«I due presidenti» – Nono capitolo
Spy story di Guido de Mozzi
IL PERIODO DEI DUE
PRESIDENTI
PERSONAGGI |
MARCO BARBINI |
A mia Madre, che mi ha
insegnato ad amare, |
Capitolo 9.
"La spia che mi amava..." - Dissi in aereo, esprimendo con il
titolo di un famoso film di 007 il senso del più profondo
sconforto. - "E perché mi avevi mentito dicendo di essere della
CIA?"
"Io non ti avevo detto affatto di essere della CIA. Lo avevi detto
tu."
"Ma tu non lo avevi smentito."
"Per forza. Sono una professionista."
"E quelli che ci pedinavano a Fort Lauderdale? Mi avevi detto che
erano della CIA?
"Quelli erano della CIA." - Confermò. - "Ogni tanto le nostre piste
si incrociano. Anche senza volerlo. Sono stati pregati di non
interferire."
Mi accorsi di averne due palle così. Mezze bugie, mezze verità,
parti da giocare, casini segreti, documenti segreti, segreti di
stato, casini di stato, servizi segreti, morti e minacce.
Jill comprese il mio stato e si dispose in vena di confidenze.
"Lo sai cosa è la NSA?"
"No."
"Beh, questo posso dirtelo. E' una delle agenzie di intelligence
del Paese."
"In cosa si differenzia dalla CIA?"
"Siamo più riservati." - Sorrise. - "Tutti sanno cosa è la CIA,
mentre neanche tu sapevi che esistavamo. Noi sappiamo tenerli
davvero i segreti."
"Me ne sono accorto. Si tratta di una grande struttura?"
"Sì. Siamo sopratutto una struttura che lavora. Ci muoviamo a 360°,
per qualsiasi iniziativa che potrebbe essere affidata all'FBI o
alla CIA, ma con alcuni vantaggi.
"E allora cosa centra l'FBI in questa operazione se c'è di mezzo la
NSA? O forse Growe non è dell'FBI?"
"Lo è. L'operazione in corso è dell'FBI. Il Bureau interviene solo
per casi interni. Quindi se mai si occupa di controspionaggio, non
di spionaggio. Noi, invece, ci occupiamo di spionaggio e di
controspionaggio, generalmente sul territorio nazionale. La CIA lo
fa in tutto il mondo."
E giunse il momento della domanda da un milione di dollari.
"E che c'entra lo spionaggio con la nostra situazione?"
"Niente, almeno apparentemente." - Mi guardò negli occhi per
sottolineare la confidenza.
"Io, in buona sostanza, ho tre incarichi riguardo te. Devo infatti
proteggerti, e questo ti è anche stato detto." - Sorrise. - "Ma
devo anche capire che cosa sei veramente venuto a fare e, qualora
se ne presentasse il caso, impedirti di fare cazzate."
"L'avevo capito. E a chi devi riferire le mie reali intenzioni,
ammesso che ne abbia?"
"All'FBI. Sono loro che hanno chiesto il nostro intervento tramite
il Dipartimento di Stato."
"Ora puoi dirmi in che razza di pedate sono andato a mettere il
culo?"
"Siamo andati. Per tutti io sono davvero tua moglie, ricordatelo.
D'altronde, la scelta è avvenuta anche per distogliere gli
avversari da possibili azioni laterali."
"Azioni laterali?"
"Mi riferisco a tua moglie e tuo figlio."
Aprii la bocca con stupore.
"Calma." - Disse per prevenirmi. - "Finché pensano che io sia tua
moglie, non cercano quella vera."
Non sapevo cosa dire.
"Sta' calmo, ho detto. Anche la tua famiglia è sotto protezione in
questo momento. Non potevamo correre rischi."
"Dannazione!" - Dissi finalmente. - "E mia moglie è stata
avvertita? Qualcuno li sorveglia?"
