«L'arma cinese per la leadership globale – Di Veronica Castellano

«Asian Infrastructure Investment Bank»: un articolo che si raccorda con l’intervento di Federico Rampini al festival dell’Economia

 

Ieri abbiamo pubblicato l’intervento del collega Federico Rampini al festival dell’Economia, intitolato «L'era della Cina, delle banche centrali, dell'energia rinnovabile» (vedi).
Oggi pubblichiamo il dotto intervento dell’analista Veronica Castellano, che costruisce un quadro utilissimo per capire il ruolo che la Cina avrà nei prossimi anni, forte di un quarto di abitanti del nostro Pianeta, ahimè sempre più piccolo.

Lo scorso ottobre il governo cinese ha ufficializzato l’istituzione della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), il nuovo progetto finanziario per il potenziamento della rete infrastrutturale nella regione asiatico-pacifica.
In diretta concorrenza con la Banca Mondiale (WB), il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Asiatica di Sviluppo (ADB), l’AIIB rappresenta una sfida per il sistema di Bretton Woods che ha dominato incontrastato dalla fine della seconda guerra mondiale.
Con un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari (che potrebbe raddoppiare), la Cina guiderà la costruzione di infrastrutture nei Paesi in via di sviluppo delle regioni asiatiche e si propone di promuovere il miglioramento delle condizioni di salute, di sicurezza, l’educazione e il libero commercio.
L’AIIB costituirà inoltre una piattaforma per lo sviluppo del progetto «One Belt One Road», la nuova Via della Seta che attraverserà internamente l’Asia occidentale fino ad arrivare in Europa, e via mare collegherà la Cina con i Paesi del sud-est asiatico, dell’Africa e dell’Europa.
 
Al momento ammontano a 57 i Paesi fondatori. Con la rinuncia al diritto di veto da parte del presidente cinese Xi Jinping lo scorso marzo sono arrivate anche le adesioni di alcuni Paesi europei (tra cui l’Italia) e dell’Australia, per i quali la nuova istituzione finanziaria potrebbe rappresentare un’importante porta di accesso a nuove opportunità economiche nel contesto asiatico.
Infatti, nonostante ai membri non asiatici sia concessa una quota azionaria complessiva non superiore al 25%, l’adesione all’AIIB potrebbe facilitare l’accesso europeo al mercato interno cinese e favorire la partecipazione ai lavori di costruzione infrastrutturale.
Tutta l’Europa occidentale ad eccezione di Belgio e Irlanda rientrerà tra i membri fondatori, mentre la ristrettezza di capitali dei Paesi del fronte orientale del continente ne ha determinato una sostanziale esclusione.
L’Europa è consapevole che la manovra di Quantitative Easing introdotta lo scorso marzo dalla Banca Centrale Europea renderà l’Euro più competitivo sui mercati internazionali, favorendo una ripresa economica sostenuta più dalla domanda estera che da quella interna.
In tale ottica, aprire le porte a Pechino potrebbe catalizzare investimenti cinesi nel Vecchio continente.
Anche la quasi totalità dei paesi asiatici è stata ammessa, insieme ai maggiori stati emergenti quali Brasile, Russia, India e Sud Africa, già impegnati nella nuova BRICS Development Bank.
Sono rimaste escluse anche Taiwan e Corea del Nord, ripetutamente rigettate per mancato rispetto di standard di trasparenza economica, oltre a Bhutan, Timor-Est e Nuova Guinea. Al contrario il Giappone, sulla scia di Canada, Stati Uniti e Messico, non ha fatto domanda di adesione, combattuto tra la storica alleanza con Washington, la tentazione di formare con Pechino uno spazio di co-prosperità e le contese aspirazioni per l’assunzione della leadership tra gli Stati asiatici.
 
