Cinquant’anni fa, in autostop per vedere il Muro di Berlino
Un viaggio d'altri tempi: partiti da Trento per andare al Charlie Point – Lo raccontiamo affinché i giovani sappiano cos’era l’Europa di allora
Guido de Mozzi, Grazia Corradini e Mauro Finotti a est della Brandeburger Tor.
Questo viaggio l’avevamo già pubblicato nel 2009, ma poiché oggi ricorre il 50esimo anniversario di quella incredibile avventura, abbiamo deciso di raccontarlo di nuovo.
Ci sembra giusto infatti che i giovani imparino alcune cose.
La prima è che l’Europa di oggi, per quanto lontana dagli obiettivi dei padri fondatori De Gasperi, Adenauer e Schuman, ha comunque fatto passi da gigante. Nella vicenda raccontata si troveranno situazioni che oggi possono sembrare assurde e incredibili, ma così era. E neanche troppo tempo fa.
La seconda è che oggi è molto più facile viaggiare… Non erano ancora cominciati i lavori dell’Autostrada del Brennero ed eravamo partiti in autostop da Via Brennero. Provate a pensare ai genitori di oggi che accompagnano i figli, anziché alla stazione dei treni, alla periferia nord della città, li abbracciano e se ne vanno. Con una raccomandazione: «Se vi trovare in difficoltà, cercate l’Arcese: c’è sempre un loro camion che torna in Trentino».
La terza è che l’avventura di allora faceva parte del DNA di noi ragazzi del secondo dopoguerra. Il mondo era tutto da scoprire. Le incognite erano tante, ma sapevamo che saremmo riusciti ad affrontarle e superarle. In qualche modo avremmo fatto. Senza voler fare paragoni irriverenti, se Colombo avesse voluto viaggiare sul sicuro, non avrebbe mai scoperto l’America.
Era il 1967.
Il Muro di Berlino era stato eretto nel 1961 con il nome ufficiale di «Muro di protezione antifascista». Costruito in cemento armato, era lungo 155 km, era alto 3 metri e 60, largo un metro e mezzo.
L’anno dopo venne costituito un secondo muro parallelo in modo che in mezzo si trovasse la cosiddetta «striscia della morte».
Costruito per impedire l’esodo dei Berlinesi orientali nei settori occidentali della città, divenne presto il simbolo della Cortina di Ferro.
Fu «migliorato» negli anni e già nel 1965 subì un primo adattamento funzionale per impedire le fughe che nonostante tutto si ripetevano. Cominciarono le prime uccisioni, che i media riportarono con dovizia di particolari e fotografie agghiaccianti.
Noi, ragazzi del Secondo dopoguerra, trovavamo assurdo che una città venisse tagliata in due solo per impedire alla gente di spostarsi da una parte all’altra. Le uccisioni ci parevano così assurde che… decidemmo di andare a vedere di persona se le notizie che giungevano a noi fossero fondate o meno.
Avevamo vent'anni, quando io e due compagni di scuola decidemmo di andare ufficialmente… in vacanza a Berlino. Il Muro era uno sconcio, una provocazione. Insomma in qualche modo dovevamo violarlo.
I due compagni venuti con me si chiamavano Grazia Corradini e Mauro Finotti.
Lavorammo alla raccolta delle mele in Val di Non quanto bastava per raggranellare i soldi per sopravvivere due settimane, quindi ci facemmo portare dai genitori in Via Brennero a Trento, «a fare l'autostop».
Eravamo in tre, ma trovammo subito un Tir disposto a caricarci.
Al Brennero scendemmo, perché lui avrebbe impiegato 5 o 6 ore a far dogana, noi no, solo una. Passammo il confine a piedi e fummo raccolti da un altro Tir che aveva già fatto dogana e che aveva voglia di compagnia. Ci scaricò a Rosenheim, per via della seconda dogana tra Austria e Germania.
Stessa trafila, poi via in autostrada in mezzo a foreste nere e foltissime che ci affascinarono immediatamente.
Giugemmo a Monaco di Baviera. Lì avevo uno zio che era nato nel 1900. Viveva in una delle vie del centro, che adesso non c'è più. Ci accolse come dei figli e ci fece dormire fino all'indomani.
Di mattina presto prendemmo l'autobus e ci portammo fuori della città, al nord.
