«I due presidenti» – Primo Capitolo
Spy story di Guido de Mozzi
Il racconto è pura opera della
fantasia, ed ogni riferimento a cose fatti o persone è da ritenersi
assolutamente casuale. |
IL PERIODO |
PERSONAGGI |
A mia Madre |
IL PERIODO DEI DUE PRESIDENTI
1. Washington, gennaio 1993.
Da oltre 50 minuti avevo lasciato New York, dove avevo fatto dogana
provenendo da Milano Malpensa, ed ora il nostro DC9 stava
effettuando le manovre per l'atterraggio all'aeroporto Nazionale di
Washington.
Guardavo dal finestrino di destra la città Distretto di Columbia.
La ferrovia sopraelevata, il Pentagono, il Potomac. Immaginando di
individuare il palazzo dove mi sarei recato l'indomani, vidi
l'Obelisco e quindi alzai la vista verso il Campidoglio,
soddisfatto di essermi orientato bene. Una rapida ricerca della
Casa Bianca prima che l'aereo, virando a babordo, togliesse la
panoramica di destra per darla a chi stava seduto a sinistra. Dopo
un po' toccavamo il suolo della Capitol City.
Dall'aeroporto Nazionale conviene sempre il taxi. L'autista, un
uomo di colore di mezza età, brontolava tra il rassegnato e
l'incazzato che Washington è una città di negri.
"Anche il sindaco è negro!" - Parlava da solo.
"Un drogato."
Amen.
"E non sopporta i bianchi."
"Ma allora il sindaco è razzista?" - Chiesi automaticamente.
"Per forza, è un negro..."
Passando da Piazza Lafayette, ormai vicino al mio Hotel, lo feci
rallentare ed accostare un po' al marciapiede esterno. Era un
freddo cane, e anche i barboni residenti vicino alla Casa Bianca
cercavano, come gli altri, di sopravvivere in qualche modo in una
città che aveva decretato per legge il divieto ad essere barboni.
Ne vidi uno nero con la sola giacca che spingeva a mani nude il
carrello da supermercato contenente tutti i suoi averi.
Feci accostare il taxi. Il barbone mi vide, spostò da destra a
sinistra lo stuzzicadenti che aveva in bocca e venne a ritirare il
suo dollaro. Quando mi vedono, capiscono sempre chi ha un dollaro
per loro. Abbassai il finestrino.
"Vedo che hai mangiato." - Mi riferivo allo stuzzicadenti.
"Ma non ho bevuto." - Rispose prendendo il dollaro e strizzandomi
l'occhio.
"Freddo?"
"Ma no. Solo quando mi fermo." - E se ne andò.
Quando arrivai allo Sheraton Carlton sulla Sedicesima, si vedeva
che il tassista era incazzato nero. Scesi per scaricare i
bagagli.
"Almeno lasci fare a loro, J. Fuck!"
Infatti, stavano accorrendo due negri in livrea grigia e bombetta
nera i quali, sbuffando alito caldo nel freddo del tardo
pomeriggio, vollero prendere la mia valigia, la sacca da golf e il
mio beauty per accompagnarmi alla reception. Lasciai al tassista
meno di un dollaro di mancia e seguii i porters.
Attendendo che mi venisse data una stanza, guardavo quel grande
salottone che è la reception del Carlton: quattro salotti
virtualmente divisi da stili diversi, con gruppi di signore
perfettamente inserite per abbigliamento, età e classe nei diversi
arredamenti, intente a prendere il tè in toilette da mezza sera
secondo lo stile dei propri segmenti di appartenenza. Così è la
Washington politica. Un mondo che ha molte analogie a quello della
mia città di provincia, Trento, anche se la leadership della
capitale è pronta a scommettere che la loro città è sì più grande
di questa, ma spudoratamente più provinciale. D'altronde, Trento
non è poi molto lontana dai 40.000 dipendenti pubblici della
capitale americana.
