Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)
Nona Puntata
Avevo messo Novella in libertà con
una lauta mancia e a mezzogiorno avevo fatto venire mio cocchiere a
prendermi. La sera ero già tornato ad Altivole. Provavo un'intima e
profonda depressione e compresi che il vuoto lasciato da Ortensia
mi avrebbe segnato la vita.
So che non vi sembrerà strano, ma ero tornato a casa con la precisa
volontà di sposarmi. Al più presto.
Nessuna delle donne che mi ero scopato poteva sedersi fra le
candidate al matrimonio, perché già tutte accasate. Pensai a Mietta
che non mi ero ancora fatto e che avevo lasciato a metà, ma
compresi che sarebbe stato solo un capriccio. Pensai alla carissima
Valentina che avevo conosciuto a Riva del Garda; nobildonna,
femminile, bella, sensuale, ricca, colta… Era la più giusta, ma
decisi per il no perché… mi si voglia perdonare, ma era una
straniera, viveva all'estero, in Trentino. E poi, mi
dissero, non avrebbe mai lasciato il suo lago di Garda. Annamaria
si sentì in dovere di segnalarmi la giovane Enrichetta Lucchese di
Sacile ma, abbiate pazienza, non valeva la pena farla venire da
così lontano. E la nobildonna Maddalena Armanini di Possagno? No
no, non la conoscevo nemmeno.
Forse sarebbe stato meglio cercare a Venezia, che ne so, la
contessina Soranzo, altra famiglia di
lungo lignaggio? Perché no la baronessa Holzer di Pasquale che
stava a Tre-viso, di cultura latina nonostante il cognome del
padre?
O a Mestre la nobildonna Felicita Zannini, seria, altera,
determinata e affidabile?
O forse era meglio la bellissima Danieli di Vicenza, bionda con
occhi azzurri, gentile, femminile, docile; ricordai che non mi ero
fatto neanche lei perché praticamente inespugnabile…
Poi mi venne in mente Padova.
E non ci volle molto per de-cidere.
Sposai la mia giovane amica ormai diciottenne Margherita, figlia
dei Carraro, borghesi di Padova. A quel punto, pensai
ironicamente, che le venisse dato il titolo nobiliare o meno, non
aveva importanza. Lei sarebbe comunque divenuta la
contessa Margherita Alvisi.
Margherita… Forse fu il suo nome, il nome di un fiore, a farmi
prendere la decisione finale.
Il matrimonio fu l'avvenimento dell'anno in tutta la Marca
Trevigiana e la mia villa di Altivole fu argomento di chiacchiere
nei migliori salotti da Treviso a Padova e da Vicenza a Venezia.
Invitai tutte le mie ex amanti di origine aristocratica, le quali
parteciparono accompagnate dal loro consorte. Tutte le mie
avventure di origine contadina, invece, erano impiegate
nell'organizzazione delle nozze. Non subii istanze di gelosia dalle
dame aristocratiche, mentre le mie umili servitrici erano
addirittura emozionate per me. Annamaria non avrebbe creduto al
matrimonio finché non mi avesse sentito dire "sì" davanti al
prete.
Già, il prete. Ero andato da lui a comunicargli che avrebbe dovuto
celebrare le nozze perché i Carraro, non ancora raggiunti dal
titolo di baroni, avevano preferito la parrocchia dello sposo
anziché l'ambiente esclusivo e intollerante di Padova dove
abitavano, in quanto i nobili patavini non li avrebbero certamente
accolti con favore. Loro non lo sapevano, ma non sarebbero stati
accettati da loro neanche dopo la nomina…
Il prete si scandalizzò.
«Sattiro, sattiro!» - Aveva urlato in lingua veneta ricercata,
quella che pretende le doppie consonanti dove non vanno. Alzava il
braccio come per lanciarmi un anatema.
«Non ti confessi e non vieni a messa da dieci anni e vuoi sposarti
in chiesa? Resterai fuori da solo, eretico, dove sentirai freddo e
stridor di denti!»
