Alle ore 22.39 di 50 anni fa avvenne il disastro del Vajont
Il versante del Monte Toc scivolò nell'invaso della diga, provocando un'ondata che spazzò via il paese di Longarone: morirono «circa» 2.000 persone

Erano esattamente le ore 22.39 del 9 ottobre 1963, quando 260 milioni di metri cubi di terra e roccia scivolarono, alla velocità di 108 km/h, nel bacino artificiale sottostante creato dalla diga del Vajont.
Un volume quasi triplo rispetto all'acqua contenuta nell'invaso si abbatté sui 115 milioni di metri cubi d'acqua contenuti al momento del disastro, provocando un'onda di piena tricuspide che superò di 200 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto.
Distrusse tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, mentre circa 25-30 milioni di metri cubi scavalcarono la diga, che rimase sostanzialmente intatta, riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i centri abitati limitrofi.
Vi furono 1.917 vittime, di cui 1.450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni.
Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell'abitato di Erto.
Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta.
Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna.
Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave.
CHE COSA ACCADDE
Era la fine dell'estate del 1963, quando i sensori collocati per tenere sotto controllo l’invaso rilevavano movimenti preoccupanti della montagna.
Venne allora deciso di diminuire gradualmente l'altezza dell'invaso, sia per cercare di evitare il distacco di una frana, sia per evitare che una possibile frana potesse provocare un'onda che scavalcasse la diga.
Pare proprio che fosse stato lo svuotamento dell’invaso a provocare il cedimento finale del versante del Monte Toc, il cui nome che deriva dal friulano Patoc, marcio appunto.
Comunque sia si staccò una frana lunga 2 km di rocce e terra e, in circa 20 secondi, la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.
L'impatto con l'acqua generò tre onde.
Una si diresse verso l'alto, lambì le abitazioni di Casso e, ricadendo sulla frana, andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza.
Un'altra si diresse verso le sponde del lago e attraverso un'azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto e Casso.
Una terza, di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, scavalcò il ciglio della diga e precipitò nella stretta valle sottostante.
I circa 25 milioni di metri cubi d'acqua che riuscirono a scavalcare l'opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il campanile, municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi.
Morirono complessivamente 1918 vittime (ma non è possibile determinarne con certezza il numero).
DOPO IL DISASTRO
Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell'Esercito Italiano arrivarono sul luogo per portare soccorso e recuperare i morti.
Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali appartenenti all'arma del Genio che scavarono anche a mano per riuscire a trovare i corpi dei dispersi.
Dei circa 2.000 morti, vennero recuperati solo 1.500 cadaveri, la metà dei quali non fu possibile riconoscere.
Iniziano le operazioni di messa in sicurezza della valle. L'Enel installa una stazione di pompaggio per mantenere il livello del settore residuo del lago a monte entro limiti di sicurezza, giacché essendo rimasto senza emissario avrebbe potuto sommergere Erto.
Contemporaneamente vengono avviati i lavori di ripristino e prolungamento oltre lo sbarramento della galleria di bypass costruita prima del disastro e che tuttora assicura il deflusso delle acque oltre la diga.
Nonostante le rassicurazioni dei geologi si decise però di trasferire la popolazione di Erto. Pochi dei vecchi abitanti sono rientrati nelle case e le hanno ristrutturate, mentre altri occupano il nuovo quartiere costruito più in alto.
L’INCHIESTA
Il 20 febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti.
Due di questi, Penta e Greco, nel frattempo muoiono, mentre Pancini si toglie la vita il 28 novembre di quell'anno.
Il giorno dopo iniziò il Processo di Primo Grado, che si tenne a L'Aquila, a ben 550 chilometri, e che si concluse il 17 dicembre del 1969.
L'accusa chiese 21 anni per tutti gli imputati (eccetto Violin, per il quale ne vennero richiesti 9) per disastro colposo di frana e disastro colposo d'inondazione, aggravati dalla previsione dell'evento e omicidi colposi plurimi aggravati.
Biadene, Batini e Violin vennero condannati a sei anni di reclusione (di cui due condonati) per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero.
Assolti tutti gli altri.
La prevedibilità della frana non venne riconosciuta.
Dal 15 al 25 marzo del 1971 a Roma si svolse il processo di Cassazione, dove venne confermato il verdetto del processo di secondo grado, ma vennero ridotte le pene a Biadene e a Sensidoni.
Il primo fu condannato a cinque anni di reclusione, il secondo a dieci mesi, ma in seguito a Biadene verranno condonati tre anni per problemi di salute
COSA AVVENNE DOPO
Nel 1971, per permettere agli sfollati ancora senza nuove case di tornare alla normalità, venne costruito il comune di Vajont presso Maniago.
Nel 1997 la Montedison (che aveva acquisito la SADE) fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra ENEL, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno.
La comunità riprese subito a ricostruire non solo il tessuto sociale distrutto, ma anche la città.
Un altro centro chiamato Nuova Erto venne costruito a Ponte nelle Alpi (provincia di Belluno), di cui costituisce un quartiere. Infine, sopra il vecchio abitato originale di Erto venne costruito il paese di Erto attuale.
Per cercare di riavviare l'economia locale a seguito della tragedia, il Parlamento italiano approvò la cosiddetta «Legge Vajont».
Prevedeva che ogni abitante dei comuni colpiti che fosse dotato di una licenza commerciale, artigianale o industriale al 9 ottobre 1963 venisse dotato di un contributo a fondo perduto del 20% del valore dell'attività distrutta, un ulteriore finanziamento pari all'80% a tasso di interesse fisso per la durata di 15 anni, e che per 10 anni venisse esentato dal pagamento dell'imposta sulla ricchezza mobile.
Se poi il beneficiario non avesse potuto o voluto ricominciare a svolgere l'attività precedente, aveva il diritto di cedere a terzi la licenza, i quali godevano delle stesse esenzioni e vantaggi a condizione di operare in un'area che inizialmente corrispondeva a quella del disastro, ma che poi venne estesa all'intero territorio delle regioni in qualche modo interessate (Trentino, Veneto, Friuli Venezia Giulia).
Fu così che aziende e imprese del tutto estranee alla vicenda, acquistando le licenze in oggetto per prezzi irrisori e poterono godere di finanziamenti pubblici particolarmente rilevanti, inizialmente destinati alle vittime.
Si ringrazia Wikipedia per le foto e le notizie cui abbiamo attinto.