"No, non lo sa. Sì, sono sorvegliati da noi e dai carabinieri del
SISMI."
"SISMI? Perché il Servizio segreto italiano militare?"
"Sono più affidabili. Almeno secondo i nostri esperti. E poi
c'entra anche l'aspetto militare..."
Rimasi un po' senza pensare.
"Che tipo di rischio potrebbe correre la mia famiglia?" - Chiesi
poi.
"Di divenire oggetto di eventuali ricatti nei tuoi confronti."
Provai un inconscio senso di colpa per essermi divertito mentre
loro erano in pericolo.
"Rilassati Marco. Per tutti tua moglie è qui con te." - Mi
accarezzò il collo. Mi fece piacere, ma mi fece rimettere i piedi
in terra.
"Tu sei venuta a letto con me perché non potevi farne a meno.
Vero?"
"Cheppalle! Ne abbiamo già parlato e te lo ripeto per l'ultima
volta. Non riceviamo mai consegne del genere. Anzi, come ti ho
detto, se sanno che me la faccio con uno che devo
proteggere..."
"O sorvegliare?
"O sorvegliare, non cambia nulla. In realtà ognuno di noi si regola
come crede. Finora non avevo mai socializzato con nessuno. E con te
non mi sono sentita costretta nella stessa misura in cui tu non ne
hai approfittato."
Una risposta ambigua.
"Chi è al corrente che tu non sei mia moglie?"
"In teoria solo l'FBI e la NSA. Ma poi le cose si sono complicate,
e ho dovuto addirittura farmi riconoscere un paio di volte.
Ricordi?"
Già, pensai. E sembravano tutti così a conoscenza dei miei
spostamenti, che secondo me di segreti non ce n'erano proprio
più.
"Ora però stammi a sentire." - Continuò. - "Prima so che cosa sei
venuto a fare in realtà, e prima riusciamo a tracciare un quadro
completo della situazione. Stasera arriveremo a Washington sul
tardi. Andremo direttamente a dormire. Domattina verremo raggiunti
da Growe e dal mio capo."
Stavamo compiendo l'avvicinamento all'aeroporto di Atlanta.
"Raccogli le tue idee. Se saremo soli mi racconterai tutto nella
tratta tra Atlanta e Washington, OK? Poi io ti dirò la mia parte
del mosaico."
"Improvvisamente sei autorizzata a parlarmene?"
"No. Non lo sono per niente, e non ne so molto. Sono solo convinta
che questa sia la cosa migliore da fare."
Non trovavo nulla di trascendentale in quello che avevo da dirle e
lei avrebbe anche potuto non crederci per niente. Nel qual caso, mi
avrebbe detto lo stesso la sua parte del mosaico?
"Ne parleremo nel prossimo volo." - Confermai cercando di tirare a
lungo.
Ma non andò così.
Ad Atlanta cambiammo aereo senza passare dall'aerostazione, con un
freddo già abbastanza pungente. Il velivolo era un executive di
medie dimensioni con tre motori a reazione, una dozzina di posti ed
un ufficio nella metà posteriore. L'ufficio era occupato da altri,
e con noi c'erano altri sei passeggeri, due dei quali in
divisa.
C'era anche un servizio di assistenza a bordo, sicché la mancanza
di riservatezza non ci concesse neanche di affrontare l'argomento.
Ne avremmo parlato a casa. Già. E quale sarebbe stata la nostra
casa?
Stavolta all'aeroporto Nazionale di Washington c'era ad attenderci
una limousine nera con i vetri oscurati. Si poteva vedere fuori
senza essere visti.
Appena a bordo prese il telefono dicendomi che era una linea
protetta, anche se ormai non doveva importare un gran che. Scambiò
alcune parole, poi chiuse la comunicazione, si rilassò e forse
dormì un po'.
Arrivammo a destinazione alle 12. Non avevo capito molto bene dove
eravamo, in quale parte di Washington.
