Grande Guerra. – 90 anni fa, la disfatta di Caporetto/ 5
Il Piave, Il Grappa, il Montello, gli Altipiani: l'arresto
Come scrisse Philippe Rostan, «La
battaglia del Piave fu una battaglia di soldati». Ognuno sapeva che
cosa doveva fare: era sufficiente dare ordini tattici o
strategici.
Gli Austro Tedeschi, sull'onda dell'entusiasmo, non vedevano l'ora
di chiudere la partita.
Il Comando supremo italiano, dopo aver diramato l'ordine di
«resistere», non aveva altro modo di intervenire. Non aveva più
mezzi a disposizione per colmare eventuali brecce che si fossero
prodotte.
Ma una cosa venne dimostrata in tutta la sua evidenza: nella Grande
Guerra la difesa era molto più potente dell'attacco.
Prima battaglia d'arresto, 10-23 novembre. L'attacco si
sviluppa su tre punti principali: gli Altipiani, il Monte Grappa,
il Montello, il Piave.
Nella carta qui sopra, ricavata da
www.viamichelin.it,
il teatro delle battaglie del Piave
Il saliente sugli
altipiani.
L'attacco contro il «saliente» ebbe
inizio il 9 novembre. Il 12 il nemico era riuscito a conquistare il
monte Longara e da lì spostò l'attacco più a nord, poi più a nord
ancora, contro le Melette. Dopo un violento bombardamento eseguito
con 345 bocche da fuoco, 33 battaglioni mossero contro 11
battaglioni italiani. Ma vennero costantemente respinti.
Assisteva all'operazione l'imperatore in persona e le perdite
furono talmente forti che ordinò lui stesso la sospensione
dell'attacco.
Il fianco sinistro dello schieramento italiano aveva resistito,
anche se il saliente delle Melette poteva essere perso senza
compromettere il dispositivo di difesa.
Il Monte Grappa.
Il massiccio era
difeso dal XVIII Corpo d'armata (generale Tettoni), che dipendeva
dalla Quarta Armata e disponeva di 4 divisioni, rinforzate da 13
battaglioni alpini e qualche batteria da montagna. I difensori
italiani erano insufficienti e per questo era considerato il punto
debole dell'intero schieramento. Non potendo integrarlo, i comandi
si limitarono a contare fortemente sulle opere difensive volute da
Cadorna.
Gli Austro Germanici attaccarono con 9 divisioni e quindi con
notevole superiorità numerica.
Dal 12 al 16 novembre, gli alpini resistettero sulle posizioni
avanzate. Il 17 ripiegarono sulla linea di difesa principale,
quella che non poteva cedere. Gli attacchi nemici aumentavano ora
per ora, giorno per giorno. Il 23 gli Austriaci riuscirono a
conquistare la cima del Monte Pertica, ma non riuscirono a
conservarla.
I Germanici, con l'aiuto dei lanciafiamme, conquistarono la cima
del Monte Tomba. Gli Italiani, tuttavia si rifugiarono qualche
metro più sotto e da lì non li sloggiò più nessuno.
Il 26, la divisione Edelweiss si lancia con un generoso attacco
contro il Col della Berretta. Viene respinta dai Siciliani della
Brigata Aosta.
Il Montello.
Gli Austro Tedeschi potevano passare il Piave a monte, in
territorio occupato, per poi scendere sulla sponda destra del fiume
sullo stretto versante inferiore del Grappa. In quel modo si
trovavano di fronte le colline della Pedemontana veneta, la prima
delle quali era appunto il Montello. Per questo il punto debole sul
Piave era, secondo Cadorna (sostituito proprio alla vigilia) il
Montello, e aveva chiesto a Foch di occuparlo con le sue divisioni.
Foch aveva rifiutato, preferendo tenere le divisioni franco inglesi
di riserva dietro il Mincio, per cui gli Italiani dovettero
arrangiarsi.
