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La grande sfida del Piano italiano di ripresa e resilienza

Il confronto tra Gloria Bartoli (Osservatorio produttività benessere), Luigi Paganetto (Università Tor Vergata) e Alessandro Giordani (Commissione europea)

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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza? Una sfida da vincere.
Nell’ambito della 17esima edizione del Festival dell’economia di Trento, ne hanno parlato il segretario generale dell’Osservatorio produttività e benessere Gloria Bartoli, l’economista dell’Università di Roma Tor Vergata Luigi Paganetto e Alessandro Giordani, head of Unit networks in the member States della Commissione europea.
Termine ormai entrato nel linguaggio collettivo, il Pnrr racchiude un grande tasso di innovazione.
«Il Next generation Eu ed i Pnrr messi a punto dai diversi Paesi sono figli di un cambio di paradigma rivoluzionario: è stato sfondato il tabù del debito pubblico Ue, che servirà anche per affrontare altre necessità impellenti nel post Covid» – ha osservato Giordani nel suo intervento introduttivo, parlando della fine dell’epoca dell’austerity.
 

 
La concessione dei 192 miliardi di euro a disposizione dell’Italia nell’ambito del Next generation Eu, su un totale di 750 miliardi (l’importo è stato concesso sulla base dei bisogni effettivi dei singoli Paesi: il Pnrr tedesco, ad esempio vale 25 miliardi) è subordinato all’approvazione di riforme strutturali - con una tempistica stringente - e al raggiungimento dei risultati.
«L’Unione europea evolve in virtù dei periodi di crisi che affronta e il Covid - che l’intero pianeta è stato chiamato a gestire - rappresenta dunque un passaggio storico» – sono state le parole di Giordani. Così è stata messa a punto della nuova governance.
Le cosiddette «Riforme abilitanti» sono una precondizione da soddisfare per spendere in maniera efficace i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Per quanto riguarda l’Italia, 51 sono le riforme previste: giustizia e Pubblica amministrazione le principali.
«Affinché l’innovazione tecnologica si traduca in produttività e crescita, servono istituzioni efficienti e la Pubblica amministrazione in Italia è rallentata, tra le altre cose, da una giustizia penale particolarmente intrusiva» – ha spiegato Bartoli (Osservatorio produttività benessere), che ha dunque approfondito proprio il tema della giustizia, parlando della durata dei processi come un indicatore che vede l’Italia agli ultimi posti.
Nel nostro Paese la media è di 8 anni, mentre negli Stati Uniti questo percorso si riduce a qualche settimana o al massimo a pochi mesi.
 

 
«Questi tempi hanno gravi ripercussioni sulla nostra economia» – ha aggiunto, evidenziando come la riduzione dei processi del 40% entro il 2026 - prevista dalla riforma Cartabia - rappresenta un obiettivo modesto. – «Nessun target sarà raggiungibile senza una giustizia che permetta a questa rivoluzione di avere luogo, consentendo la realizzazione degli investimenti previsti.»
Infine, la riflessione del professor Paganetto dell’Università Tor Vergata, secondo il quale la struttura complessiva del Pnrr italiano non va cambiata.
Nonostante l’aumento dei prezzi ai quali assistiamo: «Il Piano è valido nei contenuti, perché rappresenta un potenziale di crescita legato non solo alla spesa.
«L’Italia fatica ad adeguarsi ai processi di cambiamento, ma serve una scossa perché con l’attuale calo della natalità, nel 2050 il Pil italiano rischia di subire una flessione dell’8%. È dunque necessario intervenire su produttività e forza lavoro.»

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