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«La morte è in doppia fila, la gioia è in agguato»

Milo De Angelis ha presentato a Trento la sua ultima raccolta – Di Massimo Parolini

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Titolo: Incontri e agguati
Autore: De Angelis Milo
 
Editore: Mondadori, 2015
Collana: Lo specchio - Poesia
 
Pagine: 65, brossura
Prezzo di copertina: € 18
 
Aula gremita di giovani mercoledì 13 aprile all’Università di Lettere di Trento (in via Tommaso Gar), all’incontro col poeta Milo De Angelis organizzato dal Seminario permanente di poesia (Semper https://semperpoesia.wordpress.com/chi-siamo/ ) diretto dai docenti Pietro Taravacci e Francesco Zambon, che da quattro anni propone incontri con la poesia e i poeti di alto livello avvicinando i giovani studenti (ma gli incontri sono ovviamente aperti a tutta la cittadinanza) al sale della migliore poesia italiana ed europea.
Carla Gubert (italianista ed esperta di poesia dell’Università di Trento) e la giovane Claudia Crocco (critica letteraria, membra di Semper) hanno intervallato, con analisi critiche puntuali, il momento clou dell’incontro, ossia la lettura di varie poesie dell’autore e gli aneddoti di esistenza donati a corollario e approfondimento della genesi ispirativa: poesie tratte dalla prima raccolta (Somiglianze, 1976), all’ultima (Incontri e agguati, 2015), con scorrerie nella complessa Millimetri del 1983 (della quale, a detta dello stesso De Angelis, il neolaureato Damiano Springhetti di Cavareno, presente all’incontro, ha saputo attraversare spazi reconditi e rivelatori di significato e collegamenti ignoti all’autore stesso).
 

 
In De Angelis ha ricordato Gubert, c’è un’estrema fedeltà al paesaggio urbano, metropolitano, all’hinterland milanese, alle periferie dei lunghi muri vuoti, che dividono i quartieri dalle grandi industrie, ai binari della ferrovia di gronda nord che delimitano la zona della Bovisa, alla Comasina, dove ha vissuto; una periferia, che come dice l’autore stesso in un verso, è quella degradata del pittore Sironi, fatta di grigiore, poche macchie di colore, poche presenze umane, in ombra o alla luce fredda dei neon.
In questo spazio vi sono figure umane che cercano una comunicazione, una voce sapienziale che interroga l’io lirico, in un dialogo sospeso - anch’esso - spesso, nel vuoto.
Vi sono sagome del dolore. A far da pendant a tale dimensione esistenzialista, nella quale potremmo notare una tenue ascendenza sbarbariana di alienazione e dissolvenza, c’è l’altro grande tema di De Angelis: l’evocazione dell’età felice, il periodo dell’adolescenza, sospesa tra l’infanzia e l’età adulta, un’età violenta e inquieta ma assoluta e irripetibile, nella quale le sfide sono con avversari credibili e le sconfitte non sono definitive così come le vittorie (un po’ alla «Ragazzi della via Pal»); è il periodo delle prove fisiche e spirituali, dell’iniziazione, l’età eroica (come nella poesia «19 marzo»), caratterizzata spesso dalla presenza del sangue, parola chiave nel lessico del poeta, quando si scelgono i compagni di vita; c’è la dimensione del cortile, della strada, dello sport, del calcio, della corsa, temi cari all’autore, che ha affermato di aver rincorso il mito di una donna «Daina» (protagonista anche della sua fiaba teatrale «La corsa dei mantelli»), una figura femminile che non si accontenta di assistere alle gare dei maschi, ma corre con loro, li sfida, non si ferma, è imprendibile e imprevedibile: insomma, un po’ la belle dame sans merci, l’eroina di romanzi dumasiani, l’Angelica di Ariosto.
 
Dell’ultima raccolta, «Incontri e agguati» (Mondadori «Lo specchio», pp. 69, € 18,00), l’autore ha letto alcune poesie tratte dalla prima sezione, «Guerra di trincea»: l’autore è in dialogo con la morte, un avversario conosciuto, che come la coprotagonista del «Settimo sigillo» bergmaniano gioca la sua partita a scacchi quotidiana col poeta o, come nella poesia del premio nobel svedese Tomas Tranströmer, viene come un sarto a prendere le misure del vestito delle persone e poi si allontana.
Nella sua poesia De Angelis dice di averla incontrata nel 1967, nell’istante (termine caro perché designa l’imminenza di uno svelamento) della morte del padre.
In Somiglianze scriveva: «questa morte non è solo svanire/ ma insieme, un poco, esserci». «Quell’andarsene nel buio dei cortili» (2010) si concludeva invece con i versi «Insegnatemi il cammino, voi che siete/ stati morti, attingete la nostra/ verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo/ (…) torneremo a casa, vi diremo».
 
