Pierluigi Bersani, le tappe di una disfatta – Di G. de Mozzi

Dopo il flop di Romano Prodi (più di 100 franchi tiratori) si è dimesso da segretario PD

Pochi avevano le chance di Bersani per divenire presidente del Consiglio dei Ministri, ma pezzo a pezzo ha perso l’occasione della sua vita.
Dopo le primarie vinte alla guida del PD, Bersani non aveva vinto le elezioni politiche, trovandosi sì in testa ai pretendenti, ma con uno scarto minimale e soprattutto con un senato inesistente.
Nelle sue trattative per tentare la formazione di un governo ha cozzato contro l’intransigenza dei Grillini e contro la propria dignità che gli ha impedito di trovare un accordo con Berlusconi. E nei suoi commenti dava la colpa a entrambe le formazioni avversarie che non avevano voluto appoggiarlo «al buio».
In realtà, solo lui pensava di potercela fare appellandosi al senso civico degli altri partiti, come se quella manciata di voti in più valesse la fiducia di per sé.
 
Accertato che non sarebbe stato possibile formare un governo, Napolitano ha atteso la fine del proprio mandato e consentire così alle formazioni politiche di trovare il nome giusto della persona che avrebbe dovuto sostituirlo al Colle.
Il quale nuovo presidente, verosimilmente, avrebbe sciolto le camere per adire a nuove elezioni. Ma in alternativa non era poi escluso che la scelta di un nome condiviso per la Presidenza della Repubblica non portasse anche il buonsenso e nuove aperture politiche.
Alla ricerca di un nome che stesse bene a tutti, Bersani ha però sbagliato un po’ tutti i conti.
Dapprima ha approvato la nomination di Marini, per qualche ragione accettata da Berlusconi, sollevando le ire del suo partito. Il PD infatti ha risposto votando in maniera difforme dalle direttive del partito, bruciando così Marini.
 
A quel punto Bersani doveva preoccuparsi più a salvare l’unità del suo partito, prima ancora che all’unità del paese. Ecco dunque la scelta di candidare Prodi alla presidenza della Repubblica.
Ma Berlusconi l’aveva detto più volte: quel nome avrebbe fatto dissotterrare l’ascia di guerra.
Il che è avvenuto puntualmente, ma con un’aggravante in più: il PD non ha accettato neanche Prodi.
Il rifiuto di Prodi può risalire a decine di motivazioni, una più autorevole o più banale dell’altra, ma la spaccatura andava a collocarsi sostanzialmente sul segretario stesso del PD, Bersani.
Insomma, il suo partito non lo vuole più alla guida. Troppi errori, troppe gaffe.
Accertato che con le proprie forze Bersani non sarebbe riuscito a far eleggere Prodi, non gli è rimasto che rassegnare le dimissioni.
 
Anche le dimissioni peraltro pasticciate, perché diverranno operative «un minuto dopo l’elezione del Presidente». Insomma, dopo di lui il diluvio.
Un partito da ricostruire, un congresso che dovrà trovare una guida unica in una formazione politica non molto tempo fa solidissima e ora lacerata da molte soggettività e volontà spesso divergenti e in concorrenza.
Insomma, che succederà adesso, se questo Parlamento finora non è riuscito neppure a eleggere il Presidente della Repubblica?
 
Beh, ci sono ancora molti bei nomi non bruciati.
Rodotà è un uomo che si meriterebbe la Presidenza della Repubblica, e francamente non comprendiamo perché il PD non lo abbia voluto appoggiare.
Adesso forse emergerà il nulla osta anche dal PD.
Ma ci sono altri nomi estremamente papabili. Non li nominiamo perché anticiparli ha sempre significato bruciarli. Ma secondo noi già domani il Parlamento potrebbe trovare la giusta combinazione, trovando la quadra in quei nomi che altre formazioni hanno avanzato come chiari messaggi per l’immediato futuro.
Speriamolo, perché – come abbiamo detto più volte – l’Italia sta boccheggiando e nessuno sta pensando a rianimarla.
 
GdM