Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)
Undicesima Puntata
Purtroppo i processi, con l'arrivo
dello stato Italiano, tendevano ad allungarsi sempre di più ed io
dovetti frequentare Venezia per lungo tempo. Ma la povera donna
stava peggio di me. Era detenuta in carcere ai Piombi dove, per una
crudele usanza reintrodotta dallo stato italiano, veniva tenuta
notte e giorno incatenata al muro per una
caviglia. Non avevo perso l'occasione per farne un caso nazionale e
avevo inoltrato un'istanza al Ministro della Giustizia, minacciando
di rivolgermi direttamente al Re se fosse stato necessario, per
chiedere l'abolizione dell'uso medievale della catena in cella.
Seguivo l'evolversi della situazione su Il Messaggero
quando venni attirato da un lungo servizio pubblicato sullo
scandalo della Banca Romana. In primo piano c'era la fotografia del
personaggio ritenuto uno dei principali responsabili
dell'affaire, il Senatore Ferruccio Parrini marchese di
Moncalieri, ritratto due anni prima con la moglie a una cerimonia
ufficiale. Aveva una fronte alta con i capelli grigio neri
svolazzanti all'indietro, uno sguardo aperto reso fiero dagli
importanti lunghi baffi e un piccolo pizzetto sopra il mento.
Portava un austero vestito nero a doppio petto, la camicia bianca a
colletto alto, chiuso da una cravatta nera a nodo simmetrico con
spilla. Al suo fianco c'era la moglie Elena Valda Parrini marchesa
di Moncalieri. Era molto più giovane del senatore, uno sguardo
sereno, i capelli raccolti dietro con un ricciolino che le
rallegrava la fronte. Il vestito blu, arricchito da ricami, aveva
un colletto rialzato con una catenella e una croce d'oro con
zaffiri cabochon. Subito non m'accorsi, ma d'un tratto venni
assalito dal batticuore.
Sua moglie era lei. La mia dolce, cara e amatissima Ortensia.
Se mi avessero visto i colleghi in quel momento, credo che
avrebbero chiamato il medico di servizio e pensato a chi affidare
la nuova difesa d'ufficio della Beppina Magiotto. Trattenni il
fiato per almeno un minuto ma poi, anziché scoppiare, mi calmai
lentamente fino a riprendere il controllo.
Lessi a fondo l'articolo che lo riguardava ed ebbi la conferma che
aveva un figlio maschio di otto anni. I conti tornavano. Si
chiamava casualmente Marco ed era ovviamente all'oscuro di tutto
perché, fortunatamente, al momento era in un college di
Londra.
Immediatamente mandai telegrammi a destra e a sinistra per avere
qualsiasi notizia in merito al Senatore. Ma il
risultato fu solo che una settimana dopo si presentò da me un
ispettore del Ministero della Giustizia. Non compresi bene la
carica che ricopriva e io non insistei per saperne di più. Mi
chiese senza preamboli la ragione del mio interesse per il
Senatore.
«Sono un sostenitore di Giovanni Giolitti.» - mentii. Era la cosa
che mi era venuta in mente lì per lì, ma non era poi lontana dalla
verità.
«Lo immaginavo. - mi rispose, mentendo anche lui. - Io sono stato
mandato qui da sua eccellenza il Ministro di Grazia e Giustizia,
signor conte, per chiedervi di disinteressarvi del senatore
Ferruccio Parrini marchese di Moncalieri.»
«È una richiesta ufficiale?» - chiesi alzandomi in piedi.
«No, signor conte. Sono inviato dal Ministro, ma la richiesta viene
dal marchese in persona.»
Ci alzammo in piedi entrambi, ma il sorriso che aveva era del tutto
disarmante, come il messaggio che stava per pronunciare.
«Il Senatore vi ringrazia, ma vi chiede cortesemente di non
interessarsi più di lui. - Ora assunse un tono più affabile. - Per
quanto possa sembrarvi singolare, conte Alvisi, voi siete l'unico
al di fuori della cerchia familiare che non ha preso le distanze
dal Senatore, eppure sua eccellenza mi chiede di consegnarvi questo
ulteriore messaggio verbale: Va tutto bene, conte Alvisi. La
mia famiglia non ha problemi né finanziari né di status. La
giustizia renderà onore alla mia persona.»
«Ed è vero?» - domandai al mio interlocutore, come se non avessi
recepito il messaggio.
«La famiglia non ha davvero problemi né finanziari né di
status.»
«Non mi pare proprio così plausibile, alla lettura dei fatti.»
«Ma questo è quanto sono stato autorizzato a rispondervi. La vostra
domanda era stata prevista, signor Conte.»
Ero rimasto senza argomenti e lui riprese la parola.
«Tuttavia ho anche un messaggio da parte di sua eccellenza il
Ministro della Giustizia.»
«Sentiamo.»
«Ha firmato un decreto in ordine al quale viene abolito l'uso delle
catene fisse ai carcerati in tutto il regno d'Italia.»
Era un successo personale di enorme portata, ma rinviai le emozioni
ad un secondo momento.
«Posso rassicurare in merito il Senatore?» - insisté il funzionario
di fronte alla mia indifferenza. Era evidente il do ut
des. Questa è la politica.
«Mi viene proposto un sinallagma…» - osservai in
giurichese.
Lui chinò percettibilmente la testa in segno di conferma.
Andai alla finestra a guardare l'unico piccolo tratto di Canal
Grande che si riesce a vedere dal mio ufficio. Pensai velocemente
al mio passato, poi mi girai verso di lui. Ma non c'era più.