Un'arpa suonava gelida, indifferente e bellamente inascoltata
nell'angolo di sinistra mentre le signore mi seguivano con lo
sguardo, un po' perché ero un uomo solo, un po' perché dovevo
sembrare un provinciale. Una classica turbativa in quell'insieme
annoiato di mogli di politici, di burocrati, di faccendieri e
professionisti di varia natura, che per diverse ragioni si
trovavano a frequentare il salotto più virtuale e più sfacciato del
mondo. Non nego di scegliere il Carlton per via dell'atmosfera di
noia femminile che vi si respira. Ma anche qui sarebbe meglio stare
lontani da donne specializzate a riempire il vuoto di niente e che
confondono il ludico con il reale.
"Mr. Barbini, un messaggio per lei." - Il portiere mi diede un
biglietto mentre compilavo il modulo del chek-in.
"Di già?" - Mi chiesi sorpreso e ironico. In realtà, non mi dovevo
aspettare messaggi. L'appuntamento del giorno dopo allo Smithsonian
era stato preso genericamente con l'ufficio Relazioni Esterne del
museo.
Lessi, in inglese scritto a mano, che Mr. Davison mi avrebbe
incontrato volentieri alle 6 del pomeriggio al Cocktail Lounge
dell'Hotel. Mi girai intorno automaticamente, come se questo Mr.
Davison stesse osservandomi tra i presenti. Nessuno. Voglio dire,
nessun uomo in sala. Presi il mio beauty e seguii il boy verso
camera mia.
Volevo chiedere al ragazzo se conosceva un certo Davison, ma entrò
in ascensore con noi una signora sulla cinquantina e lasciai
perdere. Anzi, fu lei a parlare non appena l'ascensore finì di
riprodurre la frase metallica programmata "going up".
"Ottima l'idea del beauty come ventiquattrore." - Disse
indicandomelo. - "Nessuno penserebbe a scipparlo."
"Infatti." - Risposi, ma non era così. Uso un beauty proprio come
beauty. Mi servono un sacco di cose personali, che non mi nego mai,
neppure in viaggio.
"Fifth floor." - Informò la voce metallica dell'ascensore.
"Thank you very much." - Risposi in direzione dell'ascensore. La
signora pensò che fossi balordo, o venuto da molto lontano. Di
sicuro, venivo da molto lontano.
Entrai in camera. Diedi tre dollari al Lift che fingeva di
sistemarmi le cose in attesa della mancia. Accesi la televisione
per sentire un po' di vita americana. Mi lavai le mani e mi versai
una coca. Poi andai a vedere perché la televisione pareva essere
rimasta spenta e lessi la scritta d'uso al Carlton: "Mr. Barbini,
benvenuto. Sul canale 3 c'è un messaggio per lei."
Chiamai il terzo canale col telecomando e lessi il messaggio: "Mr.
Barbini, nessun messaggio per Lei". Ovvio. E' il sistema americano
per abituare i clienti a valersi della telematica per dare o
ricevere messaggi. Poi però mi venne in mente il messaggio scritto
sul biglietto. Lo cercai e lo rilessi. Mr. Davison mi stava
cercando, ma la TV non lo sapeva. Telefonai in reception per avere
conferma, ma mi risposero che tutti i messaggi per me erano a
monitor. Eventuali altre notizie poteva darmele il portiere. Lo
chiamai, ma quello che rispose non era lo stesso che mi aveva dato
il messaggio e non sapeva niente. Chiuso, anche se naturalmente il
portiere era lieto di potermi essere utile per altre cose, ecc.
ecc.
Sistemai tutto nell'armadio, diedi l'ultimo sorso alla coca ed
entrai in doccia.
Alle 6 e un quarto, vestito di scuro e con il montone sulle spalle,
entravo in ascensore, il quale mi assicurò con la sua voce
artificiale che si stava scendendo. - "Going down."
