Storie di donne, letteratura di genere/ 89 – Di Luciana Grillo
Gilda Policastro, «Cella» – Difficile leggere un romanzo così povero di amore, così carico di solitudine…
Titolo: Cella
Autrice: Policastro Gilda
Editore: Marsilio 2015
Pagine: 174, rilegato
Note: disponibile eBook
Prezzo di copertina: € 17
Gilda Policastro è scrittrice, poetessa, saggista e critica letteraria.
«Cella» è il suo terzo romanzo, una storia difficile e complessa, claustrofobica, raccontata con rigore e senza compiacimento.
Una storia si innesta in un’altra storia – e compare un diario – per poi concludersi con un io narrante, assolutamente inatteso.
Forse ci sono riferimenti a fatti di cronaca ormai lontani, che però danno un’aria di verità a tutto il romanzo.
Già il titolo evoca un luogo chiuso, dove ci si rifugia volontariamente oppure dove si è invece costretti a vivere (o a sopravvivere).
La protagonista è una giovane donna che porta dentro di sé un’antica ferita, un senso di abbandono, una solitudine profonda.
Era una bambina quando suo padre ha lasciato sole lei e la mamma. Vive con la figlia Elena in una casa isolata, insieme ad un cavallo su cui la ragazza scorrazza in libertà.
Nella sua vita di adulta, la protagonista ha subito un abbandono, quello del suo uomo, del padre di sua figlia, Giovanni – un medico donnaiolo molto più vecchio di lei – che si occupa anche di politica e che, avendo curato una terrorista, diventa latitante anche per la società.
Prima, lo era per le sue donne. Abbandonate.
La protagonista, ossessivamente, ritorna nel suo passato, ricorda l’adolescenza triste, il suo sentirsi “venduta”, ripensa al rapporto con sua madre, «…Tutti gli uomini di casa mia se n’erano sempre andati, da mio padre in poi. Le donne sono incapaci di andarsene, anche quando va tutto male.», rivede «gli occhi da animale ferito» di Elena che lei aveva schiaffeggiato («è stata la prima e ultima volta, ma gliene ho dati tanti, dappertutto, non riuscivo a fermarmi») perché le aveva riferito quello che a scuola le sue compagne dicevano di Giovanni, di suo padre.
In realtà, la nostra protagonista ammette con rammarico che non riuscì «a volerle bene nemmeno in quel momento: la favola dell’amore materno non è a me che devono raccontarla. Elena è stata sempre un’estranea, dalla notte in cui l’abbiamo concepita».
Diventata adulta – e sola – la mamma di Elena si chiede in cosa abbia sbagliato, perché la sua vita abbia attraversato tanta solitudine e tanto dolore, perché non abbia consentito a sua figlia «ogni tanto, (di) disobbedire», perché spii «Elena e le sue amiche (che) chiacchierano distese guardando il soffitto. Cosa si dicono. Le spio, ma non capisco quasi nulla. E’ un loro codice, come quello che usava Giovanni coi colleghi. Io non ho amici né colleghi, perché non sono utile al mondo… Non c’è futuro per me, sono destinata a declinare, e a guardarmi allo specchio tutti i giorni da sola».
C’è una disperazione senza fine nei pensieri di questa donna ancora giovane, che si è sentita venduta da sua madre, usata dal suo uomo, non amata da sua figlia, anzi, per Elena, si sente di peso: «Le altre madri e le altre figlie si sorridono, noi abbiamo sempre un sospeso della volta precedente, dall’ultima telefonata».
E poi ci sono gli uomini, Dario – altro figlio abbandonato, fratello di sua figlia, marito e padre, amante, – il professore, lo psicologo che le girano intorno, mentre lei si sente lontana, insensibile, perché «Viene un tempo in cui le lancette sono ferme a quell’unico istante, della perdita», in una casa che per lei è solo un contenitore di infelicità, una cella.
E Cella qualche volta la chiamano gli altri, Elena e Dario che «rimangono chiusi in camera per ore… Perché mi chiamano Cella… forse perché sto chiusa in casa… o forse perché amo un uomo che in cella, in effetti, dovrebbe finirci… a rimanere dentro, sconfitta, sono io. Cella».
Raramente ho letto un romanzo così povero di amore, così carico di solitudine…
Luciana Grillo
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