Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)

Decima Puntata

Erano passati anni da quell'avventura fantastica con Ortensia, e quindi anche dal mio matrimonio. Io avevo voluto attendere prima di avere figli da Margherita, perché da quel momento, come le avevo detto che si usa nelle buone famiglie venete, avremmo dormito in camere separate.
Dopo la storia con Ortensia avevo avuto molti incarichi che mi avevano portato in giro per l'Europa, proprio perché conoscevo molte lingue europee. O forse, come amavo pensare, perché a Roma qualcuno mi amava, chissà... Dapprincipio mia moglie aveva voluto viaggiare sempre con me, poi aveva iniziato a stancarsi e preferì lasciarmi andare da solo.
La mia vita era cambiata completamente e il sesso aveva assunto un aspetto secondario. Grazie a Dio le mie amanti si erano dileguate con il matrimonio, mentre le mie contadinelle ricevevano ugualmente felici i loro corredi e le loro doti quando si sposavano.
Ovviamente avevo letto Le Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo. Quando scoprii che l'editore in un primo momento lo aveva intitolato Le confessioni di un Ottuagenario per paura che ne venisse attribuito un significato politico, mi emozionai al ricordo di Ortensia sempre critica con gli editori. Ma avevo letto anche I Miserabili di Victor Hugo, solo perché sentivo che Ortensia li avrebbe letti di sicuro per via della problematica sociale che l'autore aveva affrontato, sia pur in modo decadente anziché realista, come avrebbe detto lei.
E se il salone delle feste della villa ospitava da tre secoli il Tintoretto di famiglia, nel salotto verde aveva trovato posto un quadro di Giovanni Boldini, maestro dei Macchiaioli, un movimento artistico - avevo detto a Margherita - tra i più importanti della seconda metà del secolo. Il soggetto, avevo specificato a Margherita anche questo, era un nudo di donna perché rallegrava la vista.

Nella foto sopra, il primo capitolo delle Confessioni, manoscritto dall'autore.
Nell'immagine che segue, Donna con coperta, di Giovanni Boldini.



Ma anche nel Paese erano successe un sacco di cose in quegli anni.
Nel 1872 era morto Mazzini. Nel 1878 era morto Vittorio Emanuele II e in quello stesso anno era morto anche Pio IX. Mi parve giusto… Ma in quell'anno era accaduto anche un fatto passato inosservato ma secondo me deleterio, il Congresso di Berlino che affidava all'Impero Austro Ungarico la Serbia. Non che la cosa mi riguardasse da vicino, ma le risoluzioni unilaterali sono sempre foriere di guai, viatico di rivendicazioni, nutrici di odio.
L'anno dopo venne inventata la lampadina, destinata a cambiare la vita notturna dei cittadini. Il marito di mia sorella investì subito nel settore dell'energia elettrica e, a vedere che cosa hanno fatto a Parigi con la luce elettrica, direi che ci ha visto bene.
Fu anche abolita l'infame tassa sul macinato che pesava sostanzialmente su chi moriva di fame. Nel 1882 si allargò l'elettorato ma, si badi bene, le donne ne rimasero fuori. L'idea che il Conte Enrico potesse votare, mentre Ortensia no, mi irritò intimamente.
Sempre nel 1882 morì Garibaldi. Gli Italiani non lo sapevano, ma il generale era in esilio all'isola di Caprera dal 1870, quando era sceso in armi a favore della Francia schiacciata dalla Prussia (per dovere di storico, Garibaldi era stato ancora una volta l'unico a vincere una battaglia stando dalla parte dei perdenti). Lo Stato Italiano non aveva gradito la sua iniziativa proprio perché aveva approfittato della debolezza francese per entrare a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Di qui le ragioni dell'esilio dell'Eroe dei Due Mondi, dove appunto morì.

Nel 1887 a Parigi si tenne il primo (e forse anche ultimo) Salone dell'Automobile e l'anno dopo, cosa ben più interessante, vi inaugurarono il Moulin Rouge. Ovviamente ci ero andato anch'io: formidable!

Qui a sinistra, la locandina fatta da Toulouse Lautrec per il Moulin Rouge.

