«I libri sono la medicina dell’anima» – Di Guido de Mozzi
Oggi è il 23 aprile, Giornata mondiale del libro: ecco alcune istruzioni per l'uso
Ho avuto la fortuna di avere un padre scrittore, con una biblioteca di 10.000 libri.
E il motto che si leggeva per entrare in biblioteca recitava: «I libri sono la medicina dell’anima», frasetta che non ho mai dimenticato.
Questo non significava che mi fossi messo a leggere tutto e subito, però il materiale di consultazione iniziai a usarlo già alle medie per fare i compiti: ci davano da scrivere relazioni oggi su un tema, domani su un altro.
Quasi tutti i miei compagni di classe dovevano andare in biblioteca civica a fare ricerca, mentre io avevo la fortuna di entrare nella mia biblioteca e sfogliare una delle tre enciclopedie: la Motta, la UTET e la Treccani.
Trovai singolare che ognuna di queste offrisse una versione diversa, ma in sostanza arrivavano allo stesso assunto.
Scoprii che perfino i vocabolari davano risposte diverse e mio padre mi spiegò che la lingua è dinamica: cambia di generazione in generazione e di conseguenza cambiano anche i dizionari. Mio padre consultava il Palazzi, io il Devoto Oli, oggi entrambi obsoleti. Anzi, si cerca su Google...
Ciononostante, la professoressa di italiano e latino delle medie un giorno annunciò a mia madre andata a udienza: «Suo figlio non imparerà mai a scrivere».
In realtà sono poi diventato giornalista e scrittore, ma devo ammettere che imparai a scrivere solo in quarta ragioneria. Perché? Non lo saprò mai.
Un giorno, in una conferenza stampa un insegnante di italiano mi spiegò che non si può insegnare a scrivere. «Noi diamo le armi, gli strumenti, la cultura, ma è l’individuo che deve mettere insieme le cose e provare».
A leggere imparai prima che a scrivere. Un giorno, un compagno di classe delle medie mi disse di aver letto «Uno Studio in rosso» di Arthur Conan Coyle. Mi spiegò che personaggio fosse Sherlock Holmes – una specie di supereroe di fine Ottocento – e la cosa mi intrigò.
Chiesi a mio padre se avevamo libri di Conan Doyle e lui mi indicò lo scaffale con la serie intera. Una cosa fantastica!
Quando li terminai, domandai a mio padre cosa leggere e lui mi rispose senza esitazione: «Arsenio Lupin», il ladro gentiluomo. Lessi anche questi con avidità, è quel Lupin era tutt’altra cosa rispetto al cartoon che oggi circola nelle televisioni per ragazzi. Quello di allora era un ladro gentiluomo che rubava ai ricchi senza dare i soldi ai poveri, però era generoso…
Come ho detto, sia Lupin che Holmes avevano un cervello finissimo, da supereroi. Allo scoppio della Grande guerra si misero a disposizione del proprio Paese. E così cominciai a leggere la Prima Guerra mondiale.
Da allora continuai a leggere un po’ di tutto, senza chiedere a mio padre: un libro tirava l’altro. Con un principio: se non passavo il primo capitolo lo chiudevo e ne aprivo un altro.
E così, a tutt’oggi, non riesco ad andare a letto senza un buon libro da leggere, a qualsiasi ora vada a letto. Quando cascano gli occhi lo chiudi e buonanotte.
Per onor del vero, devo aggiungere che di tanto in tanto leggevo Tex Willer, che aveva preso il posto di Topolino. Dopo un libro impegnativo, magari una biografia storica, il fumetto è un ristoro per la mente. Ma senza perdere il vizio di scrivere: qualche storia l'ho scritta anche per i personaggi dei fumetti.
Per imparare a scrivere è stato importante aver imparato a leggere. Ma soprattutto deve essere stata la logica della ragioneria a mettermi sulla strada giusta. Per scrivere una lettera commerciale devi essere preciso, chiaro, sintetico, pragmatico, devi saper descrivere quello che proponi, senza usare troppe parole. Devi seguire una traccia ben precisa e riportare tutto il necessario. Stessa cosa per le relazioni di bilancio.
