Questa è la crisi che sta attraversando attualmente il settore
bancario collegato a quello immobiliare americano.
Francamente non sappiamo quanto il fenomeno possa inriflettersi
sull'Europa, tuttavia la mancanza di liquidità bancaria è sempre
fonte di tensioni internazionali e poi tutte le banche sono bene o
male collegate tra loro. Per questo non solo la Federal Reserve ha
immesso sul mercato 35 miliardi di dollari, e per questo la BCE ne
ha immessi il doppio.
Fatto sta che le borse stanno nuovamente attraversando un momento
di congiuntura negativa, che però difficilmente farà trasferire
nuovamente il capitale speculativo sull'immobiliare. Questo perché
la speculazione non cerca immobili a prezzo conveniente, ma
qualcosa che in pochi mesi possa valere di più.
L'equilibrio andrà a trovarsi da solo, perché comunque nessuna
banca centrale è più in grado di controllare mercati così vasti
come quelli del dollaro o dell'euro. Anzi, riteniamo che nei
prossimi giorni assisteremo a fenomeni del tutto nuovi, sui quali
imparare a leggere il futuro e farne tesoro per le «prossime
volte».
L'unica cosa che vogliamo aggiungere che per un italiano ricco
questo sarebbe il momento per acquistare un immobile negli USA,
meglio sempre in zona turistica. Non certamente per ricavarne un
affitto annuale, ma per abitarci quando si va in vacanza e semmai
affittarlo per brevi periodi quando non lo si abita.
GdM