Trovammo il solito Tir che ci caricò e portò fino a Colonia. Altra tappa a visitare la città, poi via a Munster. Qui, l'amico Mauro aveva una morosa, conosciuta nel'estate trentina sui laghi. La sua famiglia ci accolse in casa calorosamente. Due giorni dopo (Mauro aveva bisogno di salutare bene la sua amica) ripartimmo per Düsseldorf nella Ruhr e poi verso Helmstedt, confine settentrionale con la DDR.
La Germania Orientale rappresentava per noi una sorta di altro mondo, qualcosa che si doveva conoscere e possibilmente violare. Il Muro era stato costruito contro ogni logica apparente in un momento in cui tutto era da esplorare ed eravamo determinati ad andare a vedere se esisteva davvero ed eventualmente come vivevano dall'altra parte.
Forse è bene spiegare che l'Italia, come la maggior parte degli Stati Occidentali, non aveva riconosciuto la DDR e pertanto non c'erano rapporti diplomatici tra i Paesi. Insomma, la Germania Orientale non esisteva. Era come andare sulla Luna.
Arrivati a Hannover, trovammo un ufficio consolare italiano. Un gentilissimo funzionario, confermandoci che non esistevano convenzioni di sorta, di fece dei «lasciapassare», nei quali stava scritto in italiano e in tedesco che potevamo andare in tutti i paesi riconosciuti dallo Stato Italiano. Cioè dappertutto tranne che nella DDR.
Il funzionario, già che c’era, ci aveva dato un consiglio da amico.
«Dovesse capitarvi qualcosa – ci aveva detto, – chiedete dell’Ambasciata svedese. La Svezia è l’unico stato che ha riconosciuto la Germania Orientale.»
E che mai poteva accaderci? Eravamo incoscienti.
Giunti al confine di Helmstedt con il passaporto italiano e con il lasciapassare omnicomprensivo, ci fecero compilare un modulo di richiesta d'ingresso. Una volta consegnati i documenti timbrarono i lasciapassare con la scritta «Zurück», indietro. Chiuso. Avanti il prossimo.
Vicino a Helmstedt si vede tracciato il confine che un tempo divideva le due Germanie.
Delusi, passammo la notte in un ostello per la gioventù a Helmstedt, pagando a testa in marchi il controvalore di un centinaio di lire di allora. C'eravamo solo noi. Due maschi nel reparto Uomini, una femmina nel reparto Donne.
La mattina tornammo al confine e tentammo di nuovo. Perché? Mah, testardi. A questo mondo se ti arrendi subito, chiudi.
Ci fecero nuovamente compilare il modulo del giorno prima e stavolta, incredibilmente, ci misero il timbro di accesso. Cosa fosse cambiato, proprio non lo sapremo mai.
Passammo il confine in pochi minuti, a piedi.
Giunti dal'altra parte del confine, facemmo nuovamente l'autostop e ci caricarono subito. Era come essere entrati in un sogno.
Dopo sei o sette ore, arrivammo al confine con Berlino Occidentale.
Perdemmo tre ore, in cui i funzionari di confine forse si domandavano come avevano fatto a ottenere il passi. Fatto sta che alla fine ci fecero passare. Che diamine, quella non era la DDR ma Berlino Occidentale. La fatidica West Berlin, arrivati in autostop…
Senza mai dimenticare che nella Berlino di allora su tre persone due erano spie o controspie, visitammo la città in lungo e in largo, dalla Kurfürstendamm alla 17. Juni Straße, dal Tiergarten alla Sprea, dalla Friedrichstraße alla Tauentzienstraße, dalla Gedächtniskirche al… Muro di Berlino.
Giunti al Charlie Point, va da sé, decidemmo di passare.
La polizia occidentale provò a sconsigliarci ma, non potendo impedircelo, ci diedero consigli, tra i quali anche quello di chiedere eventualmente soccorso alla diplomazia Svedese che, unica in Europa, aveva pragmaticamente riconosciuto la Repubblica Democratica Tedesca...
«Speriamo che la Arcese lavori anche in Svezia», – commentai ironicamente.
La Gedächtniskirche, la chiesa pensata.
