Umberto Piersanti: le parole e le vicende – Di Massimo Parolini
Il poeta urbinate al Seminario permanente di poesia dell’Università di Lettere di Trento
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«Maria Luisa Spaziani, amica, forse anche amante di Eugenio Montale, che però in queste cose non era un fulmine, ricorda che un giorno, il grande poeta, passeggiando con lei, vedendola in estasi davanti ai sambuchi, esclamò «che bel fiore!» e poi domandò cosa fosse.
«Ma come – gli rispose Spaziani, – non sei tu ad aver scritto Alte tremano guglie di sambuchi? E ora non sai riconoscerlo?»
Montale si giustificò dicendo «Sai, la poesia si fa con le parole», intendendo che gli piaceva il suono di quel nome. Io, piccolo poeta rispetto al gigante Montale, non potrei mai nominare un fiore solo per il piacere del suo suono.
«Ad esempio sono orgoglioso di essere il primo ad avere poetato sul Favagello (vedi sotto la poesia), piccolo fiore giallo dei ranuncoli, che cresce ai bordi dei ruscelli, per un breve periodo, fino a maggio, non citato nemmeno dal grande esperto di botanica Pascoli.
«Io sento il profondo rapporto tra le parole e le cose, tra le parole e le vicende: poesia è lo sguardo che tu rendi con le parole giuste. Ma non è un esercizio linguistico e logico, come per le neoavanguardie letterarie novecentesche.»
Sono parole precise, dense e accalorate, quelle pronunciate da Umberto Piersanti presso la sede di Lettere di Trento, in via Tommaso Gar, in dialogo col prof. Massimo Rizzante, all’interno della cornice degli incontri del Seminario Permanente di Poesia (Semper) organizzato da Francesco Zambon e Pietro Taravacci (evento inserito fra le attività del Premio di Poesia città di Trento).
Sono le parole di un uomo classe 1941, «nato a Urbino durante il nevone, sulla via in discesa dove si affaccia il portone di Raffaello» mentre il padre combatteva nella guerra di Jugoslavia».
È un uomo franco, Piersanti, senza pose né rese, diretto, che ama raccontare e raccontarsi. Non ama il politically correct («e questo non mi ha portato solo vantaggi, nella mia vita»).
Ha al suo attivo undici raccolte di poesie e sei libri di narrativa, due di critica (oltre ad una carriera da docente ad Urbino, scelto direttamente dal rettore Carlo Bo).
La sua prima raccolta («La breve stagione») fu stroncata sul Corriere della Sera dal poeta-critico Alfredo Giuliani (del Gruppo ’63).
Questa distanza dallo sperimentalismo nella Neoavanguardia letteraria Piersanti lo ha mantenuto per tutto il suo percorso di vita e scrittura: «Ci separava la visione della poesia: io sono un uomo del centro Italia, amo il verso più tradizionale, musicale».
E recita splendidamente «Mezzogiorno alpino» di Carducci, «La sabbia del tempo» di D’Annunzio e qualche verso pascoliano.
Ma c’era anche una distanza ideologica: di sinistra, ma tendenzialmente «riformista» (parola che allora si traduceva con revisionista), vicino alla socialdemocrazia scandinava, avverso ai gruppi maoisti e trotskisti diffusi negli ambienti intellettuali.
Piersanti ricorda un episodio di cui parla nel romanzo sul ’68 «Cupo tempo gentile»: nel clima caldo della rivolta studentesca dell’Università di Urbino, fu l’unico (per pietà) ad opporsi all’incendio di un’aula dove si trovavano tre picchiatori fascisti.
Ricevette sputi e insulti. «Ho vissuto un’epoca di profonde differenze», chiosa Piersanti, ma non lo dice solo con amarezza, bensì anche come memoria di un tempo di ricchezza.
«Nato dentro le mura di Urbino, a differenza dei miei compagni che si sentivano cittadini e disprezzavano i contadini (i fuori le mura) io amai la campagna».
E racconta del suo bisnonno, Madio, che nel 1947 aveva cent’anni, i capelli biondi e lunghi, «una specie di Gesù Cristo»; rievoca il mondo magico in cui lo conduceva, con i suoi racconti fantastici.
