Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)
Seconda Puntata
Tutto iniziò inaspettatamente al
compiere dei miei 30 anni, nel corso di un ricevimento che avevo
organizzato nella villa di Altivole per festeggiare il mio
compleanno.
La Nobiltà dell'entroterra veneto faceva vita di società solo
grazie alle feste organizzate nelle nostre fastose ville
palladiane. Il mio giro era formato dagli amici, dai colleghi
nobili e dai notabili di Caselle, Castelfranco, Mussolente,
Montebelluna, Monfumo, Cittadella, San Vito, Noale, Martellago,
Trebaseleghe, Cornuda, Conegliano, Bassano, Possano, Castelcucco,
Mirano, Onè di Fonte, Sacile, Caerano, Riese, Bessica, Loria. Una
volta per stagione, al mio compleanno, davo anch'io il ricevimento
in villa, dove amici e nemici facevano a cornate per essere
invitati. Era il giorno di gloria per la mia governante, perché in
quell'occasione si poteva avvalere di una trentina di servitori tra
cuoche, serve, giardinieri, cocchieri, guardiani e lavandaie che
reclutava presso le famiglie dei miei contadini. Ma era anche il
giorno in cui nascevano gli amori, si realizzavano scherzi
goliardici, si concludevano gli affari, si concordavano matrimoni,
e si consumavano i tradimenti più belli e più infami. I poeti
potevano scrivere le loro poesie e, ahimè, leggerle, i pittori
presentavano i loro ultimi capolavori e si accordavano per i
prossimi, i musicisti si esibivano ufficialmente in pubblico.
Anche quella volta mi ero presentato agli ospiti a festa avanzata
perché era usanza che il padrone di casa, el siór Cónte, arrivasse
quando tutti si erano già affiatati. Ero entrato in sordina,
guardandomi intorno, ammirando i figli dei miei contadini vestiti
di lusso nelle divise della servitù di casa. Erano felici anche
loro perché per un giorno facevano in qualche modo parte della
nobiltà. Notai con soddisfazione che non c'era una sola donna di
servizio che non mi fossi portato a letto. Di ognuna sapevo quale
fosse il modo in cui facesse meglio l'amore. Maria, che stava
portando baìcoli, carponi. La Beppina, che ora stava versando da
bere al conte Ceschi, doveva star sopra. La Marietta, che ora stava
ascoltando pazientemen-te la vecchia Contessa Barbini seduta in
poltrona, andava presa prona, gambe unite e caviglie
sormontate.
Guarda te! Ci sono mamma e figlia Battiston, e la figlia non me la
sono ancora fatta perché troppo giovane. Ma se è in grado di
servire le tartine, pensai ... Andai da sua madre.
«Si sta facendo donna tua figlia eh, Livia?»
«Le ho già parlato di voi, siór Cónte. Quando la vuole conoscere...
Io non prometto niente, sa...»
«Sì, sì.» - chiusi il discorso. Per quanto gaudente, mi imbarazzava
una mamma che indicava la figlia. So che la Battiston lo faceva per
il bene della sua figliola, dato che a tutte regalavo il corredo e
a qualcuna anche la dote, però mi piace trattare da solo. Mi girai
a guardarla. Non sarebbe stato male, pensai ironico, farsi le
Lissandrin e le Battiston insieme. Due bei cognomi, che suonano
bene... Lissandrìn e Battistón - prese insieme sul
paión…
Stavo pensando a queste amenità a ruota libera, quando vidi il
conte Cesarini.
«Ostia, il conte Enrico!» - esclamai.
Enrico Cesarini era famoso perché credeva nella sfiga in modo
maniacale. Io lo prendevo sempre per il culo e lui si toccava
sempre i coglioni, cosa che stavolta fece prima ancora che aprissi
bocca.
Sorrisi. - «Volevo dirti, caro Enrico, che mentre la fortuna è
cieca, la sfiga ci vede benissimo. L'ammiraglio Persano…»
«Vade retro, menagramo!» - mi esorcizzò. E mi fece le corna per
impedirmi di spararne altre.
Mi venne in soccorso l'amico Clementi.
«Matteo!»
