«I dettagli sono importanti» – Di Enrico Grandesso

In libreria la recente raccolta di 12 racconti – Intervista di Massimo Parolini

Titolo: I dettagli sono importanti. Dodici racconti italiani
Autore: Enrico Grandesso
 
Editore: Biblioteca dei Leoni 2018
Genere: Narrativa italiana contemporanea
 
Pagine: 160, Brossura
Prezzo di copertina: € 15
 
Dodici, come i mesi dell’anno, gli apostoli, i cavalieri della tavola rotonda e i paladini di Carlo Magno, i Titani e le fatiche di Ercole: dodici come simbolo della ricomposizione dell’unità originaria e come superamento della prova iniziatica che fa accedere ad uno stadio superiore (dal profano al sacro).
Dodici sono i racconti che il padovano Enrico Grandesso (insegnante di materie letterarie da vari anni nelle scuole superiori del Trentino) ci regala nel volume «I dettagli sono importanti» (Biblioteca dei Leoni, pag. 160, euro 15).
Oltre alla funzione referenziale, con indicazioni precise del contesto, e a quella metalinguistica, con un passaggio meticcio costante dall’italiano al volgare veneto adoperando il principio della regressione verghiana, cercando l’eclisse del narratore e adattandosi a forme di pensiero e costrutti logici dei personaggi realisticamente rappresentati, l’autore sviluppa, fra le pieghe dei racconti, un’ attenta funzione emotiva del linguaggio, mettendo a nudo sentimenti, ansie, desideri, frustrazioni con i suoi personaggi: il bisogno di essere amati e la difficoltà inerente, è forse il tema più presente fra i protagonisti narrativi della raccolta.
Scomodando l’analisi estetica del francese Henri Focillon, potremo dire che tali protagonisti sono delle forme dotate di una propria autonomia, vite come opere d’arte che divengono sé stesse, forme che non rinviano ad altro se non alla propria cieca agitazione sepolta nell’intelligenza emotiva.
Vivendo, tuttavia, non in un’anarchia solipsistica bensì in una rete di relazioni complesse dotate di una propria - pur sofferta ed analogica - razionalità velata.
 
Il tutto sullo sfondo di una realtà territoriale, il Veneto («la California d’Italia») che l’autore, padovano di Camposampiero, descrive con la lente dell’entomologo, nella sua epigenetica, attraverso costanti e mutazioni antropologiche, sociali, storiche, che fanno della terra Serenissima un tessuto di bellezza e degradazione, energia vitale e depressione, vocazione religiosa-sociale-solidale e individualismo suicida, nel mito mai sopito della religione degli schei, che accomunano il Marangon del racconto «Fare», ai Mazzarò e Don Gesualdo verghiani.
Imprenditori, riecheggianti recenti fatti di cronaca i quali, venuti spesso dal basso, col lavoro continuo, i risparmi e gli investimenti tradizionali hanno creato imperi economici ma che la nuova finanza e bolle speculative di derivati and C. (unitamente ad una congiuntura finanziaria mondiale regressiva) hanno portato al fallimento (facendolo pagare in buona parte ai propri azionisti e dipendenti).
Ma c’è anche tanta voglia di socialità nei personaggi de «I dettagli»: i coscritti che si ritrovano a festeggiare i quarant’anni di un amico, elogiando il buon cibo e concludendo la loro parabola gustativa in fila al bagno di un bar distante, l’allegra brigata dell’Associazione Uniti per Vivere, che sempre a tavola coinvolge nella propria semplice umanità solidale un giornalista frustrato ed esistenzialmente solo che scopre l’accoglienza e l’abbraccio disarmante della condivisione emotiva disinteressata; il calore di una famiglia del Sud che sostituisce i rapporti avariati con i vecchi amici veneti che crescendo, di fronte alle difficoltà, possono voltarti le spalle e coi quali rimane l’astio mai sopito («Altrimenti»).
 