La dicotomia tra la freschezza di nuovi argomenti, come una donna sportiva, elementi di quotidianità, la sessualità reale, exempla di un polo vitalistico, fatto di gioia e, dall’altra una dimensione esistenzialista, dove le parole chiave sono il nulla (tema della seconda sezione, «Incontri e agguati», che dà il titolo all’ultima raccolta), sangue, asfalto è stata oggetto anche dell’intervento di Claudia Crocco.
Una poetica ricamata da evenimenti che escono dal non esserci per brevi istanti e rientrano nel nascondimento lasciandosi, nell’ultimo sguardo di Orfeo ad Euridice, cogliere un attimo prima di cancellarsi.
Milo De Angelis ha quindi ricordato che da oltre vent’anni insegna al carcere di massima sicurezza di Opera, in provincia di Milano: nell’ultima raccolta, per la prima volta, dedica (nella terza sezione, Alta sorveglianza),una lunga poesia a tale esperienza («il carcere è vietato ai curiosi», si dice ad Opera), raccontando in modo lirico quello che Taravacci ha definito «un epos, ricca di una nuova pietas» ( e De Angelis ha aggiunto «un ethos»): la storia tragica, ricamata in pietas di coro conclusivo, di Franco, detenuto siciliano, omicida della donna che amava, che con De Angelis ha cercato un dialogo umano e culturale, recitandogli a memoria pagine della «Ballata del carcere di Reading» di Oscar Wilde, dove il leit motiv è «ognuno uccide ciò che ama».
 
Negli otto metri quadri delle stanze dei carcerati, dove tutto è misurato, limitato, De Angelis ha trovato linfa per la poesia, che nell’ultima raccolta, più architettata, come ha ricordato lui stesso, è più strutturata, un’ inquadratura in campi lunghi, con meno varianti. La poesia di De Angelis è fondata sulla ricerca di archetipi, «monotòna» l’ha definita il poeta, con pochi temi cari, ripresi in circonlocuzione, dove ritornano parole come «sillaba» (unità minima dove si raggruma qualcosa di essenziale), «istante» (già ricordata prima), «adolescenza»: queste le «tre rocche basilari dove far partire il flusso dei versi».
Di Milo De Angelis abbiamo goduto i versi, profondi, lirici, scavati; la lettura, pausata, affannosa, sincera; abbiamo assaporato anche il silenzio, tra alcuni fonemi ed altri, perché erano silenzio di raccolta intima, cavità che accoglie e lascia depositare suoni e significati: in chiusa, l’uomo e poeta ha ricordato, che nei suoi versi - che nascono dalla vita - c’è (pur raramente) «l’agguato della gioia», poiché il «riconoscimento» porta alla «riconoscenza»: qualcosa che ci doveva essere e ci aspettava al valico.
Due ore dense quelle trascorse con «un povero fiore di fiume/ che si è aggrappato alla poesia» che ha condiviso con molti giovani la sua scialuppa.
 
 Milo De Angelis 
Milanese, classe 1951, De Angelis, da metà anni Settanta ha scritto alcune fra le più significative sillogi della poesia italiana: Somiglianze (1976), Millimetri (1983), Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999), Tema dell’addio (2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (2011), Incontri e agguati (2015).
Ricordiamo inoltre in narrativa la sua «fiaba» La corsa dei mantelli (1979) e, per la saggistica, Poesia e destino, Cappelli, Bologna 1982; ha tradotto, fra gli altri, da Baudelaire, Blanchot, Racine, Lucrezio (quest’ultimo, come ribadito nell’incontro all’Università, autore col quale sente molte consonanze, un misterioso pensatore e lirico che «ha gettato ponti verso la modernità»).
 
 Questa morte è un’officina 
Ci lavoro da anni e anni 
conosco i pezzi buoni e quelli deboli,
i giorni propizi, la virtù
di applicarsi minuto per minuto e quella
di sostare, sostare e attendere
una soluzione nuova per il guasto.
Vieni, amico mio, ti faccio vedere,
ti racconto.
 
