ISIS: Non solo youtube – DI Luca Bregantini

Il potenziale dei graffiti e della «street art» nella propaganda jihadista - Una pregevole analisi semiotica della comunicazione del cosiddetto Stato Islamico


 
Sotto il profilo sociologico, l’utilizzo dei graffiti nella strategia comunicativa dello Stato Islamico e di altre organizzazioni terroristiche può essere considerata un’azione razionale rispetto alle finalità perseguite dai gruppi per diverse ragioni.
Innanzitutto perché i graffiti, a prescindere da chi ne sia l’autore, se si presentano nella loro forma più elementare, ovvero quella del mero segno simbolico, o delle pure e semplici scritte che imbrattano muri e finestre, vengono generalmente considerati atti di vandalismo minori e, dunque, non attirano l’attenzione delle agenzie di intelligence, dei servizi di sicurezza e degli organi investigativi.
Inoltre, anche quando si presentano nella loro versione più iconografica e colorata, soprattutto tra i giovani, i graffiti godono di un’accezione generalmente positiva.
 
Le grandi lettere stilizzate che colorano i muri delle periferie o dei quartieri più degradati, infatti, sono per lo più accettate socialmente come una normale modalità di espressione sociale, se non in certi casi considerate come una vera e propria forma d’arte.
In quest’ultimo caso, certi graffiti sono considerati realizzazioni pittoriche meritevoli di per sé della nostra attenzione, sia per la loro forma espressiva, il writing, che per la loro intenzionalità sociale di denuncia o rivendicazione politica.
Se l’accettazione del writing è la premessa, il rischio di una possibile confusione tra arte e propaganda terroristica, almeno all’interno di determinati contesti, può invece costituire una concreta minaccia.
 
Sotto il profilo iconografico, infatti, il ricorso a “bubble letters” colorate, a combinazioni cromatiche accattivanti e ad un linguaggio in linea con certe culture giovanili, può rischiare di rendere accettabili, se non addirittura appetibili, simboli o acronimi il cui significato rimanda ad orrori e violenze della più atroce crudeltà.
Se un contenuto violento viene edulcorato da una veste artistica, il rischio è che l’apprezzamento sociale di quel contenuto si allarghi progressivamente a cerchie di simpatizzanti sempre più ampie, facilitando in alcuni casi la stessa politica di reclutamento delle organizzazioni jihadiste.
E questo rischio è tanto più marcato allorquando ci si confronti con una jihad globalizzata come quella dello Stato Islamico, che sa sfruttare a proprio vantaggio la molteplicità e la sovrapposizione dei linguaggi espressivi della contemporaneità.
 
Se questa è la premessa, la realtà fattuale ci presenta numerosi casi in cui le ambiguità di fondo di una realtà estremamente viva moltiplicano a dismisura la complessità del rapporto tra jihad e graffiti.
Un esempio emblematico in questo senso può essere considerato il caso della parola «Jihad».
Nel giugno 2013, questa parola è stata dipinta a grandi caratteri su un muro di circa sette metri d’altezza a Delray Beach, in Florida, mentre a Oakland, in California, un writer il cui pseudonimo è appunto «Jihad», ha dipinto questo “tag” (ossia la sua firma) a caratteri cubitali in diverse parti della città.
Tuttavia, è proprio nella natura controversa del termine, jihad, e nelle motivazioni del suo utilizzo, il nodo della questione. Innanzitutto ci si può chiedere se l’autore dei graffiti abbia solamente voluto commettere un gesto provocatorio con finalità di autopromozione oppure abbia avuto come intenzione manifestare apertamente il suo appoggio alla violenza politico-religiosa di matrice terroristica.
 
Certamente il giovane writer è diventato popolare su internet proprio diffondendo questo tag, dove la componente altamente simbolica del logo e l’ambiguità del suo messaggio lo rende estremamente fruibile nei contesti più diversi.
Proprio qui risiede il cuore della questione: nel rischio che anche un’operazione la cui intenzionalità può essere non violenta, rilanciata via web all’interno di circuiti terroristici si tramuti in un’operazione promozionale del fanatismo jihadista.
E ciò è particolarmente vero dal momento che la lettura dei graffiti come quella di ogni altro marcatore simbolico non può essere fatta a prescindere dal contesto in cui i simboli vengono interpretati.
Se ci si sposta dai muri di Oakland in California a quelli di Ramallah, Nablus o Gaza, graffiti e poster con le effigi dei martiri suicidi alimentano la narrativa jihadista e costituiscono una sorta di imprescindibile arredo dello spazio urbano, contribuendo a costruire la mappa mentale di chi percorre le strade dei villaggi palestinesi.
 