Nonostante il suo carattere multidimensionale, AIIB rappresenta, di fatto, il tentativo di Pechino di creare un’alternativa, nuova e trainata dal dinamismo economico cinese, al tradizionale sistema finanziario internazionale, in cui la voce statunitense è sempre stata una variabile determinante.
Il tetto del 25% del capitale totale imposto ai membri extra-asiatici, da un lato, e l’insufficienza di risorse finanziare in grado di acquisire un consistente volume azionario da parte degli altri attori regionali, dall’altro, sembrerebbero conferire alla Cina il primato all’interno della nuova istituzione.
Il potenziale ridimensionamento del monopolio statunitense sul mercato finanziario internazionale a favore dell’emersione cinese sarebbe solo l’ultimo passo di un processo di affermazione internazionale intrapreso dalla Cina ormai da più di un decennio.
La Cina vanta oggi la seconda più grande economia mondiale, la popolazione più numerosa, le più ampie riserve in valuta estera e la maggiore potenza manifatturiera e commerciale al mondo.
I 1.223.7 miliardi di dollari detenuti in T-Bonds (titoli del Tesoro degli Stati Uniti) e un tasso di crescita annuo superiore al 7% (meno del 10% degli anni precedenti ma comunque eccezionale rispetto all’1.7% atteso per l’Europa e al 3.5% per gli Stati Uniti) pongono la Cina in prima linea sia nei mercati finanziari che nell’economia reale.
Nel 2010 Pechino ha persino sostituito gli Stati Uniti come maggiore partner commerciale e prestatore di molti Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, consolidando, di fatto, una nicchia di influenza costituita da accordi commerciali ed investimenti diretti, principalmente indirizzati all’import di materie prime.
A completamento di questa tendenza, la maggiore indipendenza energetica americana per la scoperta dello Shale Gas sembra aver incentivato il ri-orientamento dei mercati energetici saudita, sudanese, iraniano e venezuelano verso oriente, facilitando, di fatto, il consolidamento di nuove e proficue relazioni commerciali tra questi Paesi e il gigante cinese.
 
L’AIIB, dunque, sembra destinata a smuovere i tradizionali equilibri del sistema macroeconomico nazionale e internazionale: se da un lato i flussi di investimenti diretti all’estero potrebbero condurre a una minore dipendenza del renminbi dall’andamento del dollaro e favorire la transizione da una crescita export-led ad una sostenuta dai consumi, dall’altro la maggiore indipendenza potrebbe arrivare al caro costo di un apprezzamento della valuta e di un crollo del valore delle riserve in dollari.
Negli anni, infatti, il governo cinese ha portato avanti una politica di devalutazione della moneta nazionale rispetto al dollaro per tenere il renminbi competitivo e favorire una crescita fortemente dipendente dall’export del settore manifatturiero.
Tale devalutazione ha creato un circolo vizioso in cui ai crescenti surplus nella bilancia commerciale (generati dagli ampi volumi di esportazioni) la People’s Bank of China (PBC, banca centrale cinese) ha reagito con un ulteriore acquisto di dollari in cambio di renminbi.
Una politica economica che ha trovato ulteriore impulso con la crisi finanziaria americana del 2008, allo scopo di contrastare il deprezzamento del dollaro che i trilioni iniettati nel sistema dalla Federal Reserve System (FED) avrebbero generato.
Se l’autorità centrale cinese non fosse intervenuta lasciando agire i meccanismi del libero mercato, lo yuan si sarebbe apprezzato (ovvero sarebbe diventato più costoso in termini relativi) a causa dell’eccesso di domanda per i beni cinesi (quindi di valuta cinese acquistata in dollari), disincentivando l’afflusso di capitali, con conseguente rallentamento dell’export e aumento del tasso di disoccupazione.
L’intervento della PBC ha invece simultaneamente stimolato la domanda di dollari statunitensi (con effetto apprezzativo) e l’offerta di renminbi (con effetto deprezzativo).
Come ovvio risultato, nelle casse cinesi sono confluite ingenti riserve in dollari, con cui la PBC ha iniziato ad acquistare titoli del tesoro presso la FED (ossia, debito americano impacchettato in T-Bonds) che perlomeno garantivano un minimo ritorno.
 
Se da un lato queste manovre hanno fatto della Cina una potenza in crescita a tassi ineguagliabili, dall’altro la disponibilità reddituale di produttori e consumatori è stata tagliata da un’inflazione alle stelle.
L’esito più drammatico ha riguardato tuttavia la nuova composizione del PIL cinese, rappresentato per quasi il 50% da riserve, la maggior parte delle quali denominate in dollari: tale scelta ha determinato la stretta dipendenza della politica economica cinese dalle fluttuazioni della valuta americana.
Dunque, se Jinping decidesse di finanziare i progetti infrastrutturali dell’AIIB attraverso le riserve in dollari, reimmettendo nell’economia reale i miliardi di dollari detenuti in T-Bonds, ne deriverebbe un veloce apprezzamento dello yuan e deprezzamento del dollaro.
Uno yuan più costoso scoraggerebbe l’afflusso di capitali, alleggerendo la pressione inflativa e dando tregua ai consumatori, ma allo stesso tempo farebbe crollare la competitività dell’export nazionale, principale motore di crescita, infierendo sui già alti tassi di disoccupazione (in parte controbilanciati dall’incremento della domanda di lavoro per la costruzione di infrastrutture).
Aumentare la quantità di dollari nel sistema significherebbe inoltre ridurne il valore, con effetti distruttivi sul valore delle stesse riserve cinesi in dollari.
Dalla prospettiva statunitense la ridotta domanda di T-Bonds ne abbasserebbe il prezzo aumentandone il tasso di interesse, che riportato sul sistema bancario potrebbe rendere i prestiti più costosi e disincentivare gli investimenti, rallentando la crescita.
Effetto, quest’ultimo, parzialmente compensato sia dalla maggiore competitività che acquisirebbero le esportazioni statunitensi che dall’eventuale allentamento della politica di offerta espansiva della FED.
 