"Ci hanno portato in un palazzo dell'FBI. Qui dentro staremo al
sicuro."
"Tutti quelli che vi abitano hanno problemi come noi?"
"No. Vi albergano anche agenti. In molte città l'FBI ha una
disponibilità logistica di questo genere. A volte serve anche a
persone come noi."
"Anche l'NSA e la CIA hanno posti del genere?"
Al solito, non rispose.
Entrammo in un garage sotterraneo. Scesi dall'auto, prendemmo
l'ascensore. Al primo piano Jill compose un numero in una tastiera
portatile che una guardia in divisa le aveva allungato. Ci diede
una chiave magnetica, spiegando il numero dell'appartamento e del
piano. Quando giunsero i bagagli (senza sacca da golf che avevo
lasciato a casa), prendemmo di nuovo l'ascensore. Prima di aver
toccato il pulsante del nostro piano, la voce metallica
dell'ascensore disse Going Up. Risposi I know.
Salimmo al decimo piano. Jill aprì la porta ed entrò. La seguii,
appoggiai la valigia in terra e andai in camera da letto. Ero
stanco morto e mi lasciai cadere sul letto. Sentii dei sassolini
sotto la schiena e mi girai scazzato per vedere che cosa c'era.
Feci fatica un po' a capire, ma non c'erano dubbi. Erano proiettili
per mitraglietta calibro nove lungo.
E così, dopo l'una di notte di una giornata di merda nonostante il
Golf, io, Jill, Growe e altri due personaggi di nome Galveston e
Pinter stavamo iniziando ad affrontare un nuovo problema.
"Mio carissimo Growe," - gli avevo detto quand'era arrivato, - "i
miei complimenti per la tenuta stagna della vostra
organizzazione."
Growe aveva grugnito dal profondo dello stomaco. Gli avevamo
rovinato la serata di una domenica, e qualsiasi rottura in più non
poteva incidere oltre sul suo umore.
Avevano parlato tra di loro. Io li avevo seguiti per un po', poi mi
ero lasciato andare senza impegnarmi troppo ad ascoltare i loro
bisbigli in inglese troppo americano.
Fu dopo l'una e mezza, ed io probabilmente stavo dormendo sulla
poltroncina del salotto, quando Growe decise di parlarmi.
"E' una minaccia."
Di fronte alla scontata conclusione che si trattava di una
sfrontata minaccia, restai avvilito.
"Una minaccia da parte di chi?"
"E il problema" - continuò - "non è tanto l'avvertimento di per sè,
come non lo è neanche il modo con cui si sono fatti vivi, passando
i filtri di una nostra palazzina..."
"Ah, meno male!" - Interruppi ironico. - "Perché allora c'è
qualcosa di peggio di quello che sembrava."
"Il problema reale è il motivo per cui l'hanno minacciata." - Lo
disse in tono serio e deciso. - "Dobbiamo parlare."
"Sta bene. Parliamo."
"Cosa è venuto a fare in USA?"
"E' una cosa lunga." - Dissi raccogliendo le idee.
"Abbiamo tempo." - Stavolta fu lui l'ironico; aveva guardato
l'orologio. Mi alzai dalla poltrona e ci mettemmo al tavolo del
soggiorno come se dovessimo fare una partita a carte. Jill venne
con una pignatta di caffè.
"Mio padre" - iniziai - "era uno studioso di storia locale della
nostra città, Trento. Era nato nel 1910 e come la maggior parte
degli italiani era diventato fascista convinto."
"Lo sappiamo." - Intervenne Growe.
"Non mi interrompa." - Mi aveva irritato. - "Se sa tutto, caro
primo della classe, può andare avanti lei. Io vado a letto."
Restò a guardarmi affaticato senza dirmi nulla.
