Cinquant’anni dell’alluvione del 1966 – Giorno 7 novembre
L’indomani dell’alluvione i Trentini reagirono e si rimboccarono le maniche. Con l’aiuto di Piccoli da Roma e di Kessler da Trento, iniziò il riscatto della nostra gente
Nella foto, la classe IV B del Tambosi, quella di cui si parla nel testo. La pubblichiamo a simbolo di tutti gli «angeli del fango» che allora si adoperarono per aiutare coloro che avevano bisogno.
Domenica 6 novembre 1966 la situazione meteorologica si stava normalizzano, mentre le dimensioni della catastrofe emergevano piano in tutta la loro realtà.
Il torrente Vela non aveva creato problemi ma, tanto per dare un’idea, si era talmente riempito di sassi da colmare quasi del tutto l’alveo di sei metri di base per cinque di altezza. L’aspetto singolare è che i sassi se ne andarono poi da soli, portati via in un mese dalla stessa corrente che li aveva trascinati a valle.
I problemi reali erano dall’altra parte del fiume Adige. In città e soprattutto nelle valli.
Ma erano scattati subito gli episodi di generosità e altruismo. Ricordo che Paolo Colombo mise fuori dal proprio negozio di Via Grazioli gli stivali e gli impermeabili che aveva. Poteva prenderli chiunque ne avesse avuto bisogno senza pagare una lira.
La mattina del 7 novembre, al rientro a scuola, il prof. Fedrizzi dell'stituto Tambosi ci disse che la scuola era chiusa.
«Ragazzi andate ad aiutare chi ne ha bisogno, – ci disse con un’affabilità che non aveva mai sfoderato in tutte le sue lezioni. – Molti sono stati alluvionati e hanno necessità del vostro aiuto.»
Noi ci siamo sentiti investiti di una grande responsabilità e di un grande fervore nell'aiutare il prossimo, chiunque fosse.
A me personalmente fu chiesto se ero disposto ad andare in Valsugana, dove interi centri abitati erano isolati. Mia sorella mi consigliò di andare, che avrebbe avvisato i genitori. Salii su uno dei pullman messi a disposizione dall’OSIT, l’organizzazione studentesca del Tambosi.
Il viaggio fu una vera e propria avventura. Una prima frana si era verificata nei pressi di Ponte Alto, poi ogni tratto di strada riportava evidenti tracce di corsi d’acqua occasionali che avevano portato ghiaia e detriti sulla statale. Il Fersina stava smaltendo la piena, ma quando passammo Levico cominciammo a vedere i danni fatti da un Brenta che ancora era gonfio d'acqua.
Passato Borgo, ecco i primi segni evidenti della violenza dell’alluvione. Il Chieppena aveva travolto il ponte della Statale della Valsugana e il pullman dovette guadare il corso d’acqua grazie a un adattamento minimale fatto dal Genio. Anche tutti gli altri ponti della Valsugana erano stato travolti dalla furia dei torrenti. Dalle montagne scendevano ancora dei rivoli d’acqua fino al cono di deiezione di fondovalle.
Mi tornarono alla mente le parole di mia nonna pronunciate qualche anno prima.
Quando era piccola, mi aveva spiegato, aveva percorso la Valsugana in carrozza, proprio quando un'alluvione stava montando la piena del Brenta.
«Ci dovemmo fermare, – mi aveva raccontato. – Siamo potuti ripartire solo quando i rivoli cominciarono a scendere dalle montagne: significava che la piena aveva dato il peggio di sé e non poteva che calare.»
Il pullman scaricò studenti del Tambosi ad ogni centro abitato che si passava. Si tenga conto che la superstrada non c’era e la statale passava da tutti i paesi.
Io scesi a Tezze Valsugana. Mi diedero un paio di stivali e un badile; scelsi la prima abitazione con una persona alla finestra che chiedeva aiuto. Mi spiegò che in due giorni eravamo i primi esseri umani giunti per soccorrere gli alluvionati. Qualcuno, stavolta, aveva portato anche generi di prima necessità.
C'era solo fango nelle strade e adesso con il nostro aiuto potevano uscire di casa. Io e altri amici passammo di casa in casa, togliendo il fango dalle porte e dai piani terra. D’un tratto trovai il forno del pane di Tezze. Era in piedi, ma talmente pieno di fango che perdetti il resto della giornata per pulirlo. Non so quando tornò in funzione, forse oggi non c'è più.
A mezzogiorno l'organizzazione studentesca ci portò in una scuola risparmiata dalle acque a mangiare qualcosa insieme ai profughi.