Quello stesso giorno andai personalmente ad assistere
all'operazione con cui il fabbro, armato di martello e punteruolo,
toglieva la catena alla povera Beppina Magiotto che difendevo. La
poverina mi abbracciò piangendo,
mentre fuori sulla Riva degli Schiavoni mi aspettava una piccola
folla di gente comune. Mi avvolsero di applausi, ma che non
bastarono a rendermi felice.
Per l'onor del vero, va precisato che per altri 15 anni l'uso delle
catene ai carcerati sarebbe restato in vigore per gli uomini,
nonostante il decreto fosse stato trasformato in legge dalla Camera
dei Deputati del Regno.
Non mi interessai più ufficialmente del marchese, ma lessi sempre i
giornali tutti i giorni con comprensibile curiosità.
A novembre ero riuscito portare in aula il testo originale della
denuncia per violenza carnale che Beppina Magiotto aveva fatto
avverso il marito, dal cui verbale risultava che per ammissione
stessa del marito risultava del tutto escluso che questi le avesse
mai messo in bocca il pene.
A totale sorpresa dei miei colleghi e dell'opinione pubblica
veneziana, riuscii a far miracolosamente assolvere così la mia
cliente dall'accusa di omicidio volontario, facendole accettare in
cambio la condanna per eccesso di legittima difesa. Ciò che a suo
tempo sembrava aver vanificato le varie denuncie mosse dalle mie
assistite, stavolta era miracolosamente servito per farmi assolvere
la vittima più importante.
E così, in una lurida cella posta nelle segrete delle carceri ai
Piombi, la povera imputata veniva denudata e legata collo e polsi
ad una specie di giogo per buoi pendente dall'alto Le furono
somministrate trenta frustate al cospetto mio e del giudice che
aveva firmato l'accordo. Una pena prevista solo per reati militari,
ma non avevo trovato di meglio per chiudere tutto in fretta, e la
stessa condannata accettò quella specie di patteggiamento per
eccesso di legittima difesa. Mentre la povera donna subiva
quest'ultima violenza ingenerata dal defunto marito, giurai di
adoperarmi per abolire anche questa porcheria.
Ma ora ero libero di agire.
Con l'aiuto di alcuni funzionari che mi erano divenuti amici ai
tempi della mia breve attività diplomatica, ero riuscito a
scoprire che in realtà avevano posto sotto sequestro tutti i beni
del marchese di Moncalieri. Difficilmente suo figlio, l'anno
successivo, sarebbe potuto tornare al collegio di Londra. Presi una
decisione.
Andai a
Padova dai miei suoceri Baroni Carraro e dissi loro che il marchese
di Moncalieri era in difficoltà. Il marchese, aggiunsi, era il
Senatore che si era adoperato per far avere loro il titolo di
baroni. Era giunto il momento di sdebitarsi.
«Quanto?» - aveva chiesto pragmaticamente Alvio.
«Niente soldi. Dovresti solo sostituire le garanzie reali
provenienti dal sequestro dei beni di famiglia dei Moncalieri con
altre di natura finanziaria.»
«Con una fideiussione, insomma.»
«Esatto.»
«Rischi?»
«Ce ne sono sempre quando si appone una firma, ma ho validi motivi
di ritenere che verrà scagionato e riabilitato.»
«Quanto?» - ripeté.
«I beni ammontano a 10 milioni di Lire. - dissi cercando di non
tradire emozioni. La cifra era enorme, se si pensa che lo scandalo
della Banca Romana non aveva superato il volume di una sessantina
di milioni. - È troppo?»
«Prepara le carte.»
«Alvio, io...»
«Sono certo di non perdere una Lira e comunque non preoccuparti. Lo
stato è il mio cliente migliore.»
Il marchese venne scarcerato poco dopo per motivi di età e di
salute. Tuttavia, solo nel 1892, quando Crispi venne sostituito per
breve tempo da Di Rudinì, il marchese di Moncalieri venne
riabilitato, anche se non fu più reintegrato in Senato. Quando
Crispi ritornò al governo nel 1893, la famiglia Parrini venne
nuovamente congelata al di fuori delle istituzioni. Solo nel 1896,
quando Crispi venne spazzato via in seguito alla disfatta militare
di Adua in Ertitrea, le cose cambiarono. L'intero Regno d'Italia
cambiò dopo Adua, che fu come una sorta di passaggio alla maturità.
Ma ormai il Senatore era morto da due anni. La sua famiglia, che
orgogliosamente aveva tenuto testa agli attacchi della monarchia
umbertina, venne riabilitata da Antonio Di Rudinì, il Ministro che
aveva sostituito Crispi, pensate, per i meriti che aveva avuto
proprio nella vicenda dello scandalo della Banca Romana.
Anche questa era politica, a dimostrazione che non era poi tanto
peregrina la tradizione della mia famiglia che voleva il totale
distacco dalla politica...
I Carraro riebbero la loro fideiussione senza danni dopo la morte
del re Umberto Primo e vennero insigniti del titolo di Conti,
stavolta per mio interessamento personale.
Dimenticai nuovamente Elena… Ortensia, voglio dire, la mia
Ortensia.
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(Continua)
Dall'alto: Il Ponte dei Sospiri; il ritratto di Giovanni
Giolitti; la Calza, di Toulouse Lautrec, il ritratto di
Antonio Starabba, marchese Di Rudinì.