«Senti, Giacinto, non ho tempo.» - gli dissi con praticità,
guardando l'orologio da taschino. - E gli anni che non vengo in
chiesa sono solo cinque.»
Tirai fuori due buste.
«Questi sono per le spese, e questo è il telegramma di complimenti
che il vescovo di Treviso mi ha mandato per le nozze, con gli
auguri del Papa.»
«Un telegràma? - Chiese guardando la busta dei soldi. -
«Un telegràma da chi…»
Lo aprì e lo
lesse sbiancando. Poi guardò la busta contenente il denaro e si
rianimò subito.
«Bèm, nàto d'un càn, bastava dirlo che Sua Santità in
persona… - Parlando, non brandiva il telegramma ma la busta. - Con
queste raccomandazioni avrai sempre un posto nell'alto dei
Cieli.»
«Devo pensare che adesso accetti di celebrare le nozze?»
«Però devi confessarti e pentirti con tutta umiltà dei tuoi
peccati. Pentiti, inveterato peccatore!»
Entrai in chiesa, dove più della metà dei banchi era stata regalata
alla parrocchia dalla mia famiglia. Mi inginocchiai davanti al
confessionale e gli raccontai tutto. Lui si fece una sega e mi
assolse da tutti i peccati.
Quando uscimmo, mi chiese «Questa Ortensia, Matteo, quanto
jèrea bèa?»
Non era la bellezza che mi aveva stregato. Ma non poteva
capirlo.
«Bellissima, Giacinto. Era bella come il fiore del nome che
porta.»
La vigilia delle nozze andai a far visita alla tomba di famiglia.
Non l'avevo mai fatto dopo la morte dei miei genitori, perché avevo
voluto abbandonare ogni condizione trascendentale per dedicarmi
alla vita terrena. Ma mi ero accorto che quando si dà spazio a un
primo sentimento, subito si fanno strada altri… Ricordai la tragica
morte di papà e mamma, entrambi stroncati dal vaiolo in poco tempo.
Che strana la vita, pensai, erano stati loro a non volermi
iscrivere a medicina… Avevano fatto tutto per il mio bene, adesso
non avevo dubbi. Mi ripromisi di non fare la stessa cosa con i miei
discendenti.
Già, la prole… Scambiai alcune mute riflessioni con i miei antenati
e decisi di far mettere mano alla tomba per far posto anche a me, a
mia moglie e a chi sarebbe venuto dopo di noi.
Il giorno del matrimonio, i ragazzi e le ragazze delle famiglie dei
miei contadini erano vestiti da cocchieri, camerieri, cuochi,
sottocuochi, baristi, guardie... Era il giorno del mio matrimonio e
sapevano che il regalo migliore sarebbe stato quello di far
funzionare il ricevimento alla perfezione. La cosa aveva fatto
piacere sia a me che all'intera comunità. Prima di recarmi in
chiesa avevo fatto un giro di controllo con la vecchia e fidata
Annamaria, la quale ora diceva che se mi aveva visto nascere, sarei
stato io a vederla morire.
Da qualche giorno era arrivata la nuova cameriera, la mia Novella,
alla quale Annamaria mi avrebbe voluto affidare dopo la sua morte,
se se lo fosse meritato. L'avevo fatta venire io da Pieve di Soligo
perché ne avevo gradito la dedizione e la riservatezza. Sarebbe
stata sempre una serva fedele.
Annamaria aveva voluto accompagnare me e Novella a far lavare le
mani ai camerieri, a far mettere il vino bianco in fresca nel
pozzo, a dare le ultime disposizioni riguardo ai tempi. Avevo
guardato le due donne da dietro, notando la differenza dei fianchi
appesantiti dal tempo della mia vecchia cara Annamaria e quelli
elastici della giovane Novella. Sentii la pendola battere le ore e
mi venne una gran voglia di andare a nascondermi nell'isoletta del
parco dove mi eclissavo quando da piccolo volevo evitare le noiose
feste di famiglia. Ma ormai avevo deciso ed era ora di andare.