"Scusatemi." - Dissi alzandomi con la tazza in mano. - "Nel 1936
aveva iniziato a scrivere la Storia del Fascismo nel Trentino
registrando i fatti più importanti accaduti dalla fine della Prima
Guerra Mondiale in poi. Come potete immaginare, in quei tempi tutti
avevano cercato di essere citati a pieno titolo nel suo libro, ma
mio padre aveva cercato di essere il più possibile obiettivo
impedendo agli opportunisti di attribuirsi meriti nel fascismo solo
per motivi di convenienza."
"Immagino" - mi interruppe Growe che pareva seguire il mio racconto
- "che oggi la storia del fascismo di suo padre potrebbe divenire
un best seller nella sua città".
"Infatti... Ostia! Ma questo caffè non sa di niente, Jill! con cosa
l'hai fatto?"
"Va' avanti." - Mi rispose la stronza. Cercai di capire se valeva
la pena mettere zucchero o latte, ma rinunciai.
"Già." - Ripresi il discorso. - "E' quello che avevo pensato
anch'io. Mio padre non mi aveva mai lasciato dare un'occhiata al
suo dattiloscritto, che aveva interrotto l'8 settembre del 1943,
quando il Fascismo era crollato. Era stato già bravo a non
distruggerlo alla fine della guerra, come d'altronde non era stato
capace di buttar via neanche i libri ufficiali del fascismo che
teneva nella sua biblioteca, semplicemente perché non avrebbe mai
distrutto un libro in vita sua."
Anche Jill mi stava ascoltando con interesse. Non riuscivo a capire
a cosa stessero pensando gli altri due agenti, di cui sapevo poco o
nulla.
"Se non capite," - dissi loro, - "vi prego di fermarmi. Jill, tu
che sai l'italiano..."
"Vai bene così."
"Bene. Mio padre, in vita, non mi avrebbe mai lasciato pubblicare
nulla. Ma quando morì, due anni fa, trovai tra le sue carte una
raccolta di qualche centinaio di pagine e una teca di fotografie.
Fotografie e cartoline di avvenimenti ufficiali e di momenti di
serena vita sociale della città. La gente in divisa e il
particolare abbigliamento dell'epoca facevano pensare ad un periodo
tutto sommato felice."
Tentai un altro sorso di caffè ma rinunziai scuotendo la testa.
"Lessi tutto con calma, e giunsi rapidamente alla conclusione che,
appunto, un libro così al giorno d'oggi sarebbe stato un
best-seller. Di sicuro avrebbe fortemente imbarazzato qualcuno e
avevo sorriso all'idea di mettere alla berlina quelli che al suo
tempo avevano cercato di esservi inseriti senza motivo, anche se a
cinquant'anni di distanza non avrebbe potuto far troppi danni. E'
caduto il Muro di Berlino, e con il Muro il secondo
dopoguerra."
"Se lo dice lei..."
"Lo dico io, Growe."
"Taci." - Gli disse Jill. - "Marco, va' avanti."
"La storia scritta da papà giungeva press'a poco all'8 settembre.
Non era per così dire completa, nel senso che avrei dovuto
eventualmente concludere io il libro. D'altronde sarebbero bastate
due pagine per spiegare che la storia del fascismo della città,
contrariamente al resto del Paese, finiva effettivamente lì.
"Stavo già pensando ai dettagli dell'edizione, quando mi venne alle
mani un manoscritto di mio padre, del quale non mi aveva mai
parlato. Era breve e probabilmente non era destinato alla
pubblicazione. Era una specie di diario che aveva voluto tenere dei
tragici mesi che avevano seguito il 25 luglio 1943 nel Trentino.
Era come se non fosse sicuro di giungere vivo alla fine della
guerra e desiderasse far sapere a me, o a chi dopo di lui potesse
mettere mano alla sua testimonianza, dei fatti terribili dei quali
era stato testimone.