L'anno dopo, il 1888, con una visione decisamente avveniristica dei nostri legislatori, venne persino abolita la pena di morte in tempo di pace. Alla faccia del resto della vecchia Europa, il giovane Regno d'Italia stava crescendo…
Pensate invece che nel 1895 i fratelli Lumière presentarono la prima proiezione cinematografica. Io non l'ho vista mai perché, francamente, non ho capito in cosa possa differenziarsi dalla fotografia. Quando nel '99 venni a sapere che Guglielmo Marconi aveva inventato il telegrafo senza fili, subito pensai stupidamente al risparmio della posa dei cavi… Beata ingenuità. E, dulcis in fundo, venni a sapere che in America qualcuno aveva addirittura volato con un mezzo più pesante dell'aria, ma queste sono notizie che vanno verificate…

Nel 1898 era successo un fatto inaudito a Milano. Capo del governo e ministro degli interni era Di Rudinì, il quale aveva incaricato il generale Bava Beccaris di tutelare l'ordine nel capoluogo lombardo dal momento che la crisi industriale (sopraggiunta come aveva detto Ortensia) aveva provocato disoccupazione e quindi fame. Scambiata per una dimostrazione di facinorosi la folla che attendeva un piatto di minestra davanti a un convento, il generale fece aprire il fuoco dalla sua artiglieria (pensate: il cannone in città, imbecille!), lasciando 90 morti sul selciato. Ciò che fece scalpore fu l'errore. Come dire che se avesse sparato cannonate sui dimostranti sarebbe stato invece legittimo…
E, in più, il re Umberto Primo (succeduto a Vittorio Emanuele) decorò il coraggioso generale e lo nominò senatore a vita… In Veneto eravamo tutti scandalizzati, ma a Milano passarono a vie di fatto. Tornò apposta dall'America un emigrato, certo Gaetano Bresci, il quale sparò cinque colpi al cuore del re mentre passava in carrozza.
Ricordo il reportage del Corriere della Sera.
«Sire, siete ferito?» - gli aveva chiesto il generale di compagnia.
«Non è nulla.» - rispose il re. E spirò.
Una canzone popolare, rigorosamente bandita dai salotti degli aristocratici ma cantata liberamente anche dai miei contadini, dipingeva il generale come il feroce e monarchico Bava. Qui lo dico e qui lo nego, ma confesso che l'avrei cantata anch'io...

Nell'immagine a sinistra, la tavola di Achille Beltrame che sulla Domenica del Corriere di allora visualizzò l'attentato a Umberto Primo. Nell'immagine precedente, la fotografia del feroce e monarchico Bava.

Arrivò il 1900 e con l'800 se ne andò anche Giuseppe Verdi. Un vuoto incolmabile per il mondo intero. Anche se la notizia può apparire minore per chi non è veneziano, nel 1902 crollò il campanile di San Marco. Neanche un ferito, grazie a Dio, ma la Serenissima stava proprio crollando a pezzi...

Ma ormai eravamo giunti al 1903, era iniziata l'Età Giolittiana ed erano tutti sicuri che la povertà sarebbe scomparsa del tutto e che di guerre non se ne sarebbe più sentito parlare. I ben informati asserivano che l'unica incognita proveniva dagli scienziati: che cosa avrebbero fatto ora che era stato scoperto e inventato tutto?
Un periodo epico per l'Europa che è entrata in quella fase che i romantici chiamano Belle Epoque per via della gaia spensieratezza con cui finalmente convivono in pace nobili e borghesi. E, a proposito di pace, che noi aristocratici gradivamo particolarmente, per i miei ricchissimi suoceri Baroni Carraro si stava annunciando lo spettro di un '900 senza guerre. Stavolta, che avevano riconvertito la loro produzione industriale (prima fabbricavano locomotive e ferrovie) al settore navale e bellico, avevano evidentemente imboccato la strada sbagliata.
Con questi pensieri tipici dell'aristocratico obsoleto, avevo seguito gli eventi europei recandomi per lunghi periodi a Berlino, a Vienna, a Trieste, a Londra, a Parigi e a Roma. Certamente mi ero dimenticato di Ortensia e di tutta la fase della mia vita che l'aveva preceduta, anche se devo confessare che quando mi recavo a Vienna me la spassavo con le ballerine dell'Opera, quando mi trovavo a Berlino gradivo le attenzioni delle ballerine di cabaret e quando lavoravo a Parigi amavo passare le notti con un certo numero di ballerine del varietà. Ma il tutto era solo per mantenermi giovane. In cambio sentivo l'obbligo di difendere gratuitamente in patrocinio legale tutte le ragazze che non avevano disponibilità. E così, mi ero fatto clienti anche a Vienna, a Berlino e a Parigi. Insomma un avvocato internazionale.
Ma non ero più il Dongiovanni di una volta. In fondo avevo una bellissima famiglia, tanto vero che nel 1880 avevamo avuto una bellissima bambina, che avevamo battezzato casualmente col nome di Ortensia.