Erano solo gocce di tempo, che si staccano.
Arrivai
in chiesa a piedi per poter salutare i miei com-paesani, mentre per
tornare in villa con la bella consorte avevo fatto preparare la
carrozza delle grandi occasioni, condotta dal mio nuovo cocchiere,
il giovane dalle belle speranze che avevo assunto per la sua
avvenenza. Ad aspettarmi c'erano gli amici più intimi in testa a
tutti gli altri. Checco Clementi stava vicino al suo amichetto di
turno. Gli avevo chiesto di farmi da testimone, ma aveva rifiutato
dicendomi che gli amici e i parenti mi avrebbero fatto una testa
così… Un culo così, voleva dire, ma non gli sembrava il
caso. Però aveva scelto lui il mio vestito di nozze e la cravatta
di raso color rosa di cui ostentavo la bellezza.
Mi venne incontro la zia Amalia. Non frequentava volentieri Villa
Alvisi perché mi considerava troppo libertino, ma stavolta aveva
accettato l'invito.
«Se non l'avessi visto con i miei occhi, - mi disse con non gli
occhi lucidi, - non ci avrei mai creduto!»
«Zia! - Dissi abbracciandola con un sorriso da impunito. - Di cosa
parli?»
«Io ho sempre sostenuto nei miei salotti che il matrimonio è lo
scotto che deve pagare l'uomo per fare sesso... E che il sesso è lo
scotto che deve pagare la donna per sposarsi.»
«Ha ha! Zia, non cambi mai...»
«Come no? Dopo aver assistito al tuo matrimonio non lo dirò mai
più!»
Mi baciò soddisfatta e io cercai di evitare una pur minima
emozione.
«Ostia, il conte Enrico! - Esclamai vedendolo. - Se il conte
Cesarini ha qualcosa da dire, parli ora o taccia per sempre.»
Quel per sempre gli dovette suonare sinistro, perché si
toccò i testicoli cercando di non farsi vedere. Poi sorrise con una
smorfia maligna.
«Ma non te l'aveva mai detto nessuno che de venere e de marte
no se sposa e no se parte»?»
In effetti, era vero. Senza pensarci avevo deciso di sposarmi di
martedì mentre per il viaggio di nozze sarei partito il venerdì
successivo. Improvvisai.
«Ho pensato che se il venerdì fosse caduto il 17, le forze del male
si sarebbero rifiutate di lavorare…»
Checco Clementi gli porse un cornetto di corallo per evitargli
nuovi scongiuri volgari, ma quello si palpò lo stesso le palle con
ostentazione. La vistosità, si sa, aumenta i risultati dello
scongiuro.
Vennero a salutarmi tutti, anche le belle dame che non credevano
davvero che io mi sarei sposato. E con quella lì, poi… Si
consolavano all'idea delle corna che le avrei fatto, povera.
L'orchestrina
che avevo fatto venire avrebbe suonato la marcia nuziale, poi i
musicisti sarebbero andati in villa a suonare qualcosa di moderno
per il pranzo di nozze.
Il poeta Ermete Federici era venuto con il conte Ernesto Macchi. Il
primo si era preso l'incarico di recitare una poesia scritta
apposta per l'occasione, il secondo era venuto per adescare le
ragazzine. Si diceva che andava in carrozza davanti alle scuole
magistrali con una sterlina legata alla patta dei pantaloni.
«Tienilo d'occhio. - Dissi al poeta. - Altrimenti il sonetto glielo
scrivo io...»
Mia sorella era elegantissima, at-torniata dai suoi cinque figli,
quasi a monito di quanti avrei dovuti farne io. Mio cugino era
venuto apposta da Casteggio sostanzialmente per mangiare bene e
godersi la vita con le pollastrelle che si trovano disponibili a
portata di mano in occasione dei grandi matrimoni.