"Scrisse dell'infame annessione del Trentino Alto-Adige e del
Bellunese al Reich Tedesco come sorta di risarcimento dell'onerosa
occupazione fatta dai tedeschi per salvare l'Italia dagli Alleati e
dai partigiani dopo il tradimento del re. Annotò che i tedeschi
avevano sostituito il Federale con il Gauleiter di Hinnsbruck, che
- nemesi storica - si chiamava Hofer..."
"Perché nemesi storica?" - Chiese Jill.
"Ah già, scusate. Nella nostra regione, per lo più convivono dalla
fine della Prima Guerra Mondiale cittadini di lingua italiana e
tedesca, con i rispettivi eroi storici Cesare Battisti e Andreas
Hofer. Il caso aveva voluto che il Gaulaiter di Hinnsbruck, il
quale sovrintendeva anche su Trento si chiamasse Hofer, Franz
Hofer..."
"Non divaghi. E' tardi."
"Tramite Hofer" - proseguii - "gli Austriaci assaporavano già la
rivincita sulla Prima Guerra Mondiale."
"Vada avanti."
"Mio padre descrisse il particolare rapporto delle truppe tedesche
con i Trentini, che prima o poi sarebbero dovuti diventare tedeschi
a tutti gli effetti, la nascita di corpi militari tedeschi formati
da gente trentina..."
"Ma se c'erano ancora i carabinieri che, più italiani di così..." -
Intervenne giustamente Growe.
"E' vero. I Tedeschi avrebbero cambiato tutto un passo alla volta.
Fin qui, come vede, lo sapevano tutti. Quello che pochi sanno è che
scomparvero quasi completamente i fascisti trentini."
"Ricordo" - intervenne Growe ridendo stancamente - "che correva la
battuta che l'Italia, alla fine della guerra, fosse un Paese di 100
milioni di abitanti. Nel 1945 aveva 50 milioni di fascisti, nel
1946 aveva 50 milioni di antifascisti. Ovvio che non ci fossero più
fascisti neanche da voi."
"Bella battuta, signor Growe. Sopratutto nuova."
"OK, OK. La ritiro." - Disse alzando le mani.
"Quello che dice lei si riferisce alla fine della guerra. Ma in
Trentino, i fascisti erano scomparsi nel 43. Punto e basta."
"Puoi spiegarti meglio?" - Chiese Jill.
"E' presto fatto. Hitler e Himmler volevano sperimentare gli
effetti di un'Italia nazista senza il Duce. Franz Hofer si era
precipitato a Berlino per cavalcare l'idea che il Tirolo si
riprendesse Bolzano e, già che c'era, il Trentino e il Bellunese.
Anzi, perché non fare un pensierino al Friuli?
"In realtà Hofer, cavalcando l'opinione pubblica austriaca, si era
adoperato fin dall'inizio per preparare con fredda determinazione
il dopo-Hitler nel Trentino Alto Adige e nel Bellunese.
Evidentemente aveva capito con lucidità che il Reich non avrebbe
vinto la guerra, mentre l'occasione di riprendersi i territori
perduti, e con l'aggiunta degli interessi, non si sarebbe
presentata mai più. Basti pensare che, pur essendo un nazista della
prima ora, Hofer aveva delegato il potere amministrativo ai locali
maggiorenti trentini storicamente antifascisti. E così i fascisti
trentini scomparvero virtualmente dalla regione per opera degli
alleati tedeschi."
"Questa non la sapevo proprio." - Commentò Growe.
"E chi la conosce oltre ai Trentini?" - Dissi, sapendo peraltro
quanto pochi siano anche i Trentini che conoscono la loro storia
recente.
"Sta di fatto," - continuai, - "che nella nostra regione, per oltre
un anno e mezzo ci fu un periodo in cui i fascisti si trovarono
isolati e braccati quando il nazismo era ancora fortemente radicato
nel territorio."
"Dio mio!" - Esclamò Growe che riuscì ad immaginare moltiplicati
per cento i problemi connessi al Periodo dei Due Presidenti. -
"Vada avanti."