Giunto al piano terra, mentre si aprivano le porte gli chiesi
allora dove eravamo arrivati.
"First floor." - Mi rispose sicuro.
"Thank you." - Ed uscii. Un cliente più serio di me, che attendeva
l'ascensore vestito da sera, vi entrò cercando la persona che avevo
ringraziato.
Entrai poco dopo al Cocktail Lounge dell'Hotel. Mi venne in mente
l'appuntamento misterioso e chiesi al barman, che già stava
mettendo un sottobicchiere davanti a me, se conosceva un certo Mr.
Davison. Mi rispose di no, ma credo che non avesse neanche
ascoltato il nome. La Riservatezza in persona. Chiesi un Martini
dry con del gin Bombay.
"Molto freddo, ma senza ghiaccio" - In America bisogna sempre dirlo
quando non si vuole il ghiaccio.
"Raffinato, eh?". - Commentò il vicino.
Mi girai verso di lui cercando di evitare un discorso.
"Il gin, il Bombay Sapphire". - Precisò.
"A dir la verità," - dissi candidamente - "scelgo il gin Bombay
perché ha una bottiglia stupenda."
Mi girai per assicurarmi che il barman non mettesse l'oliva nel
Martini, quando il vicino riprese a parlare.
"C'è un ottimo ristorante qui fuori, verso la Casa Bianca. Lo
conosce?"
Risposi automaticamente di no ed iniziai a seccarmi, perché non era
da Sheraton Carlton essere disturbati. Avevo alle spalle un viaggio
intercontinentale ed ero stanco. Conoscevo la zona del mio albergo,
sapevo che la Casa Bianca stava a duecento metri, non sapevo dove
andare a cena, ma non avevo voglia di parlare a sconosciuti.
"Piacere." - Insisté. - "Sono Mr. Davison."
Ora lo conoscevo.
Non mi presentai. Evidentemente non ce n'era bisogno e neanche gli
allungai la mano. Avrei voluto lasciar seguire un silenzio
imbarazzante, ma ci pensò lui a condurre il dialogo e la
situazione.
Mi fece vedere un distintivo con una rapidità tale che pareva un
giocatore di poker professionista.
"Non ho visto nulla." - Dissi, tornando a guardare il barman che
strofinava la scorza di limone suo bordo del bicchiere.
"FBI." - Disse. - "Vuole rivederlo?"
"Per carità!" - Dissi, facendomi vedere indifferente. Ma non lo ero
per niente. - "Cioè, sì." - Mi corressi. Me lo mostrò di nuovo con
calma e lo guardai.
"Mi conosce?" - Poi, dato che la risposta era evidente, domandai: -
"E' sicuro di voler parlare proprio con me?" - Ma era evidente
anche questo. Lo guardai attentamente. Era un bell'uomo, sui
trentacinque o un po' di più, camicia bianca e cravatta come tutti
gli agenti FBI, tanto che il loro abbigliamento vale più del
distintivo. Sotto il suo sorriso di circostanza, era molto sicuro
di sè.
"Non ha cenato, non ha prenotato da nessuna parte, non attende
nessuno. La prego di cenare con noi."
"Motivo?" - Nell'immaginario collettivo, l'incontro con un FBI può
sembrare affascinante. Ma dato che nella realtà, semmai, sono loro
a cercare te, quando ti trovi a parlare con uno di loro il fascino
scompare. Anzi, ti viene spontaneo di toccarti le palle. Misi una
mano in tasca.
"Ne parleremo a tavola.". - Disse, dando un ultimo sorso a quello
che stava bevendo e non si fece problemi per il mio bicchiere
ancora pieno. Si alzò e si allontanò per mettersi il cappotto. Io
iniziai tranquillamente il mio Martini, ma poi chiesi al Barman di
firmare il conto. Lo aveva già battuto alla cassa. Lo lessi. Mi
girai verso l'ospite.
"Lei cos'ha preso?"
