A cinquant’anni dall’alluvione del 4 novembre – Seconda parte
A Trento il ponte di San Giorgio era stato minato: sarebbe stato fatto brillare nel caso fosse stato travolto dalla piena
(Vedi prima parte)
Quel lontano 3 novembre 1966 scuole e uffici erano chiusi per via del ponte tra la commemorazione dei santi e dei defunti e il 4 Novembre.
La mattina di quel giorno però si respirava già un’atmosfera pesante. La pioggia battente continuava a cadere e di tanto in tanto lampi e tuoni davano un sinistro segnale perché non capitava spesso che una perturbazione portasse anche fenomeni temporaleschi.
Il torrente Vela era cresciuto notevolmente, ma era sotto controllo. I danni li faceva solo quando la portata aumentava improvvisamente e in breve tempo. Però sapevamo che l’Adige era arrivato ai livelli dei due anni precedenti.
Il fenomeno preoccupava gli anziani ma suscitava l’interesse dei giovani. E in effetti era affascinante vedere lo scorrere minaccioso delle acque del fiume sempre più violente e rossastre come sempre quando la piena avveniva nelle valli dell’Avisio.
Il ponte di San Lorenzo era davvero uno spettacolo. La potenza della natura era davvero impressionante, ma il ponte reggeva bene. Era chiaro che prima di poter toccare le volte delle arcate sarebbe tracimato dagli argini. Quindi impossibile…
Da sempre i tronchi d’albero trasportati dalla corrente dell’Adige in piena venivano tirati a riva da persone che poi ne facevano legna da ardere. E il legname si portava dalla parte esterna della curva, quella orientale. I «pescatori» di tronchi stavano solitamente appena a valle del ponte di San Lorenzo, dove i gorghi avvicinavano all’argine il legname trasportato.
E proprio lì ci fu una prima vittima dell’alluvione, un uomo che aveva commesso l’errore di legarsi alla vita la corda del rampino…
Il ponte di San Lorenzo era tutt’altra cosa. Era stato fatto in legno dai tedeschi in sostituzione del ponte di san Lorenzo, del quale era molto più basso. Quella mattina del 3 novembre le acque dell’Adige toccavano i cassoni delle campate più vicine agli argini. Se il livello fosse aumentato ancora, il ponte sarebbe stato travolto dalle acque, con il rischio reale di abbattere a sua volta anche il ponte di San Lorenzo che stava più a valle.
Per questo il Genio Civile aveva disposto che il ponte venisse minato dai guastatori. L’ordine era di farlo saltare non appena fosse certo che veniva travolto dalle acque. Due pattuglie di carabinieri per parte impedivano alla gente di avvicinarsi, ma noi giovani ci eravamo trovati un posto per poter assistere all’eventuale esplosione… Insomma, come si vede, la curiosità che ci animava rasentava il cinismo.
In tutti i casi il livello dell’Adige tra i due ponti era a pochi decimetri dal pelo della strada. Allora non c’erano i muretti rivestiti di pietra che vediamo oggi e nel corso della giornata il livello si portò pericolosamente vicino al bordo.
Le cose non andavano meglio a valle del ponte di San Lorenzo. C’era una passerella ciclopedonale che attraversava l’Adige per collegare l’attuale via Monte Baldo all’altra sponda del fiume.
Quel 3 novembre la passerella fu travolta dalla forza della piena e scomparve tra i flutti. Solo un pilone rimase in piedi, piegato, quasi a ricordo della passerella. Lo si vede ancora.
In città c’era un altro corso d’acqua che faceva paura. Era il Fersina. Se dal Ponte dei Cavalleggeri si guardava a monte del torrente, l’ultima cascata faceva rimbalzare l’acqua spaventosamente verso l’alto, certamente alcuni metri più in alto del ponte. Poi l’acqua ricadeva per passare sotto il ponte senza sfiorarlo.
Le piene del Fersina hanno sempre scaricato nell’Adige un’enorme quantità di detriti alla sua foce, che si trova a sud del ponte di Ravina.
Inutile dire che andammo anche lì a vedere gli effetti della forza della natura.
Quella notte tra il 3 e il 4 novembre restai a casa con la mia famiglia, dopo aver chiuso l’ultima paratia di sicurezza sul Vela.
I miei amici di Cristo Re invece si davano il cambio per avvisare nel caso venisse deciso il brillamento del ponte di San Giorgio. Uno «spettacolo» da non perdere…
E invece, d’un tratto – poco prima della mezzanotte – le acque del fiume si abbassarono sensibilmente. Cosa era successo?
Il fiume aveva rotto l’argine a Roncafort. Per questo il livello si era abbassato.
Ma non fu subito chiaro che cosa stava succedendo. Le acque invasero la città inesorabilmente ma con calma.
Quando i ragazzi che attendevano il brillamento del ponte capirono che l’Adige li avrebbe aggirati, prendendoli da dietro, scoppiò il panico.
In realtà l’acqua non sarebbe arrivata alla chiesa di Cristo Re, ma non lo si sapeva. Scappando verso il centro, i ragazzi videro i tombini che saltavano in aria per metri sospinti dalla pressione delle acque.
Qualcuno pensò a mettere in salvo le automobili. Ma dove? Qualche furbone suggerì via Torre Vanga… Ma poi decisero per piazza Venezia e via Grazioli. Il punto era più alto e sia il Salè che la Roggia Grande non preoccupavano.
Noi, alla Vela, fummo svegliati da un fenomeno agghiacciante. Sentendo delle spaventose esplosioni provenire dalla città, salimmo nei piani alti per capire cosa accadeva.
Si vedevano impressionanti esplosioni più o meno dove c’era la fabbrica SLOI, allora in piena produzione. Non sapendo che il fiume aveva invaso quella parte della città, non si capiva cosa stesse succedendo.
Le esplosioni erano spaventose. Le luci bianche che si levavano in cielo erano spettrali. Era il carburo presente nei magazzini della fabbrica, che al contato con l’acqua esplodevano.
Ricordo che mia madre si mise a pregare per le persone che potevano trovarsi lì dove si stava scatenando quell’inferno.
Si era arrivati al 4 novembre 1966.
G. de Mozzi
(Continua domani)