La lunga collina asolana fu teatro di sanguinosissimi scontri,
anche corpo a corpo. Per giorni e notti vi furono scontri di
pattuglie, plotoni, compagnie. Da entrambe le parti si combatté per
la vita. Per gli Italiani, la sconfitta ci sarebbe stata solo dopo
che fosse caduto l'ultimo uomo.
Ma gli alti comandi di entrambi gli schieramenti consideravano Il
Montello solo un diversivo. Da una parte gli Austro Germanici non
ritenevano di poter sfruttare strategicamente un eventuale
sfondamento sul Montello: non potevano farvi transitare grandi
unità una volta conquistato.
Gli Italiani lo sapevano, ma il punto era che - una volta ceduto il
Montello - non avrebbero saputo come contrastare l'eventuale
sfondamento. Insomma dovettero affidarsi alla volontà di battaglio
di alpini e bersaglieri i quali, appunto, dovevano semplicemente
resistere. Lo scontro vero, anche per gli Italiani, si sarebbe
consumato sul Piave.
Il Piave.
Mentre gli attaccanti si
domandavano come fare a portare l'artiglieria dall'altra parte del
fiume (così minaccioso e senza ponti) una volta attraversato, da
parte italiana il problema era opposto: si doveva respingere, non
attaccare.
I primi disponevano ancora dei micidiali proiettili a gas, ma non
sapevano che stavolta gli Italiani avranno le maschere antigas
acquistate dai Britannici.
Da entrambe le parti tutto era stato ben organizzato nonostante il
poco tempo a disposizione, a partire dalle linee telefoniche che
sono essenziali per un corretto funzionamento della gigantesca
manovra nel suo complesso e per la direzione dei tiri d'artiglieria
in particolare.
Alle 2.55 del 10 novembre, le artiglierie austriache ricevettero
l'ordine di aprire il fuoco. Tremila cannoni spararono
contemporaneamente. Il cielo s'incendiò. Per gli attaccanti era
finalmente l'inizio di una nuova avanzata inarrestabile,
l'ultima.
Ma improvvisamente il frastuono raddoppiò. Proprio da dove le
granate a gas esplodevano, si levarono innumerevoli fiammate di
moltissime opposte bocche da fuoco. Stavolta gli Italiani non erano
stati affatto colti di sorpresa, ed anzi si sarebbe potuto pensare
che per una singolare tragica coincidenza i due comandi avversari
avessero ordinato l'attacco alla stessa ora dello stesso
giorno.
Ma non era stato così. Gli Italiani stavolta erano pronti,
fortemente motivati e decisi di contrastare l'attacco, fino alla
morte.
Ma, alla fine di tutto il fronte d'attacco, Boroevich riuscì a
impossessarsi solo dell'ansa di Zenson. Nulla di importante, il
Piave non cede.
Il 26 novembre, l'Imperatore, d'accordo con i tre comandanti delle
armate, sospende l'offensiva.
Le reazioni all'arresto del primo attacco.
Il 23 novembre Foch, mentre riparte per Parigi lasciando la
situazione sotto controllo (e non certo per merito suo), scrive una
lettera di complimenti a Diaz. In realtà avrebbe dovuto inviarla a
Cadorna, autore del dispositivo di difesa, ma ormai l'ex comandante
supremo è caduto in disgrazia.
Il generale tedesco Kraft von Dellmensingen scriverà che «Si
arrestò così, a poca distanza dal suo obbiettivo, l'offensiva ricca
di speranza. Il Grappa divenne il "Monte Sacro" degli Italiani». Il
"Grappa e il Montello", precisiamo noi.
Il generale austriaco Konopicki, capo di stato maggiore
dell'Arciduca Eugenio, scriverà che «Pareva impossibile che un
esercito uscito dal disastro di Caporetto, avesse potuto
riprendersi così rapidamente».