"Non si preoccupi, grazie. Ho pagato."
Infilai il montone ed attraversammo insieme il salone della
reception, provocando l'eloquente silenzio delle signore presenti,
perplesse della nostra uscita di scena. I neri di servizio ci
aprirono le porte senza i soliti sorrisi ruffiani. Gli stronzi,
come li avrebbe chiamati il tassista di prima, sapevano dove
stavamo andando, o quantomeno sapevano da chi ero accompagnato,
perché non accennarono neppure a chiamare un taxi.
Andammo a sinistra, verso la Casa Bianca appunto.
Mi prese sotto braccio come per combattere il freddo e acquistare
una certa familiarità, ma comprese che la cosa mi dava fastidio e
lasciò il braccio, poi cercò di riempire quei due passi imbarazzati
introducendo il discorso.
"Deve sapere che in questo momento il nostro Paese ha due
presidenti..."
"Cosa diavolo sta dicendo?"
"Il nuovo Presidente, Bill Clinton, è presidente dallo scorso 3
novembre 1992, giorno delle elezioni. Ma il Presidente uscente,
George Bush, rimane presidente a tutti gli effetti fino al prossimo
20 gennaio 1993, quando ci sarà l'insediamento ufficiale di
Clinton."
"OK. Ho capito. In questo momento avete due presidenti."
"Uno di questi abita là..."
Era così ovvio che feci fatica a capire che si riferiva alla Casa
Bianca che stava là dove indicava. La si intravvedeva attraverso
gli alberi di Parco Lafayette. Forse dovevo sentirmi preso in giro.
Era ridicolo. Volevo cancellare tutto e tornare in albergo.
"E l'altro sta qui..."
Non si riferiva alla Casa Bianca stavolta, ma impiegai meno a
capire. Indicava col pollice il mio albergo. Quello che avevamo
appena lasciato.
"Mi sta dicendo che Clinton è qui nel mio albergo?" - Confesso che
lì per lì la cosa mi avrebbe emozionato.
"Non in questo momento." - Sorrise. - "Se fosse qui se ne sarebbe
accorto da solo, mi creda."
Avevo l'impressione di essere stato allontanato di proposito dal
Carlton perché indesiderato. Un trucco per farmi uscire.
"Basta." - Dissi fermandomi. - "Ora deve dirmi che cosa vuole,
oppure torno in Hotel."
"Si calmi, siamo arrivati."
"Sono calmo."
"E' una frase fatta."
"Quale?"
"Si calmi."
"Sono calmo."
"Mi sta prendendo in giro?"
Avevo ancora voglia di scherzare.
"Vuol dire che devo cercarmi un avvocato?"
Non rispose.
"Siamo arrivati." - Mi indicò la porta di un locale almeno
all'apparenza elegante, in un seminterrato. Una piccola scritta
rossa luminosa sopra la porta indicava il nome, Chez Moriarty. La
preposizione francese davanti ad un nome inglese così cacofonico
per un latino, mi fece ridere. A Bolzano c'è un locale il cui nome
inizia con il Chez. E così, la maggior parte dei Bolzanini di
lingua tedesca dice di andare a cena dal Chez, pronunziato alla
tedesca.
"Conosce il Ceez?" - Mi chiese l'amico pronunziando in inglese il
nome per rispondere al mio sorriso. La sua pronuncia di Chez aveva
reso onore ai Bolzanini. Il sorriso si allargò in una breve risata.
Mi fece entrare guardandosi alle spalle, come se qualcuno potesse
aver notato la mia reazione.
«Prima di sedere, prego, aspetta qui», detta la scritta
all'ingresso dei locali americani. Ma l'amico mi spinse avanti
senza complimenti, e l'addetta alla reception ci vide ma fece finta
di nulla e si girò dall'altra. Così, mentre Davison mi accompagnava
ad un separé d'angolo, mi girai a guardare il fondoschiena della
receptionista indifferente.