Era Francesco, Checco Clementi di Crespano, che io chiamavo Checca
Clementi perché era omosessuale. In verità ero l'unico che lo
chiamava così perché, liberale com'ero e come sono, io non lo
disprezzavo, anzi lo trattavo come una cara amica e lui ricambiava
rispettando la mia ironia e la mia assoluta tolleranza. Con lui
amavo chiacchierare anche su argomenti futili e importanti, perché
li sapeva trattare entrambi con grande sensibilità e cultura.
«Sei sempre più affascinante!» - mi disse con un sorriso da un
orecchio all'altro.
«Grazie, Checco. Sono sempre accettati i tuoi comlimenti...»
«Ti ho portato questa cravatta.» - arrossì mentre mi porgeva il
regalo incartato.
Lo aprii. Le cravatte allora si usavano tutte nere, ma la sua era
di un azzurro velo di Madonna.
«Ma è bellissima! Io credo che solo tu possa regalare a un uomo una
cravatta che poi metterà per davvero!» - Ero sincero.
Fummo interrotti da Annamaria perché c'era un problema.
«Sono venuti anche i signori Carraro.» - Mi disse con un certo
rimprovero.
«Hanno accettato?» - risposi cordiale. - «Ne sono lieto. Sono di
là?»
«Matèo.» - disse Annamaria. - «Sai benissimo qual è il
problema.»
«Problema?» - risposi facendo lo gnorri. - «Ci sono problemi?»
«Non li vuole nessuno i Carraro. Sono ricchi, ma non certo
nobili.»
«Annamaria, sai meglio di me cosa ne penso di queste stronzate.» -
Quando usavo questa parola, capiva che non stavo scherzando. - «Io
sono conte e mi sta benone. Anzi ringrazio Dio che mi ha fatto
nascere conte, ricco e maschio, anziché móna, povero e femmina. O
culattone… - dissi rivolto a lui. - Con tutto il rispetto per te,
Checco. Ma le cose non cambiano.»
«Lo so ànca mì che davànti a Dio siamo tuti uguali. Sé
a 'sto mondo che siamo diversi...»
«Dio non c'entra Annamaria. Tàsi. Lo vuoi capire che
semmai saranno gli altri a non volere noi? Cosa vien fuori adesso,
che noi disprezziamo le classi più basse? Basta ben che siano più
sfigate di noi, o no? Sarebbe finita davvero, se le cose in Veneto
si fossero ridotte così... I nobili che prendono le distanze del
popolo!»
«Come che ti vól, Matèo. Il padrone di casa sei tu, ma i
Carraro non sono ben accettati dai tuoi amici. E sai perché? Perché
sono più ricchi di loro!»
«Bello sforzo Matteo!» - sparò ironico Checco Clementi mentre mi
avviavo per andare a riceverli. - «I Cararo no i sé né móni, né
poveri, né culatóni come mi.»
«Checco, tu non sei né mona né povero.»
«Ma checca sì. E tu sei l'unico che mi rispetta.»
Aristocratica riconoscenza.
«Capito Annamaria? Io sono io.»
Entrai nella sala delle feste e salutai i servi, gli amici, i
parenti, le autorità, in quest'ordine naturalmente. Vidi i Carraro
nell'angolo in fondo, da soli. Mi incamminai verso di loro, mentre
un quartetto di archi e un cembalo suonavano una qualche porcheria
barocca di un secolo prima. Dove si
andrà a finire se non si trova una musica moderna da camera? Mi
trovai a sorridere ai musicisti scrollando la testa. La signora
Carraro era seduta su un divano, suo marito e sua figlia stavano in
piedi accanto a lei. Elegantissimi. Sorrisi a loro.
«Grazie di esser venuti!» - dissi a tutti tre. Presi la mano di
Angela e gliela baciai. Poi strinsi la mano di Alvio e baciai sulle
guance la giovane Margherita.
«Zio Matteo!» - disse questa stringendomi. Aveva diciassette anni e
notai che le sue tette erano cresciute a dovere. Ma la consideravo
come se fosse mia nipote.
«Matteo. - mi si rivolse serio Alvio. - Credo di averti rovinato la
festa. Guarda l'agitazione che abbiamo creato. Nessuno balla e si
tengono ben lontani da noi. Siamo borghesi e i tuoi ospiti no'
i me g'ha mànco pa'l cul.»
«Ecco, - sorrisi. - Tu parla in questo modo e vedrai che ti
accoglieranno bene solo nel Regno dei Cieli. Anzi, ti ci
manderanno.»
«Scusa Matèo, mì...»