"Accadde di tutto. I fascisti, unica volta in Italia in cui
entrarono nella clandestinità a Babbo vivo, si adoperarono per
sabotare gli alleati tedeschi. Da una parte troviamo il Duce che,
dal di là del nuovo confine, a Gargnano sul lago di Garda, fingeva
di ignorare l'esistenza dei fascisti trentini, e in realtà teneva
costanti rapporti segretissimi con loro fornendo per quanto
possibile supporto logistico e appoggio morale. Dall'altra gli
Alleati entrarono in contatto operativo con i Trentini ribelli,
senza distinguere fascisti da antifascisti."
"E' qui che entra in gioco il manoscritto di suo padre?"
"Esatto, Growe."
"Stiamo ascoltandola."
"Non mi pare proprio, caro Growe. I suoi colleghi stanno dormendo
alla grande."
"Ci sono io, che basto e avanzo."
"Se è per questo, c'è anche Jill..." - Jill non era dei suoi. -
"Bene. Mio padre era convinto che gli obiettivi dei bombardamenti
alleati nel Trentino fossero stati indicati da fascisti entrati
nella clandestinità."
"Affascinante." - Ammise Growe. - "Ma questo cosa c'entra con il
suo viaggio in USA?"
"Sono venuto a verificare questa tesi."
"Alla faccia! E lei pensa di trovare la verità storica in un una
manciata di videodischi e di programmi di archiviazione?"
"Esatto, Growe. Esatto." - Dissi prima che esprimesse le ragioni
del suo scetticismo.
"Ah, e come fa ad esserne così sicuro?"
"Grazie agli appunti di mio padre. Ma... vuole che vada avanti?" -
chiesi indicando di nuovo i due che tra un po' sarebbero entrati in
letargo come orsi. - "O andiamo avanti domani?"
"E' interessante come parla."
"OK. Dapprincipio non mi ero posto il problema di chi dirigesse i
bombardamenti. Poi, alcuni argomenti mi attirarono più degli altri;
come giornalista voglio dire. Mio padre pareva essere giunto ad
alcune conclusioni che lo avevano turbato e cercai di comprenderne
le ragioni. Io sono nato dopo la guerra e grazie a Dio non avevo
assistito a bombardamenti o altro. Ma un fatto aveva spinto mio
padre più in là della semplice descrizione degli eventi: il
bombardamento del 2 settembre 1943."
"Accadde nella sua città?"
"Sì, Growe. Una città della Valle del fiume Adige, appunto, Trento.
Mio padre stava tornando a casa in bicicletta per il pranzo, quando
sentì le sirene dell'allarme aereo. Non vi erano ancora abituati, e
i più proseguirono a piedi o in bici, in moto o in auto, verso
casa. Il più delle volte voi proseguivate per la Germania senza
colpire quelle piccole città di valle lungo la linea del
Brennero.
"Ma quella volta l'obiettivo era proprio la nostra città. Una zona
particolare, non ricca ma intensamente popolata. Alle 12.30 una
trentina di Liberator sganciarono in pochi minuti il loro carico in
quell'area come se si fosse trattato di una zona industriale di
interesse strategico.
"Saltò tutto in aria. Mio padre si trovò scaraventato con la bici
nel cortile di un palazzo storico di Trento che non è stato colpito
per miracolo. Sua sorella, mia zia, era già dall'altra parte della
città e stava attraversando il ponte sull'Adige. Senza essere
colpito, il ponte fu visto sobbalzare di un paio di metri, cedere e
cadere nel fiume. Dalle foto viste qui allo Smithsonian sembrerebbe
quasi che il ponte fosse stato centrato dalle bombe, ma in realtà
cadde da solo per le vibrazioni causate dalle esplosioni.
Mia zia scomparve nelle acque insieme ai poliziotti di guardia al
ponte e ad altra povera gente che cercava di mettersi in salvo
allontanandosi dalla zona del bombardamento.