Ecco svilupparsi nella sua produzione poetica e narrativa successiva il tema del mito di un mondo fatato, visionario.
«Ma a differenza di Pascoli e Pasolini, io non l’ho mai solo mitizzata la vita di campagna»: e ricorda episodi di sofferenza e ingiustizia, di sfruttamento e miseria, nella vita agreste campagnola.
Comunque si definisce un uomo «vissuto nell’ultimo mondo visionario» che farà da cornice a tanti suoi versi e narrazioni.
Piersanti è l’uomo delle colline Cesane, che fanno da sfondo ai quadri di Piero Della Francesca (e di altri pittori). Il loro cantore fedele. «Sono un poeta laterale, provinciale, angolare». Cantore dei «luoghi persi» (come titola una dei sue più belle raccolte) «sono nato in un mondo che è scomparso e tutto ciò che perdiamo irrevocabilmente ci fa soffrire».
«Io amo la dimensione della memoria: ma bisogna stare attenti: un volta passati, sogno e memoria sono la stessa cosa» (come fa dire anche all’uomo delle Cesane, nel suo omonimo romanzo).
La memoria modifica i fatti, li trasmuta. Ecco l’appello a un «tempo magico, auratico», cantato con forza nella raccolta «Il tempo differente».
Un tempo diverso, metafisico, che precede, nel quale «l'anima viene tra gli spini / ma l'anima è piccola, fatta d'aria, / passa tra gli spini e non si graffia» (L’anima, da I luoghi persi).
Piersanti conclude il suo racconto di un’anima, dove aver ironizzato anche sulla propria tensione sensuale (vedi sotto La fata) con una nota esistenziale drammatica, senza velare la propria sofferenza famigliare, parlando della convivenza con il figlio autistico.
E propone al pubblico una toccante «La giostra» (da Il tempo che precede), al figlio dedicata, ispirata alle giostre un po’ vintage del lungomare di S. Elpidio a Mare (nel fermano):
Ah, quella giostra antica nella ressa di scooter di ragazze vocianti, luminose dentro jeans stretti e falsotrasandati, dei fuoristrada rossi sul lungomare, escono da ogni porta, da ogni strada, straripano nell'aria che già avvampa, è l' ora che precede dolce la sera ma nessuno che salga sui cavalli, di legno coi pennacchi e quella tromba gialla, come nel libro di letture, la musica distante e incantata, quella che rese altri le zucche e i rospi lì c'era una ragazza tutta sola, vestita da Pierrot la faccia bianca, |
nessuno che prendesse i bei croccanti, lo zucchero filato dalla sua mano Jacopo che tra gli altri passa, senza guardare, dondola il grande corpo e li sovrasta, abbracciò un cavallo e poi pendeva dopo riuscì ad alzarsi, rise forte figlio che giri solo nella giostra, quegli altri la rifiutano cosi antica e lenta, ma il padre t'aspetta, sgomento ed appartato dietro il tronco, che il tuo sorriso mite t’accompagni nel cerchio della giostra, nella zattera dove stai senza compagni. |
Un incontro intenso, importante, quello con Piersanti, con un testimone di cinquant’anni di cultura italiana, spesso da protagonista, con quello che forse si può definire l’ ultimo versificatore di un mondo agreste in parte perduto, cantato da Teocrito e Virgilio fino a D ‘Annunzio e Pascoli, passando per l’Arcadia e Leopardi: un mondo che però, forse, sta tornando a chiamare anche qualche giovane e famiglia delle nuove generazioni, come spesso riportano le cronache, che lasciano la città, il lavoro impiegatizio e burocratico, per tornare alla terra, al contatto con la natura naturante e naturata: e in Piersanti troveranno il proprio placido cantore.
Umberto Piersanti, Giuseppe Colangelo e il prof. Pietro Taravacci.
