«Dialogando con Brodskij» – Di Massimo Parolini
Pubblicato da LietoColle un denso volume di confessioni del grande poeta russo
Titolo: Dialoghi con Iosif Brodskij
Autore: Volkov Solomon
Editore: LietoColle, 2016
Prefazione: Jacov Gordin
Pagine: 425, brossura
Prezzo di copertina: € 20,00
Volkov: «Lei è nato nel maggio del 1940, cioè circa un anno prima dell'attacco di Hitler alla Russia. Si ricorda dell'assedio di Leningrado, iniziato nel settembre del 1941?»
Brodskij: «C'è una scena che ricordo abbastanza bene. Mia madre che mi trascina su una slitta per le strade ingombre di neve. E' sera, i fasci di luce dei riflettori frugano il cielo. Io e mia madre stiamo passando davanti a una panetteria vuota, nei pressi della Cattedrale della Trasfigurazione non lontano da casa nostra. E' questa la mia infanzia.»
Volkov: «E parlavano anche del cannibalismo nella città assediata?»
Brodskij: «Sì, parlavano anche di cannibalismo.»
Sembrerebbe una seduta terapeutica più che un dialogo, questo scambio rapido di battute in punta di anamnesi.
Ed effettivamente non si tratta di un semplice estratto di intervista ma di un breve passaggio di oltre quindici anni di dialoghi analitici condivisi dallo scrittore, giornalista, storico della cultura e musicologo Solomon Moiseevič Volkov (nativo del Tagikistan, al tempo Urss, emigrato negli Usa nel 1976) col poeta russo (nativo di Leningrado) Iosif Brodskij (premio nobel per la letteratura nel 1987).
«Solomon Volkov. Dialoghi con Iosif Brodskij» (a cura e con traduzione di Gala Dobrynina, prefato da Jacov Gordin, e dallo stesso Volkov nella edizione inglese, con postfazione di Alessandro Niero) è di recente in libreria edito dalla casa editrice LietoColle (pp. 425, euro 20). |
Quella del dialogo-conversazione è d'altronde una delle modalità letterarie più amate dal poeta russo, esule negli Usa dal 1972.
Il libro ha più piani di lettura, come ricorda Nieri nelle sue annotazioni: si presta all' esperto brodskijano che troverà precisi riferimenti e approfondimenti ai numi tutelari della sua vicenda poetica-umana e alla sua saggistica in generale.
Ma anche al curioso di cose brodskiane, che potrà, in forma narrativa, ripercorrere la vita di un uomo, e trovare molti spunti, talora aforistici, di grande intensità. Volkov definì i dialoghi, nella sua prefazione all'edizione inglese, «una guida, una sorta i Baedeker, nel territorio artistico ed esistenziale di Brodskij, un territorio bellissimo, mozzafiato e al contempo «proibito».
Nel primo capitolo (Infanzia e giovinezza a Leningrado, da cui abbiamo tratto alcuni dialoghi in apertura) si indaga, con rapide incursioni, la prima fase della vita dello scrittore: Volkov talvolta ricorda a Brodskij poesie o episodi che quest'ultimo afferma di riportare alla memoria solo in quel momento, proprio come in una seduta psicanalitica:
V: «Nella sua poesia Dalla periferia al centro... descrive Leningrado una penisola di stabilimenti, il paradiso delle botteghe, un'Arcadia di fabbriche.»
B: «Sì, è proprio la Malaja Ochta! E' vero, ho scritto una poesia che parla della Leningrado industriale! È sorprendente, ma me ne ero completamente dimenticato! Sa, io non sono in grado di parlare delle mie poesie, perché non le ricordo molto bene.»
Una città che ha segnato profondamente la formazione esistenziale del giovane inquieto: «nella topografia di Leningrado c'era un'enorme distanza, una differenza colossale, tra il centro e la periferia. E improvvisamente mi sono reso conto che la periferia è l'inizio del mondo, e non la sua fine. E' la fine di un mondo familiare, ma è l'inizio di un mondo sconosciuto che, ovviamente, è molto più vasto».
Figlio di un ufficiale di origine ebraica, Brodskij confessa di aver sofferto, per vari motivi, un'esperienza di nomadismo scolastico e che il suo sogno di ragazzo era di entrare nel Secondo Liceo Navale Baltico per diventare sommergibilista ma che essendo ebreo (la scusa fu astigmatismo all'occhio sinistro) venne respinto al controllo medico.
A 15 anni lascia la scuola e lavora come fresatore in fabbrica, poi tenta di superare gli esami da esterno ma viene bocciato in astronomia e inizia a lavorare in un obitorio l'anno dopo (Sezionavo i cadaveri, tiravo fuori le viscere, e poi ricucivo tutto. Rimuovevo la calotta cranica).
Un giorno viene rincorso con un coltello da uno zingaro al quale riconsegna sezionati due figli morti di dispepsia e si salva picchiandogli il polso con un martelletto da chirurgo.
Quindi svolge il lavoro di fuochista e finalmente viene assunto nelle spedizioni geologiche, diretto sul Mar Baltico (mangiato dalle zanzare), in compagnia di condannati armati di coltelli.
