90 anni fa la «Febbre Spagnola» mieteva 20 milioni di vittime
L'apocalisse si scatenò in soli 120 giorni. Scomparve misteriosamente così come si era propagata: la notte di capodanno
Nella seconda metà del 1918 un
evento straordinario, non certo determinato dalla volontà
dell'uomo, si aggiunse alle stragi della guerra che ancora
imperversava in Europa: una strana epidemia influenzale che ben
presto parve prendere il posto del quarto cavaliere
dell'Apocalisse. La Morte infatti già regnava sui campi di
battaglia; la Fame mieteva vittime in numerose nazioni; la Paura
non mancava certo negli animi, giungeva ungeva così la Pestilenza.
Questa malattia nel giro di pochi mesi uccise ben ventidue milioni
(22.000.000) di persone senza distinzioni di sesso, età, ceto o
condizione.
Nella storia dell'umanità fu superata solo da due eventi analoghi:
dalla peste di Giustiniano che, scoppiata nel 542 dopo Cristo, fece
oltre cento milioni (100.000.000) di vittime mettendo a rischio
l'esistenza stessa del genere umano e dall'epidemia che tra il 1347
e il 1350 spazzò via sessantadue milioni (62.000.000) di persone
circa.
Pare dunque che ci sia un ciclo di 7-8 secoli tra un evento e
l'altro.
Nel 1918 sembrava che non ci fosse possibilità di scampo. Si moriva
in fabbrica, a teatro, a letto, al fronte. Già, anche al fronte era
possibile morire non sotto il fuoco nemico; per una banale malattia
i soldati cadevano come le mosche.
Vi fu un momento in cui sia i tedeschi che gli alleati parvero sul
punto di arrendersi perché le loro divisioni si disfacevano
letteralmente. Ma fu il cancelliere del Reich, principe Max von
Baden, a chiedere l'armistizio senza discutere, accettando tutti i
quattordici punti del Presidente Wilson, soprattutto per la
spaventosa mortalità che infieriva nelle file germaniche e nelle
città tedesche. E come ebbe dato il suo consenso alla resa, il
cancelliere si mise a letto d'urgenza a sua volta, sconfitto
dall'inarrestabile morbo.
Fu un avvenimento che sconvolse il mondo e la cui memoria non si è
ancora affievolita a più di mezzo secolo di distanza. Contro di
esso non esisteva difesa scientificamente valida, sicché si
adottarono le terapie più strampalate e avventurose, riportando di
colpo la medicina ai rituali magici e alle pratiche tribali. E
poiché, come spesso accade, non si era prestata attenzione alla sua
comparsa, la malattia colse di sorpresa il mondo quando deflagrò
nell'ottobre 1918: così come nessuno, quando la pandemia sembrava
ancora infuriare, riuscì a spiegarsene la improvvisa sparizione
proprio nella notte del31 dicembre di quell'anno, dopo 120 giorni
d'assoluto e incontrastato dominio della morte.
La chiamarono «spagnola» probabilmente perché in origine si era
manifestata in Spagna, in forma all'inizio benigna. Nel febbraio
1918 un flash alla «Reuter» dell'Agenzia Iberica Fabra diceva: «Una
strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a
Madrid».
Chissà dove finì quel messaggio, forse nel cestino. In piena guerra
mondiale, che gli spagnoli avessero «una strana malattia a
carattere epidemico» non faceva certo notizia.
Che a Madrid un terzo della popolazione stesse a letto, e che la
stesso re Alfonso XIII fosse malato costituiva al massimo una
curiosità. Si sapeva in modo generico di che si trattava: il
termine «influenza» con cui si definiva quel tipo di affezione era
antico, essendo nato in Italia nel 1580, quando si era persuasi
dell'«influsso» delle stelle sulla salute dell'uomo.
Dunque non ci si preoccupò, perché il mondo aveva ben altro da
pensare.
I sintomi della malattia erano tosse, dolori agli occhi e alle
orecchie, indolenzimento alla regione lombare. Poi torpore, brividi
e febbre a 40.
L'incubazione durava due giorni, con mal di gola e di testa. Al
terzo giorno i sintomi sparivano, una forma benigna.
Il dramma cominciò tra l'aprile e il maggio, quando si constatò che
il morbo si diffondeva in maniera aggressiva e senza riparo: in
Francia, in Scozia, in Grecia, in Macedonia, in Egitto, in Italia,
in Germania, in Austria, in Norvegia, in India... e poi a Canton, a
Lima, in Costa Rica.