"Morirono oltre 200 civili più 10 militari in un'area non più
grande di qualche isolato. Una grande quantità di persone si era
rifugiata in un ricovero ricavato sotto un condominio. Questo
crollò loro addosso e un torrente che scorre interrato da quelle
parti si infiltrò nei loro rifugi facendoli annegare tutti dopo 24
ore di inutili tentativi di porli in salvo. Pensi che perfino gli
odiati tedeschi cercarono di salvare i poveretti che chiedevano
disperatamente aiuto da sotto le macerie per non morire
annegati."
"La guerra è sempre una brutta cosa, Mr. Barbini." - Growe sentiva
bisogno di scusarsi. Io, senza volerlo, avevo raccontato i fatti
come se li avessi vissuti personalmente e mi ero un po' emozionato.
Jill mi stava ascoltando coprendosi la bocca con la tazza di caffè.
Uno degli altri due stava ronfando.
Mi versai un po' di caffè e cercai un po' di whisky. Non
trovandone, chiesi a Jill se poteva farsene portare. Lo chiese per
telefono.
"Lei cosa sta cercando, in mezzo a tutto questo?"
"La parte penosa del racconto sta nel fatto che qualcuno aveva
voluto e diretto il bombardamento. Qualcuno della città."
"Mi pare normale che i servizi segreti potessero contare sui
partigiani, su fonti sicure di informazioni. Tutte le guerre, alla
fine, si vincono o si perdono sulla quinta colonna."
"Non deve scusarsi, Growe. Le cose sono andate così, punto e basta.
Quel mezzogiorno, i Liberator erano venuti, ignari, a radere al
suolo un onesto e tranquillo rione di povera gente."
"Ma no. Probabilmente la stazione ferroviaria era vicina."
"Sì, ma gli obiettivi ferroviari importanti li conoscevate benone,
e non erano là."
"C'era la sede locale della Wermacht?"
"Non c'era la Wehrmacht in città, ma solo il comando della Gestapo.
I vari comandi militari stavano in ville di campagna. Il Comando di
Regione era addirittura a 1.200 metri sul livello del mare,
praticamente in villeggiatura, al sicuro dagli alleati e in
magnifica posizione climatica."
"La Gestapo, diceva?"
"La polizia politica nazista era altrove, vicino alla caserma dei
Carabinieri. No, mio padre sapeva che qualcuno aveva voluto
distruggere proprio quella zona per motivi assolutamente suoi."
"Via. Sarebbe una cosa penosa quanto improbabile."
"E' stata senza dubbio una cosa vergognosa, ma guardi che i
bombardamenti hanno fatto sempre solo vergogna."
"In tutti i casi mi pare una teoria un po' azzardata."
Non replicai perché bussarono alla porta. Si svegliarono anche i
due agenti. Uno si alzò e l'altro guardò l'orologio; quindi fecero
entrare un agente in divisa che portava una bottiglia di Bourbon
Wild Turkey. Non lo conoscevo, ma lo trovai piacevole. In ogni caso
mi aveva riscaldato lo stomaco e il cuore. Ne bevvero tutti.
Evidentemente erano fuori servizio.
"Bene. Mio padre si era comunque fatto un'idea precisa in
proposito. E io sono venuto a verificarla. Fine della storia."
Rimasero un po' sorpresi da come finii bruscamente il racconto. I
due agenti si mossero indifferenti come se dovessero prepararsi per
tornare a casa. Jill rimase con la schiena al muro in attesa di un
intervento di Growe. Questo ci pensò un po' e poi me lo chiese.
"Beh? Lo ha trovato?"
"Che cosa?"
"Il riscontro all'ipotesi di suo padre."