Ma prima di arrivare al nuovo secolo, un fatto era venuto a turbare la mia tranquillità interiore. Dovete sapere che nel 1883 lo scandalo della Banca Romana aveva fatto tremare l'economia del Paese. Credo che il regno d'Italia sia l'unico Stato al mondo nel quale furono stampate banconote false a corso legale, proprio così. Ma tant'è, il nostro è un Paese davvero singolare. Sta di fatto che la Banca Romana, uno dei tre Istituti di emissione italiani (gli altri due erano la Banca di Napoli e la Banca di Sicilia) aveva stampato cartamoneta legale senza l'autorizzazione del Governo. Ma visto che qualcuno l'ordine doveva pur averlo dato, il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti venne licenziato dal re Umberto Primo, che mise al suo posto Francesco Crispi. Una scelta sciagurata, scellerata, perché l'uomo era un brutto retaggio del Risorgimento, e governò letteralmente alla garibaldina. Eppure intitolarono a lui vie, piazze, scuole.

Qui a sinistra, il ritratto di Francesco Crispi.

Ma non era l'aspetto politico dello scandalo che mi aveva sconvolto, quanto le ripercussioni giudiziarie. Giolitti aveva dovuto riparare in Germania per evitare l'arresto, mentre un Senatore del Regno era stato arrestato benché si dichiarasse innocente. Lo lessi sul Messaggero, un quotidiano che leggevo insieme al Corriere della Sera perché il Gazzettino non c'era ancora. Si trattava del Marchese di Moncalieri, 78 anni, fatto nominare Senatore da Giolitti, amico personale del defunto re Vittorio Emanuele II. Era stato presidente di molte commissioni parlamentari, la più importante delle quali era stata quella per il Controllo del Tesoro e delle Finanze. Fu a causa di quest'ultima poltrona che si era trovato nei guai, in quanto non era quantomeno riuscito a intuire ciò che gli stavano facendo sotto il naso. L'accusarono subito di complicità. Non era un mistero per nessuno che, con la salita al trono di Umberto Primo, gli ex collaboratori fidati dello scomparso Vittorio Emanuele sarebbero stati allontanati in fretta. Il marchese di Moncalieri non aveva accettato di ritirarsi e così, alla prima occasione, il re si era disfatto anche di lui.
Ma, dato che la chiave della mia storia sta qui, forse è meglio se incomincio daccapo…

Mi ero recato per qualche giorno a Venezia nel mio palazzo, Ca'Alvisi in Campiello Alvisi tra il Canal Grande e la Giudecca, a perorare la causa del mio istituto per orfani affinché potesse godere dei benefici di stato anche se rimaneva una fondazione privata. Come sempre, consumavo i pasti al circolo dell'Ordine degli Avvocati in Piazza San Marco, dove mi intrattenevo a chiacchiere con i colleghi.