A settembre lo spettro della morte già si allungava sul mondo
intero, seminando terrore e lutti. Mentre la gente moriva, i medici
non sapevano dove sbattere la testa. Molti credettero che il morbo
fosse dovuto solamente alla denutrizione dei popoli, causata dalle
privazioni della guerra; alcuni lo curavano con impacchi freddi,
altri col caldo, altri ancora segregando nelle case i malati, altri
facendoli vivere all'aperto sotto le intemperie.
Il professor Pittaluga, docente di medicina tropicale
all'università di Madrid, luminare della scienza, se la cavò
dicendo che si trattava di una malattia del tutto nuova e quindi
sconosciuta.
Il comandante in capo della Sanità militare inglese, dopo molti
studi, si limitò ad allargare le braccia: non ne capiva nulla.
Sembravano i dottori di Pinocchio. Non c'erano medicine efficaci.
Non esistevano né gli antibiotici, né i sulfamidici (medicinali che
poi vennero soppresso perché «non adatti all'essere umano»…) che
nel 1957 avrebbero debellato l'asiatica.
Non si trovavano dottori in numero sufficiente, perché la maggior
parte di loro erano richiamati. Gli ospedali erano ridotti a
depositi di infelici abbandonati nelle corsie, i vivi accanto ai
morti, spesso dimenticati e mai visitati dai sanitari.
Si somministravano delle purghe, del latte spruzzato di seltz, del
chinino, della fenacetina. Soprattutto si raccomandavano i malati
alla provvidenza.
Naturalmente pochi governi si segnalarono per un'azione organica
contro questo flagello. In genere lasciarono come al solito che
ciascuno provvedesse per sé, limitandosi a impiegare gli ufficiali
sanitari, a fornire tende e disinfettanti e ad annunciare piani di
difesa che restavano sulla carta.
L'importante era fare la guerra e cadere eroicamente al fronte:
quelli che venivano uccisi dalla « spagnola » si potevano perfino
considerare morti importuni.
Poiché l'ecatombe continuava e non
c'era la più pallida idea di che cosa la provocasse, fu necessario
- dopo i medici - mobilitare i dentisti, poi i veterinari, infine
gli studenti di medicina. Dai farmaci classici si passò a quelli
empirici. Usarono il tabacco, il whisky, una sbronza.
L'aspirina, che avrebbe certamente dimezzato le morti, era già
stata scoperta ma veniva guardata con sospetto: sarà vero che fa
male al cuore e favorisce la polmonite?
Non si sapeva nulla di nulla. Un certo dottor Roland Burkitt di
Nairobi, significativamente detto «ammazza o cura», faceva
sistemare i pazienti tra lenzuola bagnate e ordinava ai servitori
di continuare a innaffiarli come fossero piante.
Chi non moriva era guarito. Una delle due. E così fu, nella misura
del 30% di morti e il 70 di sopravvissuti.
Perirono anche molti personaggi celebri. Tra gli altri il
commediografo Edmond Rostand, il poeta Guillaume Apollinaire, il
primo ministro del Sud Africa, il principe Erik di Svezia, il
principe Torlonia, la figlia di Buffalo Bill, l'eroe
dell'aeronautica inglese Leefe Robinson, che era sopravvissuto
perfino a un combattimento nel corso del quale era stato abbattuto
dall'asso tedesco Von Richthofen, il Barone Rosso.
Si salvarono per un pelo Franklin Roosevelt, Walt Disney, Mary
Pickford, la regina Alessandra di Danimarca, il presidente del
Brasile, il Maresciallo ]offre, il generale Pershing che comandava
le forze americane in Europa, il Kaiser, Lloyd George.
La « spagnola » non faceva distinzione tra regge e tuguri.
L'unico posto che rimase immune dal morbo fu l'isola di Sant'Elena,
dov'era stato prigioniero Napoleone. Non si riuscì a capire
perché.
A Milano Mussolini prese pretesto anche dalla «spagnola» e dal
pericolo del contagio, per alimentare la sua campagna contro la
borghese stretta di mano. Scrisse sul «Popolo d'Italia»: «Che si
impedisca ad ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la
mano e la pandemia scomparirà nel corso della notte».
Ma queste sono sciocchezze. Vi erano aspetti terribili della
catastrofe. Quando furono fornite le statistiche dei morti di
«spagnola» in Italia, si vide che erano stati 375 mila in tre mesi.
In tre anni di guerra con i massacri del Carso e dell'Isonzo, si
era giunti a seicentomila.