Ovviamente non è ammesso neanche il minimo errore. Quante volte ho fatto rifare le lettere perché contenevano un piccolo errore!
Poi, con i computer, ho iniziato a scrivere le lettere da me. Ed è qui che è nata la voglia di scrivere libri.
La cosa più bella dello scrittore è che… puoi andare fuori tema: il titolo lo metti tu, alla fine. E poi il poter inserire la tua fantasia sulla portante della pragmatica dello scrivere è fantastico! Qualche giornalista, ahimè, lo fa anche scrivendo un articolo...
Iniziai a prendere appunti sulle battute che sentivo o che pronunciavo, così quando scrivevo inserivo queste «citazioni» come se fossero state inventate dal personaggio.
D'un tratto nasce la storia, l’avventura, la fiction. Deve avere una testa e una coda, per poi inserire nel mezzo la vicenda, che deve essere importante. I miei personaggi sono figure di persone che conosco, così ho già la descrizione del carattere e riesco a capire come reagiscono.
Il primo capitolo seve essere scritto in modo che chi ti legge non lo chiuda e poi ognuno deve finire con un invito a leggere quello successivo.
Infine, il messaggio che vuoi lasciare al lettore. Non è detto che ti venga subito, ma alla fine il messaggio viene fuori, da solo.
A volte ti emozioni a leggere quello che hai scritto. D’altronde, come amo dire spesso, il libro si scrive da solo. I personaggi e le situazioni vanno avanti in una logica tutta loro. La finale però è tua: sei il maestro della loro vita.
Qualcuno dice che ci sono più scrittori che lettori. Forse è vero, ma io invito comunque la gente che ne ha voglia di scrivere. E taluni mi chiedono di leggere quanto hanno scritto.
Se trovi strafalcioni devi avere il coraggio di dirgli che non va bene, senza usare i termini della mia professoressa di italiano.
Il difficile invece è trovare l’editore. L’editore di oggi non legge più i manoscritti (mi si passi il termine) di autori sconosciuti. Forse è vero che gli autori sono troppi, ma un tempo gli editori pagavano dei collaboratori specializzati affinché li leggessero. Adesso non più.
Mondadori – per non far nomi – preferisce versare 100mila euro a fondo perduto a un autore di successo piuttosto che rischiarne qualche migliaio per uno sconosciuto. Perderanno occasioni, ma non tempo e denaro. Un delitto.
Un editore che ha un negozio anche Trento fa rispondere agli autori in erba di essere interessato solo ad argomenti sulla realtà locale. I romanzi puoi gettarli nel cestino.
Il mio primo libro lo pubblicò l’ormai scomparso Sergio Bernardi, allora editore di UCT. Lo lesse, se ne intrigò e decise di pubblicarlo per poi trovare un produttore cinematografico che ne facesse un film.
Beh, a lui toccò la stessa cosa: non trovò un solo produttore disposto neppure a leggere il mio libro per vedere se poteva diventare un film. Amen.
Oggi i libri escono anche in formato elettronico, per tablet. Ma la carta per i libri è ancora insostituibile. D'altronde, in spiaggia non porterei mai il tablet.
Una sera di qualche anno fa, stavo scrivendo uno dei miei racconti nel giardino interno di un albergo sul mare in Toscana. Dall’altra parte del giardino un animatore intratteneva i bambini con dei giochi. Non mi dava fastidio, anzi, i bambini sono la vita e la vitalità.
Ad un certo punto l’animatore proclamò un vincitore e lo invitò al microfono.
«Cosa vuoi fare da grande?» – Gli domandò dopo avergli chiesto di presentarsi.
«Lo scrittore!» – Rispose senza esitazione.
Molti risero, pochi applaudirono. Non avrebbe voluto fare il pompiere o il pilota. Voleva diventare uno scrittore. Roba da matti.
Mi emozionai, pensando che «finché c’è voglia di scrivere c’è speranza».
G. de Mozzi