Il corpo dei nativi digitali – Di Giuseppe Maiolo, psicanalista
Nell’era digitale il corpo non è solo un involucro, ma è l’aspetto esterno dell’«Io»
I nuovi giovani, quelli digitali, in rete si cercano, si trovano, si incantano. O meglio si mostrano con mille volti o per lo meno con quegli Avatar che si possono impersonare.
Il corpo è diventato un’immagine da postare, un’icona da mostrare che soddisfa il diffuso narcisismo dei tempi. Purtroppo gli dolescenti non si raccontano più.
La narrazione di se stessi agli altri non appartiene alla tecnologia avanzata della comunicazione, dove più che parlarsi si «cinguetta».
Twittare è diventato un verbo che ha avuto grande successo ma ha ridotto la comunicazione a 140 caratteri. Troppo pochi per raccontare di sé e delle proprie emozioni e tentare di interrompere la sofferenza e la paura, l’apatia e la timidezza che in adolescenza sono di casa.
Un tempo c’erano le lettere che ti aiutavano a esprimere un cumulo di sentimenti soffocati che nascevano nel corpo e che non sapevi dire. Scriverne poteva permettere di parlarne e alleggerirsi e qualche volta addolcirne il sapore acre con la penna.
Quando in adolescenza il corpo si risveglia, di solito si manifesta rumorosamente, ma oggi rimane troppo a lungo incerto, ridotto solo a un’immagine costruita su altre immagini più virtuali che reali.
Il corpo che cambia fa paura, a volte angoscia e i ragazzi, maschi o femmine che siano, prigionieri del loro infantile egocentrismo, sembrano incapaci di uscire dall’adolescenza.
Molti si rifiutano di crescere, di cambiare e mutare di aspetto. A guardarli li vedi fisicamente bambini che temono il mondo o, addirittura, lo rifiutano con inspiegabili angosce che chiamiamo fobie.
Altri si accaniscono sul loro corpo, lo maltrattano oppure lo negano e non è un caso che siano in aumento i disturbi del comportamento alimentare e temibili patologie come l’anoressia.
Nell’era digitale il corpo può diventare ancora di più un problema. Perché non è solo un involucro, ma è l’aspetto esterno dell’«Io», una sorta di abito che riveste il mio mondo interno e con il quale posso mostrarmi agli altri, farmi conoscere e farlo conoscere.
Non vi è dubbio che nella fase adolescenziale è sempre stato faticoso accettare il proprio corpo, anche solo portarlo appresso.
Sovente percepito come ingombrante e inopportuno, ha richiesto percorsi di integrazione a volte difficili e lunghi che hanno attraversato l’identificazione con il gruppo e il confronto coi pari, con i loro corpi fisici e reali.
Un’operazione importante, a volte complicata, ma utile a differenziarsi e individuarsi per sviluppare la propria identità psichica e la propria personalità.
Ora tutto tutto sembra più difficile. Nel mondo virtuale il corpo fisico ha perso gran parte della sua fisicità e materialità.
È diventato un «io corporeo» evanescente e smaterializzato. Per questi adolescenti digitali proiettato all’esterno che sono cresciuti con la complicità pervasiva dei videogiochi con cui hanno giocato e finto per anni il corpo che non è più un limite.
Men che meno viene sentito come confine entro il quale si realizzano e si vivono stati d’animo, emozioni, sentimenti.
Così questi ragazzi non lo vivono pienamente e non lo sentono se non con dosi massicce di adrenalina con cui cercano di superare apatia e noia.
Cresciuti con infinite «emoticon» sono abilissimi nel sintetizzare uno stato d’animo con uno smile ma forse in grande difficoltà a dare un nome a ciò che provano nel corpo, a gestire le emozioni e riconoscere quelle degli altri.
Giuseppe Maiolo - www.officina-benessere.it