«Sono invidiosi perché tu sei ricco più di tutti loro messi
insieme. Tu però non fai proprio niente per migliorare la tua
classe. Vieni, balla con tua moglie, che io ballo con Margherita.
Apriamo le danze.»
Feci cenno al quartetto, e gli strumentisti parlottarono tra loro
per mettersi d'accordo. Stranamente si misero a suonare un
trequarti. Un battere e due levare, un valzer dunque… Cristo che
sorpresa!
«Amici, - dissi rivolgendomi ad alta voce alla platea, - si dia il
via ufficiale alle danze. In questa casa sono tutti benvenuti,
persino i medici, i banchieri e gli assicuratori.»
Avrei pensato che se sarebbero andati via la metà, e la cosa non mi
preoccupava perché io sarei sempre stato ugualmente invitato a casa
loro per ovvi motivi di convenienza. E invece, in pochi minuti la
sala da ballo si riempì di coppie al passo di danza.
«Zio sei grande!» - sussurrò Margherita lasciandosi condurre da
me.
«Sono grande un corno. - le risposi con un finto sorriso tutto
dedicato al pubblico. - Se rimangono è perché un giorno potrebbero
aver bisogno di me.»
«Lo credo, sei il miglior avvocato del Veneto...»
«No. Questi bastardi sanno che prima o poi avranno bisogno di tuo
padre. E per arrivarci dovranno passare da me.»
Un'oretta dopo, mentre mi stavo mangiando con le mani un astice
delizioso con Mietta Raselli che desideravo restasse a casa mia per
la notte, mi si avvicinò Annamaria per informarmi che il barone
Antonio di Rovero y Bariga desiderava parlare con me in
privato.
«Di Rovero?»
«Y Bariga.»
«Di Rovero y Bariga.» - ripetei perplesso. - «E chi è? Non mi pare
di conoscerlo. Chi l'ha invitato?»
«Nessuno. Non è qui per la festa. È di origini spagnole ma ha
l'accento dei baùscia-piemontès. disse, come li chiamavamo dai
tempi della guerra d'Indipendenza. - È venuto qui, dice, per motivi
altamente riservati.»
«Ha scelto il momento giusto per la riservatezza, ha ha! - risi,
indicando gli ospiti. - Questi parlano più delle comari di
Chioggia. Non lo noterà nessuno! Ha ha!»
Rise anche Annamaria. - «Cosa gli dico?»
«Fallo accomodare nel mio Studio Verde. Offrigli quello che
desidera e digli che lo raggiungo tra un minuto.»
Annamaria se ne andò e Mietta si dimostrò comprensiva.
«Va' Matteo. Prima il dovere e poi il piacere...»
«Vuoi dire che per questa notte ho qualche speranza?» - chiesi per
non perdere il colpo.
«Lo sai cosa voglio.» - Mostrò l'anulare privo di anello
nuziale.
«Già. - commentai con educata e finta complicità. - Lo sai come la
penso io di queste cose: prima il piacere e poi il dovere.»
Nell'immagine a
sinistra, un
bellissimo<</font>quadro
presente in una
delle pagine
del
sito<</font>dei<</font>Bersaglieri
intitolato
«La Belle Epoque»
Mi recai verso l'ala più privata della casa e giunsi allo studio
verde, al cui ingresso Annamaria aveva sistemato un cameriere
piuttosto robusto per garantire la riservatezza all'ospite
sconosciuto. Quando entrai il barone si alzò in piedi. Portava un
vestito di lino di colore coloniale e aveva in mano un cappello
Panama dello stesso colore, mentre io indossavo il frak grigio di
mezza sera adatto alla mia festa. Due baffoni lunghi schiariti dal
fumo dei sigari.
«Signor Conte, - proferì chinando la testa con eleganza. - Vi
ringrazio per avermi ricevuto nonostante la mancanza di preavviso.
Comprendo di essere stato intempestivo, ma non sapevamo che ci
fosse un ricevimento...»
«Non preoccupatevi. Sedetevi, prego.»
Mi sedetti anch'io e seguirono alcune parole di circostanza.
«Sono il barone Antonio di Rovero, hidalgo de Comaymas, señor de
Bariga, Aiutante di Battaglia di prima Classe. Per gli amici,
semplicemente Antonio di Rovero y Bariga de Comaymas.»