Socialità ancora spesso ricucita (pur a fatica) dalla vecchia figura del parroco, organizzatore di sagre della lucanica, che garantisce a disincantati giovani a caccia di sponsor tirchioni di suonare il jazz assieme al boogie («arricchiti, xe vero, ma son sempre anime»).
Un Veneto dunque che fatica a rimanere se stesso, ma che, con le sue energie migliori (quasi ultimi mohicani), non vuole cessare di esserlo.
Spesso a soffrire d’amore sono giovani donne, deluse dalla vita, talora ancora sognanti (come in «Brezza d’agosto»), altre volte più cautamente calcolatrici nell’evitarsi altre sofferenze per relazioni sbagliate (come in «Un che di romantico»).
Ci si salva ascoltandosi, incontrandosi, vincendo le diffidenze, andando oltre gli stereotipi delle differenze culturali che, pur avendo un proprio valore, possono incancrenirsi e diventare aria tossica che lascia solo scarti di solitudine: come i licheni, di cui era gran conoscitore e collezionista quello Sbarbaro che Grandesso ha spesso analizzato nella sua critica saggistica, sono l’improvviso che appare fra la vegetazione e diventano segno di un’aria buona, più respirabile, di condivisione, così, ci sembra suggerire lo scrittore padovano, saranno le occasioni di incontri inaspettati, non pianificati, a farci raggiungere quella felicità senza pieghe nel nostro cammino quotidiano evitandoci i burroni dove spesso gli ossessivi e alienati cercatori accaniti di farfalle possono cadere.
 

Abbiamo posto qualche domanda all’autore.
 
«I dettagli sono importanti». Professor Grandesso, perché la scelta di questo titolo?
«Perché è necessario stare sempre all'erta, saper osservare, smetterla di cedere alle distrazioni che da ogni parte ci attraggono o, considerate da un altro punto di vista, ci perseguitano.»
 
Tutti i racconti sono ambientati nella terra veneta: come mai?
«Il Veneto è dove son nato - nell'entroterra, benché la mia famiglia paterna abbia origini veneziane - e dove ho vissuto la maggior parte del mio tempo. Ho con questa terra e con la sua gente un rapporto di amore-odio.
«Quando stai per fidarti, ecco che in Veneto incontri una realtà di scontro o di competizione; appena ne hai preso atto, spesso vieni invece spiazzato da gesti cordiali o da realtà ospitali o fortemente altruiste, come il volontariato.»
 
Quali sono oggi le tensioni che attraversano questa realtà politica e culturale?
«Parlerei soprattutto di tensioni che attraversano le realtà umane e produttive - in questi dodici racconti il Veneto è specchio del nostro paese, mai una realtà a sé stante! Fino alla crisi del 2008, da cui né il Veneto né l'Italia sono ancora usciti, c'era una fede quasi cieca nelle infinite capacità di produrre e far schei.
«Non a caso il primo racconto del volume si intitola Radio California, perché qualcuno esaltava allora per radio con strafottenza e arroganza il modello veneto. Questi idioti, dopo la crisi, si sono progressivamente zittiti.»
 
A quali narratori moderni e contemporanei si sente più vicino?
«Ai narratori e ai poeti italiani classici, nel libro si citano, tra gli altri, Dante, Petrarca, l'Ariosto, il Folengo, Machiavelli. Ai grandi, veneti e non, del Novecento: Parise, Berto, Meneghello, Gadda, Arbasino. Tra gli stranieri, a T. S. Eliot e ai Dublinesi di Joyce.»
 
Non le sembra che il Triveneto, con la collaborazione delle forze economiche e politiche, potrebbe e dovrebbe potenziare la propria proposta culturale, diventando maggiormente protagonista anche in campo editoriale e letterario?
«Il ristagno dell'editoria è un problema non solo triveneto, ma nazionale. Certi grandi editori non fanno che pubblicare biografie di politici, o libri di giornalisti che, con un colpo di bacchetta magica, sono diventati storici o romanzieri.
«Mentre alcuni grandi autori non sono più ripubblicati. Per fortuna ci sono anche delle realtà editoriali coraggiose e combattive, che accettano la sfida di pubblicare e promuovere la letteratura di qualità.»
 
 L’AUTORE 
Critico letterario, insegnante e scrittore, Enrico Grandesso è nato a Camposampiero (Padova) da famiglia di origini veneziane. Si è laureato all’Università degli studi di Urbino (oggi Carlo Bo), collaborando per anni con la cattedra di Letterature Comparate.
Ha pubblicato saggi, tra gli altri, su Fogazzaro, Rebora, Sbarbaro, Rebellato, Turoldo, Sciascia, Marlowe e T. S. Eliot. Dirige una collana di ricerche letterarie per Marsilio.
È autore radiofonico per Radio Rai e autore teatrale di «Vozi dal mar e dala tera», in scena con la regia di Pino Costalunga dal 2001 al 2014, e di «Schei, tera e memoria», messo in scena dal Cantiere Teatrale Nautilus nel 2012-2013.

Massimo Parolini