Claudio Tugnoli premiato a Savona – Di Massimo Parolini
Il filosofo bolognese (naturalizzato trentino) ha vinto il primo premio per una poesia in vernacolo
Primo premio per la Sezione poesia in dialetto o vernacolo per la poesia «Impastatrice di legno» a Claudio Tugnoli al concorso internazionale di poesia e fotografia «Nestore» organizzato da «Nuovo arcobaleno» di Savona.
La premiazione avverrà il 6 settembre.
Claudio Tugnoli ha insegnato filosofia e storia nei licei trentini (soprattutto al classico Prati di Trento) e nelle Università di Trento e Bologna.
Inoltre ha svolto per anni attività di ricerca presso l’Iprase trentino pubblicando vari volumi di filosofia e antropologia filosofica con un’attenzione particolare al tema del tempo: tra le sue varie pubblicazioni ricordiamo «Diacronia e sincronia. Saggi sulla misura del tempo», «Zooantropologia» (entrambi della Franco Angeli) e «Girard. Dal mito ai vangeli» (ed. Messaggero Padova).
Di recente ha curato il volume «Ritratto dell’anima. Anima del ritratto» (edizioni Osiride) che analizza (negli interventi dei vari autori) uno dei temi privilegiati dell’arte di tutti i tempi con un occhio di riguardo anche alla produzione artistica del Trentino.
Come poeta Tugnoli ha pubblicato «La tua ombra» (2011), «Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto brudriese» (2012), «Sarà forse la rana, o alcun che solo canti. Centosei haikai» (2013), «Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese» (2014), tutti nelle edizioni Manni di Lecce.
La poesia premiata è contenuta nella recente raccolta «Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese»: quaranta poesie in dialetto budriese inframezzate da versi in italiano (sempre dell’autore) e da sporadiche citazioni dotte.
Come scrive il linguista Daniele Vitali nella sua Prefazione «Il tono dei pezzi in dialetto e quello degli intermezzi in italiano è molto diverso»: il dialetto Tugnoli lo usa per i ricordi e contiene tracce di rimpianto, «L’italiano è una specie di contrappunto» dotato di una certa ironia e distacco che va a spezzare il «flusso di coscienza dialettale» della raccolta.
Il dialetto di Budrio svolge quindi la funzione letteraria, mentre gli inserti in lingua nazionale - come scrive sempre Vitali - hanno una valenza «ancillare».
Il budriese, ci ricorda Vitali (autore, con Luigi Lepri, di un importante «Dizionario Bolognese-Italiano, Italiano-Bolognese» e della grammatica «Dscarret in bulgnais?») appartiene al ramo rustico orientale della galassia dei sottogruppi dialettali bolognesi.
In calce del volumetto ricordiamo una «Nota sulla lingua» di Tiziano Casella (al quale si deve anche la revisione ortografica delle poesie della raccolta), impegnato da anni nell’insegnamento del dialetto ai giovani budriesi e dell’ortografia ai meno giovani.
La poesia svolge una «filosofica» similitudine tra gli elementi della terra (da un lato) che nelle mani sapienti della madre e lo strumento tecnico (impastatrice) diventavano pane che «terminava di morire nelle nostre bocche/ e infine diventava terra/ e poi grano di nuovo» (insomma: la ciclicità della ruota naturale e il «tutto si trasforma») con l’uomo e la sua esistenza effimera («Anche noi diventiamo terra,/ma ad esser rinato come fa il grano,/sappiamo che finora è stato solo Uno») che può aspirare ad una propria rinascita solo nel solco della fede nell’uomo-Dio.
Pubblichiamo di seguito la versione in budriese e la traduzione a fronte in italiano.
La gramadåura Apànna l’avêva preparè la pâsta, int al quâtar dla matîna, mî mèdar l’um mitêva sòta a môvar la gramadåura, pr an avàir da mnèr la pâsta tótta con al män, con una grän fadîga. La gramadåura l’îra un’âsta ad làggn che mé a fêva andèr só e żò parché ch'la squizéss l inpâst che mî mèdar la muvêva par dèri al tûran. Una vôlta mnè pulidén l inpâst l andêva taiè in tänt pîz par fèr al pagnòt e i panén. Dal män svêlti ad mî mèdar ai gnêva fòra al fåurum ad pän biänchi biänchi con un udåur spezièl: âli andêvan lasè quêrti un zêrt tänp prémma ad méttri int al fåuran par dèr môd al livadûr ad bérra ad fèr livêr la pâsta al necesèri. Cûṡar al pän al n îra mìa fâzil, biṡugnêva ch'al fóss còt al giósst né tròp còt né tròp pôc. Arê vló dmandèr a mî mèdar se cal pagnòt acsé bèli âli avéssan vójja d andèr int al fåuran. Lî l'um arê détt che ai vlêva al fåuran pr avàir al pän prónti da magnér. Da biänc al pän al guintêva dal stàss culåur dal furmänt madûr! Al pagnòt apànna gnó al mònd as lasêvan cûṡar sänza dîr gnìnt: dòp che la calûra la i avêva tôlt al fiê, âli îran prónti da magnèr. Al pän còt e al furmänt madûr se i avêvan al stàss culåur, ai avêva da èsar un parché: l îra che tótt dû i îran arivê ad cô. Al pän al finêva ad murîr int al nòstar bòcc e âla fén al guintêva tèra e pò furmänt un’ètra vôlta. Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis. Nuètar invêzi quänd a sän ad cô a pirdän al culåur dal furmänt madûr o dal pän còt e a guintän biänc biänc, ch'a parän alżîr alżîr, quèṡi prónti par èsar spazè vì da un cåulp ad vänt. Änc a nó a guintän tèra, mo a turnèr a nâsar cum é al furmänt, fén adès a savän ch'ai é stè såul Ón. |
L’impastatrice di legno Dopo aver preparato l’impasto verso le quattro di mattina, mia madre mi metteva all’opera per azionare l’impastatrice, così da non dover lavorare l’impasto solo con le mani, con una gran fatica. L’impastatrice era un’asta di legno, che io facevo andare su e giù per schiacciare l’impasto, mentre mia madre lo muoveva per dargli il turno. Una volta lavorato ben bene, l’impasto si tagliava in tanti pezzi per farne pagnotte e panini. Dalle mani svelte di mia madre uscivano forme di pane bianchissime con un profumo speciale: si lasciavano coperte per un po’ prima di metterle nel forno, per consentire al lievito di birra di far lievitare la pasta il dovuto. Cuocere il pane non era facile, doveva essere cotto il giusto, né troppo, né troppo poco. Avrei voluto chiedere a mia madre se quelle pagnotte così belle volessero andare nel forno. Lei mi avrebbe detto che ci voleva il forno, per avere il pane pronto da mangiare. Da bianco il pane diventava dello stesso colore del grano maturo! Le pagnotte appena nate si lasciavano cuocere senza dire nulla: dopo che la calura gli aveva tolto il fiato, erano pronte da mangiare. Il pane cotto e il grano maturo, se avevano lo stesso colore, doveva esserci un motivo: era che entrambi eran giunti al capolinea. Il pane terminava di morire nelle nostre bocche e infine diventava terra e poi grano di nuovo. Panis angelicus fit panis hominum; dat panis caelicus figuris terminum; O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis. Noi invece giunti al capolinea perdiamo il colore del grano maturo o del pane cotto e diventiamo così bianchi, che sembriamo leggeri leggeri, quasi pronti per essere spazzati via da un colpo di vento. Anche noi diventiamo terra, ma ad esser rinato come fa il grano, sappiamo che finora è stato solo Uno. |