Nell'angolo stava seduto un altro tipo intento a non leggere il
giornale. Quando ci vide alzò gli occhi, piegò il giornale e ci
fece cenno di sedere. Restai volutamente in piedi.
"Mr. Barbini," - iniziò, dimostrando che sapeva chi ero e facendo
vedere discretamente il suo distintivo in modo che il menù del
locale nascondesse il gesto. - "Sono l'Agente Speciale Growe."
Era un uomo sui quarantacinque anni, con i capelli castano chiari
tendenti al rossiccio. Non era bello come Davison perché aveva una
testa più grande del normale. Giacca blu, pantaloni grigi, camicia
bianca e cravatta rossa come il Segretario di Stato americano di
Bush. Dagli occhi anglosassoni si capiva che era un uomo abituato a
comandare, a dare ordini. La sua voce era sicura e appartenente a
qualcuno che non gradisce essere interrotto.
"Deve sapere che la stiamo sorvegliando da quando si è imbarcato a
Milano."
"Che cosa?" - Mi sedetti subito.
"Calma. Vedrà che in breve comprenderà tutto. OK?"
"OK." - Sapeva farsi obbedire. Mi alzai, mi tolsi il montone e lo
consegnai al cameriere. Tornai a sedermi.
"In due parole. Eravamo informati che una persona sarebbe venuta a
Washington dall'Italia per fare una certa cosa. Questa persona non
la conoscevamo. Sapevamo però che si trattava di un bianco, con la
barba, sui quarant'anni, alto all'incirca 6 piedi, che viaggiava in
business class, con Sansonite fissata con cinghia blu, una sacca da
golf..."
"Ehi! Io gioco a golf, ma la mia sacca è vuota e..." - Mi trovai a
sussurrare. Avevo anche provato stipidamente a trasformare in
centimetri i 6 piedi per vedere se avevano centrato la mia altezza,
senza riuscirci.
"E diretto allo Sheraton Carlton".
"Ma porca..." - La coincidenza iniziava a stupirmi, ma qualcosa mi
invitava a tenermi sulla prudenza.
"Quindi," - proseguì, - "lei capirà... Scusi, ma ha detto che porta
con sè una sacca da golf... vuota?"
"Sì, io ho già l'attrezzatura qui in America, ma..."
"E allora si porta in giro una sacca vuota?"
"Ma no, c'è sempre un amico che ti chiede di comperare un set. Qui
costano meno..." - Mi sentivo uno stupido.
"Beh, son fatti suoi. Insomma, un individuo proprio uguale a lei.
Salvo un particolare, che ci ha fatto capire che avevamo sbagliato
persona. Un particolare che ha colpito il nostro agente a
bordo..."
"A bordo? Dio mio, ma da quando mi stavate pedinando? Chi diavolo
era questo sconosciuto?"
"La prego, non interrompa..." - Nessuno doveva averlo mai seccato
così. Ma giunse il cameriere a prendere le ordinazioni e dovette
interrompersi suo malgrado.
"Suggerisco il catfish." - Disse il cameriere.
"Per me va bene. E una Perrier." - Rispose Growe senza
guardarlo.
"Prime beef e patatine fritte." - Dissi io. - "In America mi piace
la bistecca. E una Budweiser. Grazie."
"Bud Light?"
"No, regular."
"Bistecca king-size?"
"No, regular."
"Underdone?"
"No, medium."
Ci portarono le bevande prima che potessimo riprendere il discorso
da dove l'avevamo lasciato.
"Dunque?" - Chiesi dopo un sorso di birra.
"Dunque." - Rispose dopo un sorso di acqua minerale. - "Un
particolare schiarì le idee al nostro agente che capì che non era
lei la persona che stavamo aspettando."
"Vi siete accorti che sono un gay..." - Mi sentivo meglio.