In Italia, l'opinione pubblica adesso è pronta a tutto pur di
aiutare i propri soldati. Si passano ore e giorni di angoscia e
alla fine, quando i giornali parlano di «attacchi respinti» su
tutti i fronti, nessuno usa toni trionfalistici. Il cuore è sempre
in gola. Un miracolo è riuscito, ma altri ne sono necessari.
A Parigi, il Comitato militare di guerra dell'Intesa, dopo aver
preso atto che il Regio Esercito aveva retto, decide di poter
mandare degli aiuti operativi senza «gettarli nella fornace». In
altre parole, non avevano creduto alla possibilità di un successo
italiano. Adesso manderanno due divisioni britanniche sul Montello
e due francesi sul monte Tomba. Magari anche qualcuna di più…
I Tedeschi si
rendono conto che attraverso la Val Padana non arriveranno mai in
Francia. Faranno ancora un tentativo, dopodichè riporteranno le
proprie truppe in Germania. Gli Americani arriveranno tardi, è
vero, ma loro devono comunque chiudere la guerra prima.
In effetti proprio per i Tedeschi si era aperta in quel momento
l'opportunità offerta dal presidente americano Wilson (nella foto di fianco)
su un piatto d'oro. Con la tesi dell'«auto-determinazione dei
popoli», l'Alsazia e la Lorena sarebbero restate con loro, quindi
avrebbero potuto chiudere la partita più che onorevolmente. Ma i
generali erano convinti della vittoria finale e l'occasione resterà
una delle tante che durante la guerra sono andate in fumo.
Seconda battaglia d'arresto, 4-30 dicembre. L'attacco si
sviluppa sulle medesime linee strategiche della prima: Altipiani,
Monte Grappa, Montello, Piave.
Altipiani.
Il 4 dicembre il generale
Conrad lanciò nuovamente le sue truppe contro il saliente di Val
Frenzela. L'offensiva, preparata meglio dell'azione precedente, si
sviluppò in due direzioni, a est e a sud. Questa volta la linea fu
rotta e di difensori, rischiando l'accerchiamento, si ritirarono
sulle posizioni arretrate previste in tal senso. Il 23 dicembre,
dopo aver riorganizzato le sue truppe, Conrad scatenò un'altra
offensiva sulla nuova linea di difesa italiana, ma senza conseguire
effetti di rottura. La seconda battaglia d'arresto, sugli altipiani
era finita.
Tutti sapevano - a parte Conrad probabilmente - che la guerra non
sarebbe mai stata decisa sulle montagne. Ma lo avevano lasciato
fare perchè la sua azione sarebbe stata utile per tenere le truppe
italiane impegnate sugli altipiani, cioè lontane dal Grappa e dal
Piave.
Grappa.
Il generale von Krauss riprese a cozzare contro il Grappa. Si era
impadronito dell'Asolone, ma gli Italiani si erano attestati anche
stavolta pochi metri sotto la cresta e da lì nessuno li cacciava
più via. Tre divisioni germaniche, tra le quali il famoso
Alpenkorps, si gettarono contro il saliente dei monti Pallone e
Spilorcia, riuscendo solo a erodere un po' i bordi. Nulla da
fare.
Montello.
Sulla collina asolana si
ripetono nuovamente i violentissimi combattimenti di battaglioni
nemici. Brevi sfondamenti, rapidi contrattacchi, molti morti e
feriti. Moltissimi i prigionieri sia da una parte che dall'altra, a
dimostrazione di quanto «mobile» fosse l'impianto strategico in
quel teatro di guerra.
Piave.
Lungo la linea del Piave, tutti gli sforzi di Boroevich rimasero
inutili. Il maltempo manteneva il fiume in piena e gli rendeva
impossibile il consolidamento di qualsiasi pur minimo successo.