I Vopos ci accolsero con diffidenza e meraviglia. Cosa facevano tre italiani ventenni al Charlie Point per entrare a Berlino Orientale? Ce lo chiesero un sacco di volte, anche separatamente. Non volevano farci entrare, ma il lasciapassare rilasciatoci al confine di Helmstedt non lasciava dubbi: o avevano sbagliato i colleghi a quel confine o stavano sbagliando loro adesso.
Alla fine ci fecero entrare, d’altronde erano addestrati a impedire ai berlinesi orientali di andarsene, non viceversa. Certamente non riuscirono a capire quale fosse il nostro vero obbiettivo.
Al controllo bagagli non trovarono nulla di interessante nelle nostre borse, ma al signore che era davanti a noi sequestrarono la rivista Playboy: «niente giornali capitalisti a Ost Berlin…». Ma non lo distrussero. Era un sequestro pilotato, un modo per distrarre le insane attenzioni ai controllori con attrazioni più sane.
Una volta di là, ci rendemmo conto di quanto diverse fossero le due città. In due parole, a Ovest c'era il benessere, a Est la miseria. O almeno quella era l'impressione che dava la parte comunista.
Andammo subito a vedere la Brandeburger Tor, restando affascinati dall'idea di poterla vedere stando dall'altra parte, sulla storica Unter den Linden.
Contrariamente a quanto ci avevano raccomandato, ci facemmo fotografare con sullo sfondo la Porta di Brandeburgo. Il Berlinese orientale che la scattò non era un grande fotografo, ma neanche la nostra macchina era un gioiello, eppure la foto bene o male riuscì come tutte le altre. È quella che pubblichiamo qui sopra.
Pezzo del Duomo di Berlino Orientale, tuttora conservato.
Tra le cose che visitammo, ci fu anche il duomo di Ost Berlin. Il tetto era stato sfondato da bombe alleate e le autorità avevano deciso di non spendere soldi per la ricostruzione di chiese. Però ci lasciarono entrare a visitare il duomo diroccato. Vidi il coccio di un capitello tra i calcinacci. Chiesi al Vopo di guardia se potevo prenderlo e portarlo con me, e lui mi autorizzò, aggiungendo che se volevo portarmi via tutto mi avrebbe pure aiutato.
Ai vari confini non mi contestarono mai quel pezzo del duomo di Berlino orientale: spiegavo che cos'era e lo trovarono del tutto normale…
I ricordi che abbiamo di Ost Berlin sono tanti, ma certamente l'odore di stalle e cavalli è quello che periodicamente mi torna alla mente, in contrasto con quello di benzina che la parte occidentale offriva ai turisti.
Il buio di una città priva di scritte e insegne, il silenzio cupo che opprimeva le vie cittadine, la presenza continua di uomini in divisa e la mancanza di vita in una di quelle che era stata una delle più importanti capitali del mondo, in effetti ci fece sentire oppressi. Guardammo tutto quello che riuscimmo a vedere e decidemmo di tornare a vedere le stelle.
Per tornando nella parte orientale, perdemmo un sacco di tempo al passaggio del Muro al Charlie Point, perché c'era stato un allarme di qualche genere che nessuno volle spiegarci. Scoprimmo che la metropolitana di Berlino occidentale passava sotto quella orientale e, benché fossero chiuse le uscite, ogni tanto qualcuno provava a prenderla.
Comunque sia ci tennero segregati per ore, ma alla fine ci lasciarono andare.
La Brandeburger Tor.
Il ritorno a casa fu più avventuroso.
Facendo autostop nei pressi del confine tra West Berlin e la DDR, si fermò un'automobile. Scese un Berlinese e ci domandò se uno di noi aveva la patente e io risposi di sì. La mostrai e lui ci fece un'offerta.
Il berlinese ci voleva darci la macchina per andare ad Hannover, al cui aeroporto ci avrebbe aspettato.
«Sono scappato da Ost Berlin, – ci spiegò. – Non posso farmi vedere a un confine, altrimenti mi arrestano. Posso andare in aereo ma l’automobile non so come fare. Per voi sarebbe comodo, no?»
Facemmo consiglio di viaggio e all’unanimità decidemmo democraticamente (e incoscientemente) di accettare. Lo accompagnammo all'aeroporto Tempelhof di Berlino, poi tornammo al confine. Non più da autostoppisti, ma da automobilisti.