"No, naturalmente. Avrei dovuto trovarlo domani..." - Guardai
l'ora. - "Questo pomeriggio, ormai. L'Ammiraglio Larsen mi aveva
promesso di farmi accedere agli archivi militari relativi alle
operazioni aeree avvenute dopo il 1° settembre nel Nord-Est
d'Italia. Ma purtroppo lo hanno ucciso ieri... Scusate, l'altro
ieri, mentre andava all'aeroporto."
Tornò il silenzio. Secondo me, fin lì Growe poteva anche esserci
arrivato da solo. Ma ora aveva i particolari della cosa, e quindi
un quadro migliore della situazione.
"Tutto qua?"
"Ecco. Me l'aspettavo questa risposta. Abbiamo buttato via metà
della notte per una chiacchierata inutile."
"Siamo lontani dalla possibilità che lei abbia pestato gli
interessi di qualcuno di molto importante di qui. Lo capisce anche
lei questo, no?"
"Se vuole che ne capisca davvero, mi dica che cosa c'entrate voi
con tutto questo."
Growe si alzò.
"No. Che lei sia un vero o un falso obiettivo, non posso metterla
al corrente di cose che la renderebbero ancora più fragile."
"Fragile un cazzo!" - Stavo per andare in bestia e Jill si mosse
per impedirlo. Si mise tra me e Growe.
"Sentite." - Disse. - "Che ne dite se ne parliamo domani, data
l'ora?"
"Io non gli posso dirgli niente di più neanche domani." - Disse
Growe parlando a lei perché sentissi io.
Guardai Jill che mi fece l'occhiolino. Non sapendo cosa dire, mi
trovai ad essere pratico.
"E allora, domani chi potrebbe darmi il permesso di dare
un'occhiata ai documenti delle operazioni aeree che Larsen mi
avrebbe lasciato vedere?"
"Già." - Fece Growe, portato dalla mia richiesta ad altri pensieri.
- "Potrebbe essere una pista. Ha ragione. Domani cercherò di farle
avere il permesso."
"E da chi, se Larsen è morto?"
"Ci sono un centinaio di persone che potrebbero darle il
permesso."
"Lo so. Ma me lo daranno?"
"No, naturalmente, senza di noi. Potremmo chiederlo al Dipartimento
di Stato."
"Beh, almeno questo sarebbe un fatto positivo. La nottata non
sarebbe stata buttata via del tutto."
"Domani mattina non uscite di qui finché non vi avranno preparato i
percorsi di sicurezza."
"Siamo al sicuro, qui?" - Chiesi ancora ironico indicando i
proiettili. Growe non rispose. Aveva aria nello stomaco.
Rimasto solo con Jill, andai in bagno sbadigliando, togliendomi un
po' di vestiti e buttandoli per terra, come se Jill fosse mia
moglie da anni.
Quando uscii, Jill mi aspettava a letto con le luci soffuse.
"E' bello vederti così." - Le dissi amabilmente. - "Ma non vorrai
che a quest'ora, dopo una giornata così, io sia in grado di..."
"Se è per questo, tu sei in grado." - Rispose indicandomelo, e io
vi diedi un'occhiata. Per una serie di strane combinazioni della
natura, lui aveva dato segni di vita.
"Sei una donna dalle risorse imprevedibili." - Mi avvicinai al
letto e mi accorsi che era spogliata. - "Ma allora non stavi
scherzando."
Non disse nulla.
"Hai davvero voglia di me?"
"Più che altro ho voglia di sapere."
"Che cosa?"
"Quello che non hai detto."
"Vuoi che ti racconti tutto da capo?"
"No, solo che mi racconti l'ultima parte, quella che non hai
raccontato. Io in cambio ti posso raccontare la parte di nostra
pertinenza."
"Davvero me la racconteresti?"
"Tu che ne dici?"
Mi spogliai e mi infilai a letto. Stavo per spegnere la luce, ma
lei mi chiese di attendere un attimo per andare in bagno.
E così, quando tornò dovette trovarmi addormentato, perché di fatto
mi svegliò solo la mattina dopo con il suo famigerato caffè.
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