Per realizzare una mappa geologica dell'Urss in scala uno a un milione e, soprattutto, per fare fori di sondaggio alla ricerca di uranio, con vari strumenti tra cui un contatore Geiger per le radiazioni.
A bere alcol, «perfino il liquido dei freni».
«Credo che non tutte le esperienze possano essere utili e divertenti... In generale la vita non è cattiva, l'unico male è la sua prevedibilità» (Zeno Cosini affermava invece che la vita non è né bella né brutta: è originale).
Incalzato da Volkov, il poeta ricorda poi la campagna antisemita contro i medici agli inizi degli anni Cinquanta (Il complotto dei medici).
I due si soffermano quindi sulla figura di Stalin, con i baffi caucasici, da mediterraneo, «un papà con i baffi» che, come rincalza Volkov, si differenziava nei cinegiornali da Hitler e Mussolini (gesticolanti selvaggiamente) per la sua discrezione e calma, per il suo emanare calore (Si creava davvero la sensazione che ti potesse abbracciare, che ti potesse riscaldare... il surrogato di una figura paterna).
Arrivando, Brodskij, alla conclusione freudiana che «buona parte del consenso che Stalin ha riscosso tra gli intellettuali occidentali sia legata ad una loro latente omosessualità».
Racconta di quando diedero l'annuncio della morte del dittatore e la coordinatrice di classe con voce straziante ordinò di inginocchiarsi. E ancora, del poeta russo Mandel'stam (tra i suoi prediletti), esiliato da Stalin per una poesia satirica (e poi rilasciato) e ucciso per un'Ode.
Il secondo capitolo è dedicato alla frequentazione con la poetessa Marina Cvetaeva, musa della sua giovinezza (di cui si ricordano le poesie sull'invasione nazista dei Sudeti), a fianco di altri giganti della letteratura russa (Puskin, Tolstoj, Dostoevskij, Pasternak), ma anche di vari poeti di seconda fila (abbastanza sconosciuti in Occidente: Goleniščev-Kutuzov, Dmitriev, Katenin, Vjazemskij), tra cui quell'Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij (che a detta di Brodskij ha scritto cinque o sei poesie veramente belle) ricordato dal grande figlio regista Andrej, in vari dei suoi capolavori.
In un passo, parlando della poesia «Versi sulla campagna d'inverno del 1980» (sull'invasione sovietica dell'Afghanistan) Brodskij afferma:
«È stato uno scontro sul piano degli elementi, del ferro contro la pietra.»
In quei luoghi non avevano mai visto una ruota ferrata.
Ma a guidare quei carri armati c'erano giovani di 19-20 anni, probabilmente per punizione.
E vengono in mente i celerini figli di operai di Pasolini.
C'è poi un capitolo sugli arresti, gli ospedali psichiatrici, il processo del 1964, a partire dall'articolo denuncia di parassitismo (Un parassita del sottobosco letterario) di Lerner (dirigente della polizia popolare con interessi letterari) su un giornale di Leningrado.
La cella nella grande casa, attraverso un «ponte dei sospiri» sul modello delle carceri veneziane; il manicomio, per brevi periodi nel 1963 e ’64, con un compagno di camera che si taglia le vene, il sadismo degli infermieri, una detenzione peggiore della galera, con iniezioni e torture di vario tipo.
Poi c'è un capitolo sull'esilio al Nord a fare il bracciante in una fattoria di stato: colpisce l'episodio di un anziano contadino che è nel suo vagone, arrestato e condannato a sei anni di prigione per aver rubato un sacco di grano dall'aia del kolchoz dove lavorava: Brodskij si scaglia contro gli attivisi - anche occidentali - per i diritti umani che per quel vecchio anonimo non avrebbero mai mosso un dito anche perché non ne avrebbero mai saputo niente (e qui notiamo, ancora una volta, in Brodskij, un accenno pasoliniano spontaneo, non politically correct).
Un periodo in cui ricevete «più di cento chili di libri» e scriveva molte poesie, «uno dei momenti migliori della mia vita. Ce ne sono stati di peggiori, ma di migliori mai».
Nel capitolo sul poeta americano Robert Frost, icona statunitense non amata dai giovani, poeta rurale della natura, il premio nobel fa delle considerazioni di estremo interesse sui poeti e il loro successo letterario.
«Ogni volta che la verità ti si presenta davanti, o la respingi, o cominci a odiare il poeta che te la mostra. Oppure, ancora peggio, lo ricopri d'oro e di premi e fai di tutto per dimenticarlo. Il poeta nella società moderna viene riconosciuto o perseguitato.»
Ma un autentico riconoscimento richiede comprensione e la società propone invece al poeta «un riconoscimento senza comprensione».
Brodskij concorda con la visione di Frost per cui il poeta può, nella lunga scadenza, influire sulla politica (a differenza dell'inglese Auden che sosteneva: «Niente di quello che ho scritto contro Hitler ha salvato dalla morte un solo ebreo. Niente di quello che ho scritto ha avvicinato la fine della guerra di un solo minuto»).