Nel corso del controllo ci rendemmo conto dell'imprudenza. Potevamo quantomeno passare da complici. Ci controllarono tutto impiegando l'intera giornata. Svuotarono il bagagliaio, cavarono i sedili, smontarono le portiere, controllarono il serbatoio.
Credevamo che non saremmo mai riusciti a passare, quando qualcuno con una imponente divisa tedesca e un cappello gigantesco ci fece risalire in macchina e ci fece passare. Restammo a viaggiare in silenzio per un'ora, finché non cacciammo un urlo collettivo di gioia. Poi, però, mi accorsi che il sole stava tramontando dietro di noi, invece che davanti. L'orientamento non mi è mai mancato.
«Ragazzi – dissi, – c’è qualcosa che non quadra. Stiamo andando verso Est…»
Ci fermò poco dopo la polizia stradale della DDR a un posto di blocco. Controllati i documenti, ci spiegarono pazientemente che dovevamo fare inversione di marcia. Mi aiutarono a farlo e riprendemmo la giusta direzione.
Il passaggio del confine a Helmstedt fu lungo e faticoso, ma ormai non avevamo più paura, eravamo diventati esperti nei passaggi di confine fra stati che non esistono.
Arrivammo all'aeroporto di Hannover e ci incontrammo con il passeggero. Il quale non si meravigliò affatto che avessimo mantenuto la parola…
Per ringraziarci ci portò alla periferia della città per fare l'autostop. Ma di notte non ci raccolse nessuno, quindi decidemmo di dormire sotto il ponte dello svincolo autostradale, abbracciati tutti tre, nella nebbia della landa tedesca di fine settembre (allora le scuole cominciavano a ottobre).
Nel corso sella notte ci fu anche un incidente stradale mortale, che non ci svegliò. Ma la polizia Stradale Ci vide.
«Qui ci sono altri cadaveri! – Gridò in tedesco un agente della Verkehrspolizei. – No, sono vivi!»
Ci studiò curiosamente.
«Cosa diavolo fate qua?»
Poi ci diedero del caffè. Fecero caricare un cadavere sul furgone e poi ci indicarono la via per tornare a casa e ci salutarono.
Riprendemmo l'autostop, ma dopo un'ora decidemmo di dividerci perché in tre era difficile trovare passaggio. Io e la mia amica prendemmo la strada che porta a Monaco passando da Kassel e Norimberga, il nostro amico quella che passa da Colonia.
A fine giornata ci ritrovammo dallo zio di Monaco, arrivando noi pochi minuti prima di lui. Quasi sincronizzati.
Lo zio ci disse che le nostre famiglie volevano che tornassimo a casa subito e ci portò alla stazione dei treni. Era successo che a Trento era avvenuto un sanguinoso attentato. Due poliziotti erano morti alla stazione di Trento mentre allontanavano una borsa piena di esplosivo dal treno dove era stata trovata. Degli eroi.
Non ci sfuggì l’ironia dei nostri genitori che, per metterci al riparo da altri possibili attentati ferroviari, ci avevano fatto prendere il treno che da Monaco porta a Verona. Lo stesso della strage del giorno prima.
Comunque sia, era il primo viaggio fatto con una certa comodità. Ci addormentammo subito e ci svegliammo al Brennero, dove la polizia aveva attivato i massimi controlli possibili dopo l’attentato del giorno prima.
«Cosa tiene in quel sacchetto di naylon?» – Mi domandò un agente.
«Un pezzo del duomo di Berlino Orientale», – risposi.
L’agente trovò normale la cosa e proseguì nello scompartimento successivo.
Ci riaddormentammo subito e ci svegliammo a Verona. Avevamo passato Trento e Rovereto senza neppure accorgerci.
Riprendemmo il treno di ritorno senza pagare il biglietto, mostrando quello da Monaco a Trento, spiegando così l'errore.
Fine di un viaggio che appartiene ad altri tempi.
Il muro cadde 22 anni dopo. Poi ne sono passati quasi altri trenta.
L'Europa adesso è unita, non ci sono confini e c'è la moneta unica. Allora sembrava pura astrologia pensare a questi cambiamenti rivoluzionari, eppure a questo mondo tutto passa. Anche quel maledetto muro che Honecker aveva definito «eterno».
Guido de Mozzi