I graffiti e i murales che rivestono parte della barriera di separazione israeliana nella West Bank sono quasi esclusivamente comunicazione politica pura.
Sia quando sono state prodotti da singoli artisti anche dal richiamo internazionale (si pensi alle opere del britannico Banksy) sia quando hanno costituito l’espressione di una vera e propria graffiti warfare alimentata da collettivi organizzati come Hamas o Fatah.
Soprattutto durante le ondate di Intifada i due gruppi politici palestinesi hanno anche utilizzato il linguaggio dei graffiti per contrastare la politica israeliana nella striscia di Gaza, annunciando attacchi e dimostrazioni, rivendicando azioni paramilitari o solamente insultando ed irridendo i soldati israeliani.
 
La costruzione del muro palestinese è iniziata nel 2002. Israele la ha costruito in risposta alla Seconda Intifada per contrastare gli attacchi suicidi palestinesi.
Ma quel muro di difesa è presto divenuto ragione di disagio e sofferenza per la popolazione locale.
È divenuto causa di perdita di proprietà, difficoltà per raggiungere i luoghi di lavoro, separazione tra le famiglie: in quel contesto i graffiti e gli altri marcatori spaziali hanno costituito e costituiscono la quotidiana espressione politica di un malessere sociale profondo di cui Israele è divenuto bersaglio mediatico.
In quella terra chiunque in casa abbia un vaso di colore riversa sul muro la propria rabbia, a prescindere dalla qualità artistica del graffito.
 
E questo è soprattutto libertà di espressione e grido di dolore. Ma altra cosa è il messaggio deliberato con funzioni di propaganda e di rivendicazione politica.
Se questo tipo di messaggi compaiono sui muri della California o di altre nazioni occidentali possono costituire dei potenziali “alert”.
Un primo punto fermo è sicuramente il seguente: i graffiti costituiscono un potente strumento comunicativo, capace di alimentare la narrativa delle culture suburbane, a prescindere dalla loro valenza di denuncia sociale o lotta politica.
In secondo luogo costituiscono un marcatore territoriale estremamente efficace per veicolare le proprie identità.
 
Non deve sorprendere pertanto che i graffiti si prestino ad essere utilizzati non solo dalle gang per connotare il proprio spazio d’azione ma che possano essere utilizzati dallo Stato Islamico anche fuori dal Califfato.
I graffiti ed i marcatori spaziali come le bandiere nere, proprio in quanto costituiscono una manifestazione immediata della propria identità, sono ampiamente usati dall’ISIS per segnare visivamente i territori occupati in Siria ed Iraq rendendoli luoghi dello Stato Islamico.
Tuttavia, quegli stessi graffiti, concepiti nella loro forma più basica e senza pretesa artistica, possono essere rinvenuti anche negli spazi urbani occidentali: negli Stati Uniti, in Canada ed in Europa sono state infatti rinvenuti diversi slogan pro-jihadisti in inglese o arabo accanto ai quali c’era sempre la presenza dell’acronimo ISIS.
 
Quest’ultimo era sempre riprodotto nella sua versione inglese, proprio perché il contenuto del messaggio risultasse universalmente riconoscibile: l’acronimo ISIS, dunque, come brand aziendale e logo della globalizzazione jihadista.
Nei graffiti, l’acronimo ISIS contribuisce in misura determinante all’attribuzione di significato allo slogan, offre identità, unicità, riconoscibilità sempre e ovunque.
La semplice scritta ISIS, nella logica writing, al di là della sua connotazione grafica più o meno appetibile, diviene sempre una sorta di tag, una firma che, comunque utilizzata, definisce precisamente soggetti, gruppi, comportamenti, modi di fare, veri e propri stili di vita.
Il termine ISIS nella narrativa dello Stato Islamico vuole divenire quella griffe capace di denotare il territorio del Califfato anche fuori della Siria e dell’Iraq.
 
Nell’ottobre del 2014, nel quartiere di Lyndale a Minneapolis, è stata realizzata una riproduzione dell’acronimo ISIS in perfetto stile writing. L’opera era accompagnata dall’espressione «will remain», con esplicito riferimento ad uno degli slogan cari all’organizzazione terroristica: «remaining and expainding».
Evidentemente, un riferimento esplicito alla cultura del gruppo fa pensare che il writer possa essere considerato un simpatizzante piuttosto vicino all’organizzazione terroristica.
Si è detto e ripetuto che la quasi totalità dei graffiti pro-ISIS realizzati in diverse parti del mondo non hanno alcuna pretesa artistica né grande appeal estetico.
 
