Il libro di Giacomo Santini, «Quanti sassi nelle mie scarpe»

La storia di un successo che molti, nella sua adolescenza, avevano cercato di impedirgli – Di Guido de Mozzi

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Anni fa, leggendo un libro sulla storia di Gandhi, giunsi a un passaggio che non dimenticherò mai.
Il futuro leader stava camminando su un marciapiedi di Pretoria, in Sudafrica, quando gli si parò davanti un soldato inglese che, brandeggiando il fucile come una clava, buttò Gandhi giù dal marciapiedi.
«I marciapiedi sono per gli uomini bianchi!» – Lo ammonì il militare.
Mi sentii come se avessi ricevuto io un colpo nello stomaco col calcio del fucile. Questo perché sono un uomo bianco anch’io e quel disgraziato di militare lo aveva discriminato violentemente anche a nome mio.
 
Ho raccontato questo episodio perché mi è capitata la stessa cosa leggendo il libro di Giacomo Santini intitolato «Quanti sassi nei miei sandali».
La famiglia Santini - papà, mamma e tre bambini - originaria di Bologna, era costretta ad abitare in uno stanzone unico che la proprietà della SLOI gli aveva messo a disposizione in quanto assunto come guardia privata per la sicurezza dello stabilimento. Il papà era un ex carabiniere.
Quando un conoscente si trasferì da Trento a Roma, lasciando libero il suo appartamento che gli era stato affittato dalle Case Popolari, l’uomo suggerì ai Santini di trasferirsi a casa sua in subaffitto, situata in via Oberziner, a Cristo Re.
Ai Santini sembrava di aver toccato il cielo con un dito perché per la prima volta vedevano la possibilità di vivere decentemente.
Si trasferirono nella nuova casa, portandosi dietro le proprie cose, compresi i materassi.
Ma pochi giorni dopo, verso le 21, si presentò alla porta il presidente delle Case Popolari che, accompagnato dalla Polizia, li cacciò di casa malamente mettendoli sulla strada tutti cinque: papà, mamma e i tre bambini.
«Basta esser Tagliani dalla coa per far 'ste robe!» – Li ammonì severamente.
Buttò fuori anche i materassi.
 
Provai la stessa orribile sensazione vissuta leggendo l’episodio di Gandhi: un pugno nello stomaco e la voglia di vomitare.
Sì, perché io sono trentino e quindi quel disgraziato aveva parlato anche a nome mio.
Questo non è stato l’unico episodio vergognoso che Santini racconta nel suo libro, ma certamente è il sasso più grosso che ha voluto togliersi dai sandali.
Sono tutti episodi che io, di poco più giovane di Giacomo, ho vissuto indirettamente ma toccandoli con mano. Solo che lui era figlio di nessuno, io ero figlio di papà. Papà non mi ha mai aiutato, sia ben chiaro, ma essere suo figlio mi ha aiutato spesso. Quantomeno nessun maestro delle elementari mi ha mai riempito di botte come accadeva con i poveracci.
 
La mia famiglia era agiata, ma è sempre stata altruista. Ha sempre aiutato chi ne aveva bisogno. Ha sempre dato da mangiare a chi aveva fame (allora non ce ne era per tutti). Abitavamo alla Vela e non c’erano automezzi pubblici e mia madre, unica ad avere auto e patente, ha sempre portato in città chi ne aveva bisogno. E a scuola riempiva la macchina di ragazzini insieme a me e mia sorella.
Ma la verità è che c’era anche gente come quello scellerato che ha buttato in strada i Santini di notte con tre bambini piccoli. I «caporali» generati dal fascismo c’erano ancora e non guardavano in faccia a nessuno. O meglio guardavano in faccia solo i trentini, quelli potenti. Facevano i forti con i deboli e i deboli con i forti.
Mio padre e mia madre mi avevano sempre insegnato che l’uomo è sempre un uomo. E io me lo sono sempre ricordato.
 
Per questo leggere la storia dei primi 15 anni di vita di Giacomo Santini mi ha colpito e mi ha spinto a leggere con avidità quello che successe dopo.
Giacomo non ha mai avuto spirito di rivalsa, di vendetta. È sempre stato positivo e ha cercato di superare le difficoltà da solo, con le proprie forze, con la propria capacità. In barba alla professoressa delle medie che aveva chiaramente avvisato i suoi studenti «figli di nessuno» che non avrebbero avuto possibilità.
Quella professoressa classista la ebbi anch’io. Mi mandò a ottobre di italiano tutti gli anni e spiegò a mia madre che non avrei mai imparato a scrivere. Ma, francamente, non mi aveva mai insegnato a scrivere.
Sia per me che per Santini, quella professoressa non ne azzeccò una.
 
Un libro da leggere. Ma, meglio ancora, si consiglia di andare alle conferenze che Santini tiene per presentare pubblicamente il suo libro. Ci sarà modo di fargli domande, di parlarne, e così via.
E, visto che ho scritto un libro analogo anch’io, chissà che prima o poi non ci si trovi insieme a parlare della propria vita e dei sassi che hanno riempito le nostre scarpe. Senza peraltro impedirci di camminare.

Guido de Mozzi