L’isola (da I luoghi persi) Ricordi il mirto, fitto tra le boscaglie, bianchissimo e odoroso, scendere per i dirupi sopra quel mare? e le capre tenaci brucare il timo, l’enigma dello sguardo che si posa dovunque e sempre assente? Più non so il luogo dell’imbarco come salimmo nel battello quali erano le carte per il viaggio. Scendevi alta per lo stradino polveroso antica come le ragazze che portarono i panni alle fontane la tua carne era bruna come la loro. Férmati nella radura dove il vento ha disseccato e sparso i rosmarini qui potremmo vederle se aspettiamo |
immobili alle euforbie quando imbruna vanno alla bella fonte degli aneti giocano lì nell’acqua e tra le erbe e mai s’è udito un pianto sono felici. Tu eri come loro, solo una volta quando uscivi dal mare, ti sei seduta nei gradini del tempio, un’ombra appena trascorse di dolore nella faccia. Seppi così che il tempo era finito che tra li dei si vive un giorno solo. E riprendemmo il mare normali rotte. Qualcun altro s’imbarca, attende il turno né l’isola sprofonda come vorrei. |
Il favagello (da I luoghi persi) È d’un giallo squillante, nessun fiore l’uguaglia anche se prendi l’anno intero copre a febbraio i greppi verdissima è la foglia umida sempre un poco e immacolata quando la neve cade che ritarda il favagello resta sotto intatto |
se sta sotto la neve tre giorni sani e viene una ragazza che lo coglie dinnanzi alla specchiera, in un bicchiere col gambo dentro l’acqua poi lo mette sale nel vetro l’uomo, sale le scale bussa alla porta e aspetta se lei apre |
Nel tempo che precede (da I luoghi persi) Madre ch’eri fra tutte la più gentile persa con le tue amiche in fondo al fosso lunga la treccia sul tuo corpo snello scende fino alla vita, nell’acqua chiara hai camminato scalza, scosti le brecce dentro la tana il gambero s’appiatta d’intorno sono i colli che tu speri di sorpassare un giorno, non sai la meta guardi il greppo che pende e ti sovrasta oggi Madio ha preso con la vanga il lepre nel trifoglio alla piantata passano i merli dentro l’aria chiara getta fuori il sambuco acini fitti ma Celeste è lontano, presso i fili dove muore chi è andato a far la guerra scenderà questa notte giù dal cielo – la tua fiaba narravi all’Elda attenta – lo aspetto col cuscino presso il noce c’è come un carro grande che vola sopra |
per lui metto le viole nel bicchiere ho tolto dalla cenere i lenzuoli dopo scavò la terra proprio alla porta dentro ci ha messo il noce, la rama chiara consiglio della Fenisa quand’ha saputo che è quella la pianta dove aspetta scende nella divisa grigioverde lento giù per la costa sullo stradino e splende la sua faccia per la luce come mai s’era vista dentro l’aria sarà quella ragazza che t’aspetta venire nella notte giù dal cielo la prima che t’abbraccia sulla porta prima che nascessi furono insieme stavano tutti là presso l’aiuola a pescare castagne nel caldaro ora mancano tutti, manca una casa solo prima di nascere l’ho avuta |
La fata (da Nel tempo che precede) Nessuno deve entrare dentro il bosco che la vitalba chiude e cinge intorno, ma lui lascia le pecore e s’inoltra, spezza i fili coi denti, li butta in aria, pesta rami e grovigli, niente lo ferma dopo gli animali nei rami, sottoterra, cessano di frinire, vede il prato, l’erbe azzurrate e intatte, silenziose, s’aprono i bei lecci, fanno corona al grande ceppo della rosa bianca esce la fata fuori della corteccia Silvia l’incantatrice lì dimora, i suoi capelli splendono, la pelle, le lunghe gambe nate da quei rami |
un grande rischio corre chi la vede, la seguirono in molti, senza tornare – pastore, io t’ho scelto, sei fortunato, alla tua vita dono un giorno colmo. Dopo… dopo che importa? solo chi non ha colto rosa non s e punto – e la fata prese lui per mano si stese dentro l’erba, lo tirò dentro si risvegliò nel fosso, le sue pecore attorno col muso giù a brucare, solo che era inquieto, senza sapere giugno 1993 |
Abbiamo rivolto alcune domande al poeta-narratore
Piersanti, cosa rappresentano realmente per lei le Cesane?