Qui sopra: Piazza San Marco, dipinta dal Canaletto

«Hai sentito Alvisi? - mi disse l'avvocato Mansi passando vicino al mio tavolo a mezzogiorno. - Corre voce che ci sarà lavoro per te.»
«Lavoro? - chiesi. - Io ce l'ho un lavoro. Non ho nessuna intenzione di portare via il pane a dei peoci come voi. Mettetevi il portafoglio in pace.»
Tornai a dedicarmi al mio astice con lo schiaccianoci.
Pranzava con me il notaio Paolo Zorzi.
«Non hai letto il Corriere di oggi, allora?» - Mi chiese questo dopo essersi passato il tovagliolo sulle labbra.
«Ho letto tutto il giorno, ma i giornali, proprio no.»
«Mansi si riferiva alla Beppina. Giuseppina Magiotto ha ucciso il marito e verrà processata a breve.»
«Ha confessato?» - chiesi distrattamente.
«Eh certo che sì. Li ha chiamati lei i carabinieri…»
«E allora il problema dov'è?»
Prima di rispondere, Zorzi finì di sorseggiare un bicchiere di vino bianco tocai.
«Che si dichiara innocente.»
Con l'apposito forchettino stavo sfilando preziosi frammenti di crostaceo dal loro alloggiamento, ma alzai lo sguardo per chiedermi dove stata l'incongruenza. Ma non abboccai.
«Perché io?»
«Perché tu cosa?»
«Perché dovrei occuparmene io, solo perché è una donna? - Alzai lo sguardo verso Paolo. - Non ci penso neanche. Ho da fare e non vedo l'ora di tornare a casa.»
Non era proprio così. A parte il lavoro di biblioteca, confesso che Venezia mi stavo divertendo. Non era proprio come Parigi, Berlino, Vienna o Roma, ma aveva lo stesso la sua vita di società dignitosa, i suoi passatempi, la buona cucina, donne oneste e servizievoli. Ogni tanto mi piace.
«Secondo me dovrai occupartene per una serie di motivi. - Mi rispose Paolo chiamando il cameriere con un cenno della mano. - È una donna, è vero, e qui non amiamo difendere donne perché sono perdenti. Questa poi è anche rea confessa e per giunta si proclama innocente. Per il Procuratore del Re…»
Il cameriere si avvicinò al nostro tavolo.
«Comandi, notaio.»
«Ti ghe n'ha ancora de sépe cóa poènta biànca?»
«Come comanda il notaio Zorzi.» - E andò a prenderle.
«Per il Procuratore, farle avere l'ergastolo sarà come fare una passeggiata.»
«Già. E voi non volete perdere. Mentre se perdo io…»
«Ti g'ha capìo. Una volta che sei tornato a casa, chi vuoi che lo venga a sapere?»
«Puttanate. A voi basta portare a casa soldi.» - risposi amaramente.
«Forse questo è il punto più importante. Non ha soldi. A sé una povaréta. Eco
Si lasciò andare sulla sedia, mentre gli versavano altre seppie nere con polenta bianca.
«Ne volete conte Alvisi?» - chiese il cameriere.
«No grazie, Nane. L'astice era perfetto. Se invece mi porti dell'acqua e limone per lavarmi le mani…»
Mi sfilai dal collo il grande tovagliolo che mi avevano messo prima di servirmi l'astice, poi guardai l'amico collega mentre si abbuffava ricurvo sulle seppie.
«Ma cosa ve ne fate dei soldi!»
«Niente, ma se non li hai è tutto più pesante…»
Finì il piatto senza scrupoli. Poi mi presentò il caso.
«Beppina Magiotto è stata incriminata di omicidio volontario del marito. Devi sapere che il marito l'aveva violentata più di una volta e lei denunciò l'ultima violenza. Come puoi immaginare, la denuncia è stata archiviata perché nel nostro diritto non è contemplata la violenza sessuale nell'ambito coniugale…»
«Se è per quello, io ho ribaltato più di una sentenza in questi casi…»
Mi ignorò.
«Fatto sta che, tornato a casa ubriaco dopo aver saputo della denuncia, il marito l'aveva picchiata con un bastone. Prima l'ha tramortita e poi, già che c'era, l'ha violentata di santa ragione. Probabilmente lui si eccitava così, ma sta di fatto che quella volta la moglie riuscì ad afferrare un pesante ferro da stiro a brace e, cosciente o incosciente che fosse stata, riuscì a colpirlo un paio di volte sul capo.»
«Nane! - chiamai il cameriere. - Un caffè e un cognac, per favore.»
«Anca par mi.» - aggiunse Zorzi. - Mi pare di sentire la tua loquace favella… Signor giudice… - Iniziò rivolgendosi a nome mio ad una corte immaginaria. - Lo sapete perché la mia cliente ha colpito il marito con il ferro da stiro?»
«Perché stava prendendo una brutta piega, signor giudice!» - risposi io con un senso dell'umorismo che sorprese anche me.
La battuta mi era venuta spontanea ma, per quanto irriverente, sarebbe presto diventata famosa in tutto il Foro di Venezia. I colleghi del tavolo vicino infatti scoppiarono a ridere di gusto, seguiti da altri cui la ripeterono subito. Zorzi invece non l'aveva presa bene.
«Quando ti finirà de fare il móna, Matèo?»
«Non accetto l'incarico, Paolo. Scordatelo. Sono venuto a Venezia per altre cose e me ne vado appena le ho concluse.»
«Siór cónte? - mi interruppe Nane. - C'è qui un ufficiale giudiziario che mi ha chiesto di consegnarle questo.»
Guardai il foglio che mi aveva messo in mano e poi guardai l'ufficiale che l'aveva portato. Questo mi fece un inchino e se ne andò.
Su indicazione dell'Ordine degli avvocati di Venezia, il Tribunale mi aveva nominato difensore d'ufficio di Giuseppa Magiotto, detenuta in attesa di giudizio per aver ucciso per sua stessa ammissione il proprio consorte Angelo Magiotto.
Mi avevano incastrato, altro che battute irriverenti!

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(Continua)