"Capisco che lei sia stanco e irritato e che voglia buttare tutto
in vacca, ma in un modo o nell'altro mi starà a sentire! Quindi,
meno rompe le balle e prima potrà tornare in albergo. OK?"
Beh, per lo meno sapevo che in albergo ci sarei tornato. Mi scusai
e mi disposi ad ascoltare.
"Lei viaggia con un beauty come bagaglio a mano."
"Vero. E'..."
"Un uomo che vuole passare inosservato non viaggia con un
beauty."
"Questa è buona. E perché?"
"Perché i beauty li usano generalmente le donne."
"Ve l'ho detto, sono un gay."
"La pianti. Sta di fatto che grazie al beauty ci siamo accorti che
si trattava solo di una singolare coincidenza. Abbiamo diretto
l'attenzione altrove ed abbiamo individuato la persona che
ragionevolmente poteva essere quella giusta."
"Bene." - Forse la storia stava per finire, anche se mi aveva
indubbiamente incuriosito.
"Stesso volo. Ma viaggiava in Prima classe."
"Il bastardo!"
"I ragazzi stanno seguendo le sue mosse, ora."
"E io che c'entro, allora?" - E' comprensibile che non dicano
neanche una parola in più di quello che devono, ma ci provai lo
stesso. - "C'era bisogno di raccontarmi dello scambio di persona?
Non bastava spostare le attenzioni sull'altro ed evitare di
avvisarmi del vostro errore?"
"Questo è il punto. Anche loro l'hanno scambiata per l'altro."
"Loro?"
"Quelli che hanno ingaggiato questa persona."
"Ah. E chi sarebbero?"
"Non possiamo dirglielo." - Vide che mi stavo seccando, ma
arrivarono le portate e ne approfittò per stemperare la situazione.
- "Si calmi." - Disse sottovoce. Attendemmo che il cameriere ci
augurasse buon appetito, quindi riprese a parlare.
"Loro prenderanno contatto con lei domattina. Non sappiamo
esattamente quando e dove, ma abbiamo un'idea quasi precisa in
proposito."
Temevo di aver compreso il motivo del loro interesse nei miei
confronti.
"Incontreranno anche l'altro," - suggerii, - "perché sarà lui a
farsi vivo con loro, non le pare?"
"Non si farà vivo. Lo abbiamo fermato."
"E con quale scusa?"
"Non possiamo dirglielo."
"Mi ascolti." - Dissi seriamente. - "Sento che sta per chiedermi
qualcosa, e le posso assicurare che collaborerò con la stessa
fiducia che mi sta concedendo. Lei continui a non dirmi nulla e
vedrà..."
"Collaborerà. Lo so. Per il profilo che siamo riusciti a recuperare
di lei in poche ore dall'Italia, sono quasi certo che collaborerà
con la giustizia."
"Saprà allora che per collaborare devo conoscere bene i fatti,
altrimenti..."
"Domattina lei andrà dal barbiere, che si trova nell'interrato
dell'Hotel. E' un hair-stylist famoso perché taglia i capelli anche
a Bush." - Aspettò un mio commento, che non venne. Riprese a
parlare guardandomi la testa. - "Si farà fare solo uno shampo
perché mi pare siano a posto sia la barba che i capelli, ed
attenderà la loro mossa. Non deve temere nulla. A parte il
barbiere, tutti gli altri saranno dei nostri." - Doveva essere
talmente abituato a studiare i dettagli che aveva sentito il dovere
di dirmi anche che cosa fare dal barbiere.
"Meno... loro, naturalmente, no?"
"Esatto." - Diede una forchettata al catfish automaticamente, ma
non sembrava dovesse entusiasmarlo molto.
"E quando vuole una risposta?"
"Non attendo risposta." - Tolse dalla tasca interna della giacca
alcuni fogli piegati in quattro. Li aprì e finse di leggere qua e
là. - "Lei è un giornalista, esperto in comunicazione sociale e
aziendale. Parla 5 lingue, tedesco, francese, inglese, spagnolo e
portoghese..." - Alzò gli occhi per guardarmi. - "Anzi, qual'è la
lingua che parla meglio, perché non è che l'inglese lei lo..."