Guardavo anche gli altri ospiti, tuttora increduli della mia
decisione, e mi accorsi che stavolta mancavano i Carraro. Fu allora
che realizzai che stavo per sposare Margherita forse perché
rappresentava una via di mezzo tra il figlio che non potevo
riconoscere e l'amore che avevo riconosciuto.
Sentii i rintocchi del campanile della chiesa e mi emozionai.
Gocce del tempo, che si staccano…
Clementi si accorse del mio turbamento.
«Va tutto bene, Matteo?» - Mi sussurrò.
«Sì, Cesco, Grazie. È solo il tempo che passa...»
D'un tratto, mentre le campane del paese iniziavano a scatenarsi di
festa col din-don-dan tipico della campagna veneta,
un'incredibile carrozza bianca trainata da otto cavalli bianchi col
pennacchio bianco, entrò nel piazzale della chiesa. Provai un
inaspettato senso di emozione e fui felice di sposare
Margherita.
Il conte Matteo Alvisi, ultimo erede della famiglia Alvisi,
aristocratica da prima della Serrata del Maggior Consiglio, stava
per convolare a giuste nozze. Sentii l'importanza del momento. I
miei antenati pulsavano nelle vene facendomi battere il cuore
all'impazzata.
Fu un matrimonio felice. Lei non aveva mai fatto l'amore prima e
dovetti insegnarle tutto, ma ormai ero diventato un maestro. Era
proprio una ragazza calorosa Margherita, e mi amava. Cioè voleva
che io l'amassi…
Divenne presto un'amante perfetta, e indubbiamente le piaceva fare
l'amore. Decise che avremmo sempre dormito insieme, ma io l'avevo
avvisata che passati alcuni anni sarebbe stato meglio tornare a
dormire in camere separate. Per via dell'età…
Margherita si dimostrò subito figlia
d'arte, diventando una brava amministratrice della villa e della
tenuta. Coadiuvata dalla brava Annamaria, iniziò allontanando il
mio disonesto fattore, raddoppiando così subito le entrate di
famiglia. Da allora seguì lei personalmente l'andamento della
campagna, contando i sacchi di frumento alla trebbiatura, annotando
gli ettolitri di vino alla vendemmia, scegliendo i capi da vendere
al macello al momento opportuno. Conosceva nome per nome le vacche
da latte dei nostri contadini. Si faceva in quattro per aiutare le
famiglie dei mezzadri che avevano bisogno. Io, prima, non mi ero
posto neanche il problema che potessero avere qualche
difficoltà.
Poiché si dimostrò sempre interessata alla vita dei bambini delle
nostre campagne, le feci prendere in mano anche l'organizzazione
dell'orfanotrofio di Asolo dove, grazie alla donazione pervenuta
tramite mio, eravamo divenuti i genitori morali e
materiali dei bambini e ragazzi ospitati. Ogni vigilia di Natale
facevamo una cena con loro e al compleanno di ognuno di loro
facevamo gli auguri di persona con una torta e un regalino.
Invece non voleva parlare mai né di politica, né di letteratura, né
di arte, né di economia, d'altronde aveva tutte le doti che erano
richieste a una giovane moglie di un avvocato, nobile e ricco come
me. Lei, poi, apparteneva ad una famiglia ancora più ricca della
mia, anche se non mi ero mai posto il problema del suo stato
patrimoniale.
La singolare avventura mi aveva davvero sconvolto la vita, perché
io non volevo più scopare ogni donna che mi venisse a tiro. Anzi,
volevo poco anche Margherita… Ma forse anche per questo vivemmo
felici e contenti, io con il mio segreto di Ortensia e Margherita
con il suo amore per me.
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(Continua)
Nelle immagini, dall'alto: Ritratto di gentildonna di
autore anonimo di fine '800; fotografia di ortensie; la chiesa di
S. Pietro di Castello a Venezia; un paesaggio agreste di Watmaas
Julius (olio su tela); The Village school, incisione di R.
Webster e H. Bourke.