Aveva perfino fatto uscire da Trieste la flotta, costituita da due
corazzate, un incrociatore e qualche decina di unità minori,
affinché intervenissero con le loro artiglierie per dare una mano
all'esercito. La Regia Marina italiana era uscita da Venezia per
contrastarla, ma non accadde nulla per via della nebbia. Niente
bombardamento sulle linee italiane, niente ingaggio sul mare da
parte delle rispettive flotte.
Il 27 dicembre, Boroevich dovette abbandonare perfino l'ansa di
Zenson occupata a novembre.
Il 30, le truppe francesi intervennero dopo una potente
preparazione della nostra artiglieria e occuparono di impeto le
posizioni nemiche nel settore del Monte Tomba. Non fu un grande
risultato in verità. Ma la grande battaglia era finita.
Le reazioni all'arresto del secondo attacco.
Il secondo cessate il fuoco consentì all'Italia di correre
ai ripari, e poiché passarono tre mesi prima dell'attacco
successivo, si può dire che fu qui che gli Imperi Centrali persero
la guerra.
Erano state mobilitate in extremis le classi del 1998 e 1999, che
sarebbero intervenute negli attacchi successivi. Ma ben 237.000
soldati erano già stati recuperati abbassando l'altezza minima
degli uomini e dichiarati così «abili» al servizio militare. Un
centinaio di migliaia di sbandati vennero recuperati grazie ad una
maggiore elasticità dei regolamenti. Se prima la diserzione veniva
dichiarata dopo 24 ore di ritardo nel rientro al proprio reparto,
adesso ci volevano 5 giorni.
(Vale la pena in proposito ricordare che in tutta la guerra erano
stati 110.000 i renitenti totali alla leva e 55.000 i condannati
per diserzione. Di questi ultimi, 33.000 vennero rispediti al
fronte.)
La resistenza selvaggia e micidiale di un popolo messo alle strette
come quello italiano, indusse Ludendorff a riflettere. L'Italia
avrebbero dovuto metterla fuori causa nel 1916, manovrando in
diversiva la Strafe Expedition di Conrad e muovendo in maniera
strategica un contrattacco (come quello messo poi in atto a
Caporetto) sull'Isonzo. Allora sarebbe bastata la metà dello sforzo
di adesso. Ora invece vedeva benissimo il pericolo di una guerra
nella Pianura Padana. Si sarebbe trovato contro un popolo intero,
non solo un esercito.
Non ha dubbi e decide di ritirare le truppe. In parte lo aveva già
fatto, ma adesso è deciso. L'Austria Ungheria dovrà cavarsela da
sola, oltretutto che agli alleati bastava impedire di essere
sfondati sull'Isonzo. C'erano Francia e Gran Bretagna da mettere KO
prima dell'arrivo degli Americani.
Ludendorff non è l'unico a ragionare. L'Italia ha dimostrato di
sapersela cavare benissimo anche da sola e il Comitato militare
dell'Intesa può decidere di non inviare più le 30 divisioni
anglo-francesi previste in un primo momento.
Conti alla mano, non è detto che Ludendorff avesse fatto un buon
affare a ritirare le sue sette divisioni…
Nasce la leggenda del Piave
Il Grappa divenne «sacro», ma per tutto il Paese era il Piave che
non doveva cedere. Ogni bollettino, ogni notizia, ogni articolo,
parlava del Piave e dei nostri ragazzi che morivano per impedire
che il nemico lo passasse.
Le sue sorgenti sul monte Peralba, posto tra Cadore e Carnia, si
aprono proprio alle spalle della linea che nel 1915 divideva
l'Italia dall'Austria-Ungheria. A partire da metà del suo breve
corso (220 chilometri), raggiunge la pianura lasciando sulla destra
il massiccio del Grappa per compere un'ampia curva verso Est e
raggiungere il riposo nel mare Adriatico.
Alla fine del 1917 divenne la nuova frontiera, e fu lì che vennero
combattute le tre ultime battaglie della guerra. Di queste, la
terza fu anche l'ultima battaglia dell'intero conflitto
mondiale.