Per quel poco che avevo vissuto nella capitale, sapevo che i Romani
di fronte a tanti titoli avrebbero esclamato «Me' cojoni!». Ma mi
limitai ad annuire cortesemente per poi pronunciare la mia solita
battuta «Io sono Matteo Alvisi». Io sono io.
«La mia famiglia lavora da anni per una grande famiglia
aristocratica... - Non finì la frase, ma sapevo che pochi
aristocratici avevano al proprio servizio addirittura un barone. -
Sono stato inviato da un illustre e importante personaggio del
Paese per farvi una proposta... Diciamo da gentiluomo a
gentiluomo.»
«Chi sarebbe il personaggio?» - domandai curioso.
«Non posso dirlo. Vi prego...»
Avevo intuito che si trattava di una situazione estremamente
riservata e se davvero apparteneva al mondo della diplomazia, dalla
quale io mi ero così involontariamente congedato..., poteva essere
un affare di stato. Probabilmente avevano bisogno di un esperto di
diritto internazionale Asburgico, e rientrare nel giro non mi
sarebbe dispiaciuto affatto.
«Ditemi quello che potete, allora.»
«Sentite, - riprese, gonfiandosi il petto come per prendere forza.
- Non è facile ciò che sto per dirvi, e devo chiedervi la massima
riservatezza qualunque sia la vostra risposta. Mi date la
parola?»
«Vi do la mia parola.»
«Bene. Uno studio legale di Roma mi ha mandato qui da voi perché
siete stato... sareste stato scelto voglio dire, scusatemi, per una
missione particolare. Il cliente, un marchese italiano che io mi
onoro di servire...»
«Di Torino?»
«Come? - Arrossì per la parola detta di troppo. - Non vi posso dire
chi è. Questo marchese aveva incaricato lo studio legale romano di
trovare, in accordo con un collegio di medici specialistici, la
persona più adatta all'uopo. Cercavamo un uomo di mondo, di
estrazione aristocratica, di buona cultura, piacente e...,
scusatemi l'impertinenza, amante delle belle donne e
particolarmente dotato negli attributi che, ehm, diciamo, alle
donne piacciono di più.»
Seguì
un attimo di silenzio. Io non ero imbarazzato, perché mi sarebbe
piaciuto ricevere l'incarico di svolgere una missione galante per
ottenere chissà quali informazioni, quali consensi, quali intese,
quali alleanze, quali privilegi, al servizio del Paese. È un metodo
abbastanza diffuso presso le diplomazie europee di questa fine
Ottocento, avvalersi di donne compiacenti o di gentiluomini capaci
di ottenere favori femminili. Lui però era imbarazzato a proseguire
e cercai di aiutarlo.
«Vi prego, andate avanti, barone Di Rovero…»
«Y Bariga...»
«Vi prego, barone Di Rovero y Bariga de Comaymas. Siamo uomini di
mondo, prima ancora che di cultura. Non fatevi remore. Io sono una
persona che ha il senso dell'onore.»
«Vi ringrazio. - Si rilassò un po'. - Ma la missione è estremamente
riservata e delicata.»
«Sono preparato.» - risposi affabile.
«Dovreste recarvi a Villa Sordenigo, vicino a Pieve di Soligo, e
sedurre una donna, una gentildonna.» - sbottò come se si fosse
tolto un peso dallo stomaco.
Era esattamente ciò che avevo desiderato sentire.
«Si tratta di una missione difficile.» - dissi, mostrandomi serio e
pensieroso.
«Ma non impossibile.» - si affrettò a precisare Di Rovero.
«Ma non impossibile.» - ammisi anch'io.
«Dunque accettate?» - mi domandò.
«Voi comprenderete che non si possono dare garanzie in tal senso. -
risposi con sincera modestia. - Una donna è sempre una donna.
Imprevedibile e...»
«Questo è vero. - Convenne. - Ma, a quanto mi dicono, voi sapete
come fare...»
«Maldicenze. - troncai. - E chi sarebbe questa nobildonna?»
«La moglie del Marchese in questione.»
«Moglie del marchese per cui voi lavorate? Ma cosa diavolo state
dicendo!»
«La verità. Si tratta proprio della moglie del Marchese in
questione.»
«Ma che senso ha?» - domandai sconcertato.
Non rispose e compresi che si trattava di affari molto
delicati.
«E va bene. - proseguii. - Ammesso che riesca a sedurre la
nobildonna, qual è la missione da compiere?»