Solitamente questi graffiti, realizzati attraverso elementari scritte o simboli grafici, vengono pubblicamente derubricati come atti di mero vandalismo e godono di scarsa attenzione mediatica.
Vengono quasi esclusivamente presi in considerazione dai servizi di intelligence per svolgere gli accertamenti di rito.
Graffiti basici di questo tipo sono ad esempio apparsi a Washington D.C. nell’ottobre del 2014. In quell’occasione su una telecamera del traffico era comparsa una scritta in arabo la cui traslitterazione è Allah Akbar, seguita dall’acronimo ISIS scritto in caratteri latini.
 
A questo tipo di graffiti senza grandi pretese artistiche vanno ascritti anche gli slogan jihadisti che nel novembre 2015 hanno imbrattato delle rocce presenti presso la Youngstown State University, nell’Ohio.
Dei writers hanno colorato quelle rocce, apponendovi anche slogan come «France deserves destruction, YSU supports ISIS e We are coming for you».
In quell’occasione la direzione della Youngstown aveva immediatamente provveduto a far coprire gli slogan ed a derubricare l’evento come un atto vandalico, uno dei tanti atti vandalici che si sono accaniti nel tempo sulle rocce del Campus.
Graffiti sono stati recentemente rinvenuti anche a Vancouver. Nell’agosto 2016 la porta di un normale palazzo residenziale è stata imbrattata da slogan pro-ISIS. Anche i graffiti canadesi esprimevano slogan anti-occidentali abbastanza generici: «ISIS is here and let the killings start oppure ISIS Fuck all whites, I love and support ISIS, Boom Boom».
 
Come già accaduto altrove in circostanze simili, anche in questo caso le autorità canadesi hanno pubblicamente rassicurato la cittadinanza comunicando congiuntamente che quei graffiti sarebbero stati rapidamente rimossi.
La strategia dei graffiti ha fatto proseliti anche in Europa, soprattutto nel mondo nordico.
Nella città svedese di Gothenburg, nell’ottobre 2015, sul muro esterno di due esercizi commerciali, un ristorante-pizzeria ed una panetteria di proprietari siriani cristiani (Assiri), sono stati rinvenuti slogan come «the caliphate is here oppure convert or die».
In questo caso, oltre al tradizionale repertorio fraseologico dello Stato islamico, si è anche utilizzato il linguaggio simbolico, ossia si è fatto ricorso alla lettera «ن», che in arabo costituisce il corrispettivo della «N» latina.
 
Questo simbolo è stato utilizzato dai miliziani dell’ISIS in Iraq per indicare le case dove risiedevano cristiani.
Il gesto di marcare le porte delle case con una lettera è un evidente richiamo ad una metodica antichissima di marchiare categorie «indesiderate», la cui ultima manifestazione su larga scala risale alla Germania Nazista, quando le case, le attività commerciali e gli stessi membri della comunità ebraica erano marchiati con la Stella di David.
Che un evento di questa natura abbia poco a che fare con l’arte va da sé, tuttavia non deve meravigliare più di tanto che sia capitato a Gothenburg, giacché il centro svedese, nonostante non raggiunga neppure i 500mila abitanti, è uno degli hub europei del terrorismo jihadista.
 
Per indicare l’importanza strategica che Gothenburg riveste per il Califfato, basti pensare che solamente nel 2015 ben 150 jihadisti hanno lasciato la città svedese per unirsi allo Stato Islamico in Siria ed Iraq.
In questo caso, l’aggressione simbolica non era generica ma palesemente rivolta contro la comunità assira della città, in modo del tutto analogo a quanto era precedentemente accaduto a Mosul in Iraq.
Sempre nell’area nordeuropea, anche in Olanda, a Voorburg, nell’agosto 2016 decine di automobili e muri di case sono stati ricoperti da scritte antisemite ed antioccidentali.
Oltre a slogan dal contenuto abbastanza generico, come «Jews will die e 7 September 2016 attack», questa volta ce n’è stato un altro molto più preoccupante che ha riguardato direttamente il politico olandese Geert Wilders.
 