"L'italiano."
"Fucking! Ha la patente C, brevetto da pilota di secondo grado,
abilitazione al comando di rimorchiatore a spinta..."
Leggeva automaticamente saltando di palo in frasca, aspettando che
lo fermassi. - "Sa cavalcare, anche se ora non le piace più..." -
Alzò un attimo lo sguardo compiaciuto di farmi un complimento. -
"Le piace correre in macchina e si deve ammettere che evidentemente
è abile, dato che non ha mai preso multe per eccesso di velocità...
Neanche in America.
"Ama essere il protagonista..." - Sollevò di nuovo gli occhi come
se questo dettaglio fosse negativo, poi proseguì. - "Ama sua
moglie... Voglio dire che sappiamo che non è un gay. Da militare è
stato decorato. Alla fine le hanno offerto di entrare nei Servizi,
ma non ha accettato. Tuttavia, 15 anni dopo ha accettato di
lavorare per il Ministero degli Esteri del Governo Italiano attorno
ad un delicato progetto di formazione a distanza per gli Incaricati
d'Affari delle Ambasciate italiane della CEE, nientemeno! Ma ora
viene il bello. Ha elaborato per i servizi del Ministero degli
Interni Italiano un'ipotesi di «implosione dell'immagine», come
l'ha definita lei, delle finanziarie in odore di Mafia. In entrambi
i casi, correttamente, non ha mai fatto parola con nessuno, anche
se siamo certi che i suoi collaboratori ne sappiano di più di
quello che dovrebbero. Da allora ha il porto d'armi ma non porta
mai un'arma con sè. E', o almeno lo è stato, un ottimo tiratore. E'
un appassionato di storia, Europea, Americana e Russa. Ama la
cultura perché possiede almeno 20 mila libri..."
"Gran parte me li ha lasciati mio padre, ma che relazione ci
sarebbe tra la cultura e la quantità di libri posseduti?"
Fece un gesto come per dimostrare quanto poco importasse la
cultura. "Non nasconde le sue simpatie per Clinton..." -
Dannazione, avevo scritto qualcosa del genere da qualche parte,
forse in una recente relazione sullo Stato di Haiti. Ma cosa
c'entrava?
"Cos'altro devo aspettarmi da uno come lei?" - Forse aveva concluso
la premessa.
Clinton... Pensai ancora. L'agente aveva commesso un errore? Finii
di masticare, passai le labbra con il tovagliolo, bevvi un sorso di
birra e lo guardai. Si accorse che mi ero preso il tempo di
pensare.
"Riguardo il curriculum che lei ha tracciato di me, devo farle tre
appunti." - Risposi lentamente.
"E sarebbero?" - Ma non credo che lo interessassero davvero.
"Primo, ha dimenticato che sono un aristocratico." - Già che gli
americani dimostrano una certa invidia per i titoli
nobiliari...
"Lo so." - Mi interruppe. - "Solo che mi risultava anche che lei
non gradisse essere chiamato con il titolo che ha..." - Si guardò
le unghie con noncuranza.
"Toccato." - Dissi arrossendo, cercando maldestramente di passare
subito ai punti successivi. - "Però non ha accennato ad un solo
lato negativo della mia vita o del mio carattere. La sua versione
suona molto di adulazione."
"Beh, potevo dire ad esempio che è un pubblicitario? O che il
servizio militare l'aveva fatto malvolentieri? Ma era il '68 e non
si può certo negare che... Oppure quando ho detto che ama sua
moglie, forse dovevo precisare anche che lei è molto sensibile al
fascino femminile?"
"Ah, questa poi... E allora perché non l'ha fatto?"
"Perché nel vostro paese chiudete più di un occhio su questo."
