«Ecco perché io credo che si debba rimanere in Afghanistan...»
Questo il commento di Antonio De Felice dopo aver visitato con noi il carcere femminile di Herat
Abbiamo aspettato a pubblicare questo
servizio, perché si vedono donne in carcere e sopratuttto i loro
bambini. |
Tra i percorsi organizzati per noi giornalisti nel teatro dell'Aghanistan di competenza italiana era stato inserita la visita al carcere femminile di Herat, perché stato costruito dal PRT di Herat con i fondi della Difesa, del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Italiana.
La visita al nuovo carcere mi ha fatto pensare e capire al vero motivo per cui dobbiamo rimanere in Afghanistan.
Ce ne sono solo 2 in Afghanistan, uno è questo e l'altro è a Kabul.
L'istituto si presenta ai miei occhi ben ordinato e pulito, costruito in modo molto funzionale e razionale, con ampi spazi comuni, laboratori, aule, play ground e celle a 4 posti molte ariose.
Tuttavia il colore turchese che domina sui muri della struttura e che mi spiegano essere il colore della città di Herat, mi ricorda quello dei burka che indossano le donne.
Una forma di versa di costrizione che corrisponde alla medesima privazione della libertà ancorché fuori dalle mura circondariali o domestiche che siano. Ma tant'é.
Il bacino di utenza é quello della provincia di Herat e delle province limitrofe di Farah, Nimroz, Badghis, Ghor e Faryab.
Le detenute attualmente sono poco più di 100 e per lo più scontano pene per crimini legati al furto.
Nella provincia di Herat, che è una delle più ricche se non la più ricca del Paese, le condizioni di vita sono di povertà estrema. Si calcola che quasi 100.000 persone in quest'area vivano con meno di un dollaro al giorno.
Questa condizione colpisce soprattutto le donne che, spesso sole perché ripudiate dalla famiglia, con figli piccoli e in stato di semi-analfabetismo, non hanno molte altre possibilità che quella di rubare per sopravvivere.
L'età media delle carcerate è di 29 anni mentre le pene variano a seconda del crimine, dai 3 anni per adulterio ai 20 anni per l'omicidio.
In Afghanistan sono considerate adultere non solo le donne sposate accusate di frequentare un altro uomo (parlando con le recluse ho capito che la legge è benevola perché il più delle volte sono solo maldicenze), ma anche le giovanissime che stanno con un uomo che non è il marito designato.
Il direttore del carcere, il generale Abdul Majed Saddiqi, mi mostra con soddisfazione i laboratori per le attività sartoriali e per la tessitura dei tappeti che vengono venduti al locale bazar.
Parte dei soldi vanno all'amministrazione del carcere, parte (la più consistente) alle detenute che vi hanno lavorato.
Ci sono anche laboratori di informatica e di inglese.
«Negli ultimi sette anni di governo Karzai non mi risulta che una sola donna sia stata impiccata o lapidata, - ci ha detto il generale Saddiqui. - Nel periodo talebano, invece, le esecuzioni erano frequenti...»
La maggior parte delle detenute proviene da famiglie poverissime, non sa né leggere né scrivere e per loro l'istituto svolge una vera e propria opera di recupero sociale.
Moltissime infine le donne con i bambini che, fino all'età di 5 anni, hanno l'opportunità di vivere con le loro madri in carcere.
Il clima che si respira all'interno della struttura di detenzione è più sereno di quanto ci si possa immaginare e la sola presenza dei bambini crea un atmosfera particolare anche per chi, qui, dovrà passarci giustamente o meno un'eternità.
Comunque sia per tutti gli ospiti dell'istituto di pena, bambini compresi, poter mangiare in modo regolare, dormire in un letto vero, poter accudire i propri figli in modo adeguato con la relativa assistenza medica, poter studiare ed imparare un lavoro rappresenta in tutti i sensi la salvezza ma soprattutto rappresenta un successo, il successo della nostra presenza in Afghanistan.
E per questo il regalo del carcere femminile da parte del'Europa è stato importantissimo per i rapporti con la popolazione civile.
A raccontarlo così, il carcere femminile di Herat, sembra il paradiso anche se la realtà sarà certamente diversa.
La libertà e la giustizia sono un bene prezioso, non negoziabile e quando te li portano via è difficile accettare la condizione, soprattutto se la motivazione è assurda.
E di storie assurde me ne hanno raccontate tante le detenute del carcere femminile di Herat.
Antonio De Felice
Antonio De Felice è uno dei tre giornalisti andati in Afghanistan con il nostro direttore.
Nella foto sotto il titolo, con i bambini, l'altra giornalista italiana, Marina Viola.
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