«Il poeta modifica indirettamente la società, ne cambia il linguaggio, la dizione, ne modifica il grado di consapevolezza... Il poeta di fronte alla società ha un solo dovere: scrivere bene... è il servo della lingua.
«E quando un poeta viene accettato dalla gente, succede che la gente si mette a parlare la lingua di quel poeta, non quella dello stato.»
Come nel caso di Dante rispetto a Guelfi e Ghibellini. Così come i russi (siamo all'inizio degli Ottanta) non parlano -ricorda Brodskij-la lingua della Pravda.
«Il potere sovietico ha trionfato in tutti i settori, in tutti tranne uno, quello della lingua.»
Ma la vera emancipazione delle coscienze nell'Urss, per il poeta russo, è avvenuta, per quelli della sua generazione, con Tarzan «il primo film in cui abbiamo visto scene di vita naturale. E i capelli lunghi. E quel meraviglioso urlo» che risuonava sulle città russe.
«E lo stato ha combattuto molto più accanitamente con questo che con Solženicyn più tardi.»
Al poeta inglese Auden, da lui molto amato (al quale la sua poesia è stata spesso avvicinata) e che lo aiuterà a Vienna nel primo periodo dell'esilio, è dedicato un intero capitolo.
Troviamo procedendo un capitolo sulla poetessa Achmatova che Brodskij iniziò a frequentare dai vent’anni e che sostenne il poeta «ribelle» anche nei momenti dell'esilio e delle persecuzioni.
Tra le varie considerazioni, in queste pagine di dialogo, Brodskij sostiene, a proposito delle sue poesie dedicate a persone o a luoghi, che le sue non sono poesie come un diario di viaggio; dediche che nelle riviste russe dell'epoca, se scomode, vengono censurate («Maiali! Sono dei maiali! Là in Russia non hanno altro da fare che rimuovere le dediche dalle pubblicazioni, cancellare i titoli, distorcere i testi e togliere le date»): «Scrivi perché da qualche parte sei stato felice e per questo ringrazi... Ripaghi l'arte con l'arte».
E rievoca una lettura fatta a Venezia durante la Biennale del 1977, vicino al Teatro della Fenice, leggendo la sua poesia «Laguna» in una sala ricoperta fino al soffitto con gli affreschi di Francesco Guardi, l'autore sostiene di aver avuto una sorta di estasi: «dopo un'esperienza del genere puoi tranquillamente morire».
Dopo l'esilio al Nord Brodskij tornò per un periodo a Leningrado, ma fu ostacolato nella sua attività letteraria e continuamente censurato, fino a subire l'espatrio forzato: a quest'ultimo periodo è dedicato un altro capitolo: un' espulsione verso Israele che si tramuta in esilio (dopo Vienna) negli Usa, con la connivenza dell'Unione degli scrittori sovietici con il Kgb.
In particolare Brodskij approfondisce il ruolo svolto dall'affermato (anche negli Usa) poeta russo Evgenij Evtušenko, secondo Brodskij amico personale di Andropov (dal 1967 capo del Kgb e dal 1982 alla morte nell'84 del segretario del Pcus e poi Presidente dell'Urss).
Quindi seguiamo l'esule russo a New York, dove in seguito diverrà docente al Queens College (ma in realtà dal '72 all' '80 insegnò nel Michigan) e l'aiuto prestato ad Aleksandr Godunov, primo ballerino del Bol'šoj, per chiedere nel 1979 asilo politico agli Usa.
E infine l'Italia, in particolare l'amata Venezia, («andare a Venezia era la mia idea fissa»), colpito soprattutto dalla «densità dell'arte... per centimetro quadrato», l'incontro mancato nel ’72 a Spoleto con Ezra Pound (poi morto pochi mesi dopo), la visita nel ’77 alla sua casetta in una calle di Santa Maria della Salute (in compagnia della vedova di Pound Olga Rudge e della scrittrice Susan Sontag), i piccioni di San Marco (sono facoltativi).
A Venezia («la città dell'occhio», dove risiederà per diciassette inverni) Brodskij sarà poi seppellito nel cimitero di San Michele (in compagnia di altri esuli russi come Diaghilev, Stravinskij, una pronipote di Puskin e dello stesso Pound, nel settore degli ortodossi); a Venezia ho avuto la fortuna di incontrarlo nei primi anni ’90 in occasione di una conferenza presso le Sale Apollinee del Teatro La Fenice (dove da universitario lavoravo), in compagnia dell'ex Presidente Urss Gorbaciov, grazie alla cui Perestrojka lo scrittore sarà riabilitato.
Un libro ricco di esperienze, di incroci di culture, di giudizi, fatto di spontaneità, senza ricostruzioni letterarie, «fondamentale? per gli incurabili di Brodskij e, in generale, per gli appassionati della Poesia come aureola caduta, baudelairianamente nel fango ma ancora con tenui intermittenze di luce in un mondo prosaico inquinato e offuscato dall'indifferenza dilagante.
Massimo Parolini