"Tutti qua i miei difetti?"
"Non è mai stato un seguace fedelissimo, non ha mai cercato una
causa da servire, mai accettato qualcosa o qualcuno per cui morire
o per cui uccidere. Ma, per scendere in dettagli più concreti, la
laurea l'ha ottenuta senza summa cum laude, non ha mai finito i
master che aveva intrapreso, neanche quello di politica e struttura
governativa americana..., il Paese che dice di amare di più. Ah,
ecco qua: conoscendo il tedesco, ha frequentato un master sulle
minoranze linguistiche austriache, che naturalmente non ha portato
a termine. A proposito, perché ha imparato il tedesco che non serve
a niente, e non conosce piuttosto il russo?"
"Serve, serve il tedesco, Mr. Growe. Vui kalielaska pavinniei
peragliaziet vasciu informaziu!"
"Cosa ha detto?"
"Ho detto che «dovete aggiornare le vostre informazioni, prego». In
belorusso per la precisione."
"Parla il russo?"
"Sì, ma questo era belorusso. Ho seguito, ma non terminato, un
master sulla letteratura belorussa. Il lessico belorusso è ricco di
prestiti del polacco che, a loro volta, comprendono termini latini
e germanici... In russo avrei dovuto dire "Vi pasialusta..."
"Fuck-off!" - Tagliò corto. - "E il terzo appunto?"
"Riguarda la mia simpatia per Clinton... Anche questo sarebbe un
difetto?"
"Non mi permetterei mai. Anzi, ritiro il riferimento a Clinton. Ma
torniamo alla mia richiesta."
"Accetto solo se mi dice qual'è il ruolo di Clinton nella
faccenda."
"Starà scherzando, spero! Non vorrà insinuare che il nostro
Presidente..."
"Uno dei vostri Due Presidenti." - Precisai.
"Non vorrà pensare che Clinton c'entri in qualche modo!"
"Guardi che ha accennato lei a Clinton. Mi scusi, forse non mi sono
spiegato bene. Sono stanco e forse il mio inglese va per i fatti
suoi anche se è la lingua che parlo meglio, come lei sa." -
Accennai un sorriso. Poi tornai serio. - "Voglio dire che
certamente l'uomo che cercate era diretto al mio albergo perché di
solito ospita Clinton. E', così, vero?"
"Non posso dirglielo. Se lei conoscesse i fatti saremmo costretti a
tenerla lontana dall'Hotel."
"Dannazione! Odio i segreti."
"Lo sappiamo. Ma la sua collaborazione è un aspetto chiave di una
faccenda piccola piccola. Dovrà fare esattamente quel poco poco che
le diciamo di fare, e tutto finisce lì. E, dato che nelle sue note
caratteristiche si legge che lei riesce meglio quando deve
improvvisare, o quando ha pochi attimi a disposizione per decidere,
mi creda, è meglio che sappia poco."
"Domattina ho un appuntamento con qualcuno dell'ufficio Relazioni
Esterne dello Air & Space Smithsonian Istitution." - Sorrisi. -
"Dovreste far avere loro il mio curriculum così come lo avete
descritto a me. A proposito, non posso mancare
all'appuntamento."
"Sappiamo dell'incontro. Domani sarà a pranzo con il Vice Direttore
del Museo."
"No. So che non ci sono né il Direttore né il Vice Direttore. Per
questo mi incontro con qualcuno delle Relazioni Esterne."
"Mi creda. Le abbiamo combinato un appuntamento con il Vice
Direttore. A pranzo al ristorante L'Enfant, vicino allo
Smithsonian".
"Ah! Questo sarebbe un bel colpo. E dov'è questo locale?"
"La porteremo noi. Se accetta, maturalmente."
Perbacco! Bastava dire questo, invece che fare tanti discorsi.
Iniziai a pensare che era davvero al corrente dei miei difetti
nascosti.
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