Sul fronte Sociale l’investimento nella rete di infrastruttura avrà un duplice effetto positivo sull’economia Cinese in quanto sia l’aumento della spesa pubblica che la creazione di posti lavoro (e di conseguenza il maggiore reddito disponibile e propensione al consumo) stimoleranno la crescita dell’economia reale e la riduzione della povertà.
Nonostante la Cina sia la seconda potenza economica mondiale, il salario medio nazionale è piuttosto basso e le profonde disuguaglianze (indice di GINI intorno allo 0.47, sintomatico di una distribuzione del reddito diseguale) alimentano il dissenso pubblico.
Un miglioramento della qualità della vita e l’adesione a più alti standard internazionali potrebbero generare un sensibile miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro anche di quelle fasce di lavoratori più deboli, meno specializzate e attualmente ai margini del miracolo economico cinese.
Sul piano geopolitico, con la costruzione di strade, ferrovie, pipelines e porti in tutta la regione asiatica, la Cina non solo incoraggerà lo sviluppo dei pesi vicini, ma istituirà basi strategiche per il commercio con tali regioni, le cui economie si ritroveranno inevitabilmente connesse a quella cinese.
Lo sviluppo di nuove infrastrutture portuali nell’area dell’Indo-Pacifo, inoltre, potrebbe essere un ulteriore supporto alla strategia di potenziamento delle forze di Aeronautica e Marina, attualmente perseguita da Pechino.
Infatti, gli attuali sforzi di modernizzazione dello strumento militare cinese, accompagnati da un accrescimento infrastrutturale permetteranno di espandere la presenza di Pechino nel Mare Cinese Meridionale e Orientale.
Ne seguirà non solo un consolidamento della capacità di proiezione cinese nella regione, con un aumentato potenziale di deterrenza rispetto alle Forze statunitensi che programmano di redistribuire in Asia il 60% del loro potere marittimo entro il 2030.
 
Alla luce dei notevoli progressi in campo geopolitico e militare, la conquista di una più ampia autonomia sul fronte della policy economica potrebbe dunque costituire il passo decisivo verso l’affrancamento da Washington.
L’AIIB rappresenta in questo senso una opportunità unica per spendere nell’economia reale i circa 3.6 biliardi di riserve in valuta straniera, di cui 1.2237 biliardi in T-Bonds americani, e favorire la diffusione dello yuan nelle transazioni della regione asiatico-pacifica.
Le possibili ripercussioni sistemiche che genererebbe uno sfruttamento delle riserve di dollari per il finanziamento dei progetti infrastrutturali dell’AIIB rendono quanto mai evidente la stretta correlazione tra l’economia americana e quella cinese: se da un lato la Cina possiede una buona quota del debito americano, dall’altro gli USA sono il maggiore importatore di prodotti cinesi.
 
In sintesi, se la Cina finanziasse i progetti dell’AIIB attraverso le riserve valutarie in dollari per ridurre la dipendenza dello yuan dall’andamento della moneta statunitense (e quindi dalla politica economica americana), si attenuerebbero sia le pressioni inflazionistiche che il surplus commerciale con gli Stati Uniti, causa delle manovre di deprezzamento passate.
Inoltre, i maggiori guadagni generati in renminbi, non dovendo essere trasformati in T-Bonds, andrebbero a beneficio dei mercati di capitali cinesi piuttosto che americani.
Al contrario, il settore dell’export subirebbe un duro colpo, con ripercussioni negative sul tasso di crescita e sulla disoccupazione.
Tuttavia, nel medio termine si potrebbe verificare una transizione da un sistema economico export-led a uno trainato dai consumi crescenti, risposta naturale al fabbisogno di una crescita qualitativa nelle condizioni di vita della popolazione.
La nuova Banca Asiatica a guida cinese, e l’ampio consenso da essa acquisito, potrebbero dunque rivelarsi un ottimo strumento a disposizione di Pechino per smarcarsi dalla strategia di contenimento messa in atto da Washington.
L’AIIB potrebbe dunque segnare la marginalizzazione di un sistema americanocentrico e riconoscere alla Cina una voce internazionale proporzionale alla propria forza economica, finora vincolata dai limitati poteri concessi in ambito della WB e dell’IMF.
 
Veronica Castellano
(Ce.S.I.)