«Come? - domandò con una certa meraviglia. - Non avete ancora
capito? Questa è la missione. Sedurre la nobildonna!»
«Cristo, ma ci sarà pure un motivo per cui dovrei sedurla, non vi
pare?»
«Certo che c'è, dovete metterla incinta!»
Alla sua risposta mi ero alzato in piedi allibito e lui si era
alzato con me. Ci eravamo guardati vis-à-vis per un lunghissimo
minuto, poi aveva deciso di spiegarsi.
«Non offendetevi, conte, vi prego. Si tratta di una situazione
molto seria e nessuno ha mai pensato di mancarvi di rispetto.»
«Cioè, in altre parole volete dire che non hanno considerato la mia
dignità?»
«No no, vi prego. Se la prendete in questo tono io...»
«Mi dica come la prendereste voi.»
«Io? Io non ho la vostra fama di...»
«Di conte da monta, volete dire barone?»
«Ossignore! Scusatemi, signor conte, io… il marchese...»
«Sì?» - incalzai seccato.
«Inutile dire che vi offenderete ancora di più se vi comunico, come
devo, che vi è offerta la considerevole cifra di 25.000 lire oro in
cambio dei, diciamo, servigi...»
Si aspettava una mia reazione incontrollata, pur contando sulla mia
estrazione aristocratica. E infatti mi apprestai a cacciarlo di
casa a calci in culo, mentre lui, come ogni diplomatico
professionista, volle concludere comunque la sua missione.
«Il marito, il marchese di cui continuo a non rivelare il nome, è
sterile. Cionondimeno ha necessità di avere un figlio da
sua moglie. Una questione di eredità, come potete immaginare da
legale quale siete.»
Lo ascoltavo domandandomi davvero se ambasciator non porta pena.
Non porta pene, mi dissi con ironia tra me e me. Trattenni un
sorriso a stento, che forse venne preso per ghigno.
«È una bellissima donna sui 30 anni. È stato clinicamente accertato
che lei può avere figli.»
Era davvero un diplomatico di professione, non mollava proprio.
«Uno stuolo di esperti di genetica ha delineato il profilo della
persona ottimale che dovrebbe darle un figlio. E un consesso di
medici, dopo aver studiato le pratiche di una ventina di candidati
proposti da uno studio legale romano, ha optato per voi.»
«Dovrei esserne lusingato, vero?»
«Non so, non ho detto questo...»
Fu proprio in quel momento che entrò nello studio la mia giovane
amica Margherita Carraro che era riuscita a passare nonostante la
presenza del cameriere messo di guardia fuori dallo studio.
Entrambi la salutammo inchinandoci.
«Zio! - mi aveva chiamato. - Vieni, che tutti si domandano dove sei
finito!»
Poi, gioviale come sempre, balzò nuovamente fuori.
Tornammo a guardarci in silenzio.
«Possiamo trovare insieme una scusa che possa giustificare il
vostro diniego senza suscitare la sensibilità del marchese?» -
chiese con deferenza il barone Di Rovero.
«Ditegli che accetto.» - risposi improvvisamente.
E, prima che l'altro si riprendesse dallo stupore, indicai la
direzione presa da Margherita e feci una richiesta.
«Però voglio che la famiglia della mia giovane amica venga
insignita di un titolo nobiliare.»
«Beh, penso che proprio non ci siano problemi in tal senso.» -
sospirò di sollievo, pensando al successo che la sua missione stava
per ottenere inaspettatamente.
«Va da sè che le 25.000 lire oro andranno versate alla fondazione
degli orfani di Asolo.»
«Sono una montagna di danaro... Ehm, siete sicuro che sapranno
amministrarli bene?»
«Lo credo bene. Li amministra il mio studio legale.»
«Ah, naturalmente. - sussurrò. - Scusatemi.»
Il mio desiderio di rientrare nel Corpo Diplomatico mi aveva fatto
accettare una missione che per il momento mi lasciava solo
ironicamente entrare nel corpo.
Due settimane dopo, una carrozza mi portava a Castelfranco Veneto,
dove salivo sul treno diretto a Pieve di Soligo. Villa Sordenigo
era stata affittata per un mese da uno studio legale romano.
Nelle immagini: in alto Toulouse Lautrec, e in basso Adolf
Friedrich Edrman von Menzel. De lritratto del barone non ci è dato
di conoscere l'autore.