Nei giorni successivi ripetemmo l’intervento, ma stavolta ero riuscito ad attrezzarmi meglio. Avevo portato con me gli stivaloni da pesca e un paio di guanti da lavoro.
Il mio compagno di scuola Mauro Finotti racconta così il suo ricordo.
«I primi due giorni io ed altri compagni di scuola (ricordo Claudio Chemini, Franco Saltori, Gabriella Tonina, Cristina Auchentaller, Danilo Perini, e altri dei quali faccio a fatica a ricordare i nomi, ma tutta la nostra classe era impegnata in varie zone della città) abbiamo lavorato due giorni in San Martino a liberare i mobili di un antiquario da uno scantinato completamente allagato fino a una soffitta al quinto piano di un palazzo senza ascensore.
«Una giornata l'abbiamo passata in Cristo Re a liberare le cantine allagate dall'acqua e dalla nafta per recuperare quel poco che era recuperabile.
«Per i nostri spostamenti abbiamo utilizzato l'Ape di mio padre su cui cassone trovavano posto 4-5 persone. A fine giornata benché sporchi di fango e nafta ci trovavamo a casa di Claudio e terminavano la giornata cantando e suonando la chitarra.»
Altri due giorni li ha passati con me in Valsugana, anche lui a Tezze a liberare dal fango e dai sassi quel paese così duramente colpito dall'alluvione.
«A Tezze raccogliemmo una montagna di galline e conigli morti. Era il loro sostentamento quotidiano...
«Ricordo l'episodio in cui il mio amico Andrea Pezzani, nello spostare dei sassi, si strappò completamente l'unghia di un dito, – dice ancora Mauro. – E fu medicato dall'unica persona che si era attrezzata in tal senso, Guido de Mozzi.»
È vero. Me ne ero dimenticato, io ero l’unico a essermi portato il necessaire per il pronto soccorso e avevo medicato anche altri amici, soprattutto per tagli e vesciche alle mani.
«Credo che nessuno di noi dimentichi quanta fatica e quanta attenzione abbiamo dedicato alla gente che era stata colpita dalla devastazione, – continua Mauro. – Sicuramente ricordiamo con quanta generosità e semplicità abbiamo donato il nostro lavoro e la nostra fatica per cercare di alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite da quel tragico evento.
«Non ricordo con simpatia l'unico episodio negativo di quel periodo: al rientro in corriera verso Trento dopo la seconda giornata di lavoro in Valsugana il nostro accompagnatore, il prete insegnante di religione, ci redarguì pesantemente perché durante il viaggio c'eravamo messi a cantare le canzoni dal nostro tempo. Era l'epopea del Beatles, ma non solo...
«Secondo lui non era opportuno manifestare un momento di allegria durante una fase così drammatica della nostra esistenza. Ma la vita continuava.»
Questi sono ricordi dei fatti che accaddero 50 anni fa. Ci sembra che siano accaduti ieri, e invece il mondo è cambiato in maniera davvero epocale.
I trentini delle zone alluvionate si erano trovati a due passi dall’ennesima migrazione di massa, come in passato, ma accadde improvvisamente il miracolo delle Istituzioni.
A Trento c’era il presidente di una Provincia autonoma che muoveva i primi passi (il «Pacchetto» sarebbe diventato legge solo nel 1970) che si chiamava Bruno Kessler.
A Roma, alla Camera dei deputati, c’era un politico trentino potentato che si chiamava Flaminio Piccoli.
Insieme riuscirono a fare il miracolo.
Piccoli riuscì a mettere a disposizione in tempi brevissimi i soldi da parte dello Stato, Kessler riuscì a coinvolgere gli stessi trentini che stavano per lasciare la loro terra e i lavori partirono subito.
Fu allora che il Trentino iniziò a uscire dalla povertà, reagire alle calamità, superare le difficoltà di un territorio che oggi è ritenuto il più bello del mondo, ma che allora era solo impervio, avaro e crudele.
Come amo dire nelle occasioni e nelle sedi opportune, i Trentini da allora non si fermarono più e la rinascita – con l’impegno di tutti – portò a quella che oggi gli osservatori superficiali guardano con invidia: l'eccellenza e il benessere in un territorio all'apparenza privilegiato. Ma abbiamo proprio dimostrato che la ricchezza nostra non sta nei soldi.
Basti guardare quanto sia consolidato sul territorio il fenomeno del volontariato, quanto sia tempestiva la Provincia autonoma di Trento quando nel resto del Paese accadono calamità, ma soprattutto a quanto i trentini si riconoscano nell’Istituzione della nostra Autonomia che ci ha sempre concesso di esprimere il meglio.
G. de Mozzi
Foto archivio Adele Paternolli - Croxarie - Ecomuseo Valsugana.