«Se Urbino è la Polis, la città, la perfezione, le Cesane sono il cosmo, la natura, il luogo per mangiare in natura, far l’amore, cercare i funghi... Un luogo totale, dove ho scoperto il mondo, la natura, dove mia nonna aveva la sua casa e ho incontrato il bisnonno, che mi ha introdotto nel suo mondo mitico, di folletti e Springoli.
«Sono colline a forma d’altipiano che raggiongono un'altitudine di quasi 700 metri, tra Urbino e Fossombrone, cantate da Pascoli e Volponi (nel romanzo Corporale), dipinte da Piero della Francesca (e forse sfondo per i paesaggi anche di Raffaello), sconfinano con la galassia: un microcosmo che rappresenta il macrocosmo.
«Lì ho guardato le pecore, ho avuto paura la sera, quando scendeva dai valloni: le Cesane sono il mio spazio vitale.»
Ci racconta l’episodio dello Sprovinglo?
«Si tratta di una via di mezzo tra un diavolo e un folletto precristiano, dai toscani chiamato Fantasima: il mio bisnonno Madio mi raccontava che questo piccolo essere, in forma di cane nero, era salito nel biroccio (il carretto) e dopo un po’ i buoi non riuscivano più a tirare e il cagnolino si era ingrossato sempre di più. Allora lui diceva: tu sei il diavolo! E quello metteva le ali e se ne volava via. Altre volte lo Springolo saliva sullo stomaco schiacciando le persone.»
Quale compito ha attribuito alla poesia, nella sua lunga produzione?
«La poesia non è impegno sociale e pedagogico, non ha valore sociologico ma antropologico: è un atto d’esistere... Si scrive poesia per non morire, per vincere la paura della morte: butti le tue parole, sperando che superino le onde del tempo e dello spazio.»
È ancora possibile oggi la poesia? O meglio, ha ancora senso? È lo stesso che lei gli ha dato nell’arco delle sue generazioni? Oppure la poesia, oggi, ha un compito diverso?
«Certo, la poesia ha senso anche al giorno d’oggi, epoca di corruzione del linguaggio, dalle parole invasive e decadute, spesso numerosissime e anche superflue: ma il poeta cerca la parola totale, nel bla bla generale, una parola che conti per la vita, che aiuti nella contemplazione del mondo.»
Lei ha raccontato della sua vicenda famigliare di convivenza con un figlio autistico (col quale convive): ritiene che anche nella poesia (magari proprio quella da lei amata, auratica, visionaria) vi siano alcuni elementi che ci collegano con un universo pre-logico, primordiale, pathos-logico non «socialmente corretto»?
«Beh, la poesia da una parte è un distacco dalla quotidianità, ma accanto a una percezione primordiale propone anche una concezione estrema della parola, affiancando spesso la ragione della forma e del concetto (basti pensare alle canzoni filosofiche di Leopardi): insomma, nella poesia, convergono molte cose, sia l’elemento razionale che quello irrazionale-primordiale inconscio.»
Ci parli del suo recente libro di narrativa, «Le anime perse».
«Sono diciotto storie vere, raccolte da Ferruccio Giovanetti nei suoi centri di recupero del Montefeltro, da me trascritte e interpretate.
«È Il libro più narrativo che io abbia scritto: il protagonista qui non è la mia proiezione come negli altri romanzi, sono storie vere, tragiche, di criminali e di folli, come quella del contadino che ammazza il suo vicino con 17 colpi di fucile perché 17 sono i metri della sua terra che il vicino ha occupato a partire dal cippo di confine: ho dovuto mettermi nella testa di persone lontanissime, ho dovuto affrontare un mondo di dolore e follia e credo di averlo trattato con una forte dimensione di pietas virgiliana, precristiana.
«Per dirla con Terenzio: sono un uomo: nulla, che sia umano, mi è estraneo. Come nel Decameron anche qui c’è una cornice, uno spazio preciso, la struttura di Montefeltro, in cui le storie di tutta Italia si ritrovano: la natura, pacificante nel paesaggio, dovrebbe rasserenare queste anime perse, ma non sempre ci riesce...»
Massimo Parolini