Come nel caso precedente anche in Olanda si è utilizzato il linguaggio simbolico anticristiano della lettera araba «ن». Come i cristiani di Gothenburg e Voorburg anche quelli di Helsinki sono stati oggetto di violenza simbolica.
Nel settembre 2013, infatti, anche in Finlandia si sono registrati atti vandalici contro una chiesa cristiana: questa, nel giro di un mese è stata ripetutamente presa di mira con graffiti e le sue finestre sono state ripetutamente imbrattate con i slogan antioccidentali come «Alluha Akbar, Jesus is a Muslim e Islam is the Answer».
Può essere interessante il parallelismo tra i graffiti scandinavi e olandesi con quelli prodotti da gruppi di ispirazione wahabita attivi in Pakistan.
 
Anche qui, infatti, sono stati oggetto di aggressione mediatica non solo gli hindu e l’India, ma anche i cristiani, gli ebrei, Israele e gli Stati Uniti. Tuttavia, nel caso pakistano, ad essere oggetto di una «warfare graffiti» particolarmente feroce, è stata soprattutto la comunità sciita.
Sui muri pakistani si sono lette frasi di questo tenore: gli sciiti sono infedeli, uno sciita è il peggior infedele, gli sciiti dovrebbero essere espulsi dal Pakistan.
Nella strategia comunicativa del terrorismo islamico, e dell’ISIS in particolare, i graffiti vanno a costituire un vero e proprio strumento tattico da impiegare accanto ad altri nelle azioni di propaganda.
 
In particolare si è osservato come i graffiti, siano essi concepiti sia nella versione bubble, più artistica e pertanto più subdola, che nella loro versione basica, ovvero quella di mero atto vandalico, essendo dotati di immediata efficacia comunicativa e fruibilità, possono aver presa particolarmente su un audience giovanile.
Essi, in quanto marcatori simbolici, ben si prestano per rappresentare la narrativa del potere dello Stato islamico nello spazio e sullo spazio nel Califfato e soprattutto fuori da esso.
Questa attenzione deve essere prestata soprattutto qualora si presentino in una veste artisticamente appetibile, il contenuto di acronimi e tag risulti edulcorato dall’utilizzo di colori vivaci e da bubble letters.
 
Al di là del ruolo che potenzialmente possono giocare nell’azione di recruiting tra i giovani, soprattutto nel caso in cui vengano rilanciati in modo virale sul web, i graffiti jihadisti possono costituire una terra di mezzo estremamente sdrucciolevole, in perenne oscillazione tra la sfera della rivendicazione politico-sociale, quella del mero vandalismo e quella di una deliberata strategia comunicativa di matrice terroristica.
La prima sfera, quella delle opere di rivendicazione politico-sociale, è quella tipica della street art che circonda la Barriera di separazione in Israele, in cui alle rivendicazioni degli artisti locali più o meno simpatizzanti del jihad si sovrappongono gli interventi libertario-pacifisti di artisti di fama mondiale.
La seconda sfera, quella del vandalismo, include tutti quegli atti che utilizzando acronimi e slogan simbolicamente carichi operano un mero danneggiamento di porzioni di spazio pubblico senza perseguire deliberati fini terroristici.
 
Almeno a livello concettuale e teorico il vandalismo va tenuto nettamente distinto dall’ultima sfera, quella della intenzionale propaganda propria di tutte le organizzazioni terroristiche.
Proprio perché il rischio maggiore é che nelle rivendicazioni mediatiche di strada la denuncia politico-sociale dei singoli e dei collettivi si confonda con la propaganda terroristica ogni qual volta sui muri delle nostre città compaiono dei messaggi visuali o simbolici, con forme grafiche appetibili e colorate o come elementari e crude scritte a spray si devono sempre affrontare almeno tre ordini di problemi. Innanzitutto va effettuata un’analisi approfondita della natura dei graffiti.
I graffiti vanno letti e interpretati all’interno del contesto in cui sono prodotti.
 
Il segno non è mai neutro ed ha sempre un significato: per questo va contestualizzato nello spazio e nel tempo, bensì va relazionato ad eventi e situazioni.
L’interpretazione del segno ci rimanda al secondo ordine di problemi: chi lo ha eseguito e soprattutto perché, con quali obiettivi è stato realizzato, ideologici e meramente propagandistici o per fini tattico-operativi.
Infine, quale sia il reale impatto di questi messaggi grafici ai fini del reclutamento.
Ad ogni modo, un’attenta osservazione e comprensione degli spazi urbani può favorire una efficace azione di contrasto alla propaganda terroristica, troppo spesso confinata all’interno dei confini della virtualità.
 
Luca Bregantini
(Ce.S.I.)