Tutto cominciò in una cameretta
con i regali e le candeline
che in un soffio spensero mio padre
fermo nella sua giacca per sempre
e un cerchio di puro niente mi assalì
in un solo attimo franò sul tavolo
e mi mostrò cento di questi giorni.
………………………………………………..
…………………………………………………
Nel 1967, dopo una lunga guerra
di trincea, dopo una guerra di metri
guadagnati e persi, iniziai
una trattativa con la morte.
Iniziai dunque a trattare, sì, a trattare
ma lei recalcitrava, negava la firma,
si dava per dispersa e riappariva sul più bello
nella vela di una carezza o nella voce
che indicava lassù un’orsa favolosa
era lei con un sapore di mandorle bruciate
iniettava nell’alba il suo buio primitivo.
 
Con la morte ho tentato seriamente
per un po’ è stata buona
ha rinunciato al suo impero universale
ha cominciato a muoversi caso per caso
ha lenito alcuni sussulti con il suo unguento
poi ha cominciato a intonare
una canzone cantata in re.
 
Con la morte ho cercato ancora
un patto, ma lei era astuta e discontinua
appariva nei traffici dell’amore,
diventava giallore e numero fisso
era il respiro e l’artiglio nel respiro
un’ora murata
galleggiava nel fradiciume della vasca.
 
Poi, di colpo, un lunedì di febbraio
tutto è tornato come prima… è uscita
dal suo feudo,
ha fatto incursioni, all’alba,
nella casella della posta, ha ripreso
la sua cerimonia incessante, ha diffuso
un canto di puro gelo
ha cercato proprio noi.
 
E ha cominciato a parlare,
quella figura plenaria,
come il capobranco della nostra fine
soffocava il lievito felice,
affondava con il piede la barca
infantile di due foglie
ci lanciava il suo avvertimento.
 
“Sarai una sillaba senza luce,
non giungerai all’incanto, resterai
impigliato nelle stanze della tua logica”
“Sarai la crepa stessa
delle tue frasi, una recidiva,
una voce deportata, l’unica voce
che non si rigenera morendo”
“Morirai invaso dalle domande
correndo contro vento a braccia tese
ricordando il tepore della sorridente
scaverai nella miniera dell’ultimo vederla
formerai a poco a poco la parola niente”
 
Ero divenuto ormai l’incarnazione
di ciò che perdiamo, in me si raccoglieva
tutto ciò che a poco a poco viene radiato
non prendevo più nota del giorno e dell’ora
mi assentavo
dall’antico fenomeno del mondo.
 
Nessuno, morte, ti conosce meglio di me
nessuno ti ha frugata in tutto il corpo
nessuno ha cominciato così presto
a fronteggiarti… tu nuda e ribelle alla farsa
delle preghiere… tu mi hai rivelato
il pungiglione delle ore perdute
e la malia di quelle che mi attendevano felici
e senza dio… in un’area di rigore… laggiù…
nel fischio micidiale del minuto.
 
C’era un oracolo sepolto
non capivo le parole
ma una viola bronzata e velenosa
entrava in quel momento freddo
in quel mormorio
di indizi e milligrammi
era la nostra orbita colpita
come una discordia
nel cuore della prima volta.
 
Non puoi immaginare, amico mio, quante cose
restano nascoste in una fine, non puoi
capire il pietrame triturato
che diventa la tua vita
eppure era bella, lo ricordo, era quella
che il vigore cosmico chiedeva, una giovinezza di frutteti,
l’arte suprema che mia madre augurava.
 
Non so, credimi, se riuscirò. Ascolta,
vienimi vicino, posso dirti che il sangue
zampilla scuro ma non riesco a cancellarmi
c’è un silenzio fatato che in me respira,
un sussurro di quaderni scritti a mano
e la parola precisa, dio mio, quella parola
che alla trincea della fine mostrò un frutto.
 
Ho cercato il punto fermo
che fissa un confine
e non lo supera
ma fu inutile: altri saliscendi
della mente, altre maree
travolsero il nostro puntaspilli,
ci gettarono nel sangue.
 
Vicino alla morte tutto è presente
non c’è infanzia né paradiso
tu cadi in un urlo segreto
e non parli
cerchi un arcano
e trovi solo materia, materia
che non trema e ti guarda impassibile
e avvicina muta i due estremi.
 
Ogni frutto ha un tremore
e da quelle antiche terre mi raggiunge
ora sono il precipizio di me stesso
e a poco a poco la vita
s’impiglia nella sua fine per sempre.
 
Sono in un segreto frastuono
sono in questo cortile d’aria
e ogni parola di lei violaciocca
mi fa pensare a ciò che sono
un povero fiore di fiume
che si è aggrappato alla poesia.
 
Milo De Angelis, da «Incontri e agguati», Lo Specchio Mondadori, Milano, 2015.

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