Il Piave fu presidiato dalla Terza Armata, comandata dal Duca
D'Aosta, ritiratasi da Caporetto in piena efficienza. Ebbe buon
gioco a contenere gli attacchi che portarono gli Austriaci a
passare il Piave a Zenson (il 12 novembre), dove furono respinti
sulla linea dell'argine. Il giorno dopo li aveva contenuti a
Grisolerfa e alle Grave di Papadopoli; il 16 a Fagarè, da dove
furono ricacciati già il 17, ultimo giorno della prima
battaglia.
Quello stesso 17 dicembre, seconda fase della battaglia, la Terza
Armata li aveva cacciati anche da Zenson.
Comunque sia, questa situazione fece nascere la leggenda del Piave
presso gli Italiani, ma anche presso i soldati nemici, che ormai
contavano solo sui propri comandi più che sull'Imperatore. Lo
svanire dell'opportunità che gli era stata presentata - del tutto
inattesa - di proseguire d'impeto la guerra fino alla vittoria,
ebbe del miracoloso in senso negativo, in quanto compiuta da ciò
che restava dell'esercito «disfatto» di Cadorna.
Lo stesso generale Caviglia a sostenne che fu la prima battaglia
del Piave ad essere quella militarmente più ardua, più difficile, e
più importante di quelle successive, perché fu vinta con forze,
difese e armamenti ben al di sotto di quelle che vennero dopo. Sarà
più tardi il Duce a stabilire che la battaglia del Piave
per definizione fu quella del Solstizio, avvenuta
nel giugno successivo, anche perché fu allora che nacque e si
diffuse la canzone di E. A. Mario. Ma ne parlereno in occasione del
suo novantesimo.
Il fatto era che, come abbiamo già accennato, stavolta la guerra
era sentita dal popolo italiano come una guerra di liberazione. Se
dapprincipio non era troppo chiaro perché dovessero morire tanti
giovani ragazzi per arrivare a Trento e a Trieste, adesso tutto era
cambiato. Gli Austriaci e i Tedeschi erano entrati in casa. Il
nostro secolare nemico stava venendo a vanificare più di mezzo
secolo di faticose conquiste risorgimentali. Se avessi perso la
guerra, sarebbero stati sconfitti Cavour, Garibaldi, Mazzini. Ma
soprattutto sarebbero venute a fare da padroni delle soldataglie
che non si erano fatte problemi ad usare i gas e i lanciafiamme, a
saccheggiare le proprietà dei civili nel Friuli e nel Veneto, a far
scappare centinaia di migliaia di profughi che costituivano
l'esempio tangibile di quello che comportava una loro
invasione.
Per questo l'intero Paese fu attraversato da un'ondata di
patriottismo come mai era accaduto prima nella sua storia. Nei
paesi, nelle piazze, nelle stazioni, spontaneamente iniziarono a
formarsi manifestazioni di sostegno per i soldati impegnati sul
Piave. Una qualsiasi notizia veniva accompagnata dal frastuono
delle campane di tutti i campanili. I preti invocavano
pubblicamente l'aiuto del Padre Eterno. Venivano intonati
spontaneamente cori militari e perfino i pacifisti adesso erano
pronti a scendere in armi. Un ideale patriottico popolare andava ad
accomunare tutti gli Italiani e non li avrebbe lasciati che
vent'anni dopo.
Con la resistenza sul Piave, l'Italia militare mutò aspetto. Una
cosa era chiara a tutti i vertici ormai. Per l'esercito attaccante,
qualunque fosse stata la sua superiorità, non ci sarebbe stato
scampo.
Schierato lungo la linea difensiva, alleviato dalla preoccupazione
di attaccare e di raggiungere l'obbiettivo immediato della
liberazione delle città irredente, l'esercito italiano attese
l'urto decisivo, prossimo e inevitabile, perché gli imperi centrali
erano costretti all'offensiva: l'ultima.
Guido de Mozzi
(Fine)