Grande Guerra. – 90 anni fa, la disfatta di Caporetto/ 3
Isonzo, fine ottobre 1917. La rotta
25 ottobre 1917, cade il
Governo Boselli.
Già agli inizi di ottobre, consapevoli che al Paese sarebbe
spettato un altro (il terzo) inverno in trincea, le parti politiche
contrarie alla guerra si erano nuovamente fatte sentire con forza.
Per la verità, nessuno se la sentiva di prendersi la responsabilità
di far uscire l'Italia dal conflitto. Non volendo compiere questo
passo, si erano trovati più o meno tutti d'accordo nel comune
obbiettivo di cavare il comando a Cadorna e le sue inutili stragi.
Meno compatta la maggioranza interventista, ma ugualmente
interessata a riversare sul comandante supremo le cause della
situazione insostenibile.
Il 16 ottobre inizia il dibattito alla camera, assumendo toni
violenti. Accusavano Cadorna di essere l'effettivo dittatore del
paese, per colpa della debolezza del governo Boselli. Il 23 ottobre
Orlando appoggia decisamente la guerra, ma senza per questo venir
meno agli obblighi costituzionali. Nella fretta, il ministro della
Guerra di Boselli spara una previsione intempestiva: «Mai sarà
calpestato dal nemico il suolo della Patria». Neanche fosse stato
un menagramo, fu proprio quella notte che scattò l'operazione
Caporetto.
Le notizie che
lungo l'Isonzo le cose stavano andando male giunsero però solo il
25 e, tanto per cambiare, per vie ufficiose. Quello stesso giorno
dunque il Presidente del consiglio Boselli chiede la fiducia e,
ovviamente, gliela negano. Il Re deve lasciare il fronte e correre
a Roma.
La scelta naturale cade su Vittorio Emanuele Orlando (nella foto qui a fianco), per il
quale Cadorna era il suo anticorpo. Già Salandra aveva provato a
silurare Cadorna in occasione della Strafe Expedition, ma proprio
in quell'occasione il presidente lo aveva visto all'opera e aveva
capito che solo lui era stato in grado di fermare Conrad sugli
altipiani, e se ne era tornato a Roma con un nulla di fatto. Ma
stavolta, Cadorna con Orlando non aveva chances: avrebbe avuto la
sua testa. Neppure il rischio di una disfatta avrebbe potuto
impedire la sua sostituzione.
Ma, a semplificargli le cose, gli venne incontro la stupidità
dialettica di Cadorna.
Forse preso da un attimo di sconforto, o di cecità transeunte,
aveva emesso il primo bollettino della sconfitta il 28 ottobre con
una farse destinata a rovinare la sua immagine per tutta la vita.
Scrive: «La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente
ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico,
ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala
sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre
truppe non sono riusciti ad impedire all'avversario di penetrare il
sacro suolo della patria.»
Il testo come sempre va alle redazioni dei giornali e il governo
non riesce ad impedire la diffusione del bollettino. Fa sequestrare
le copie in circolazione, ma questo accresce la gravità della
notizia. E' stato infangato l'esercito che fino a quel momento era
l'unica cosa che aveva invece funzionato consentendo al Paese, a
costo di inenarrabili sacrifici, di restare quella grande nazione
che aveva voluto sembrare. L'Italia era sull'orlo di un crollo
nazionale, come era accaduto in Russia.
Orlando si porta immediatamente sul fronte.
26-31 Ottobre 1917, fronte italiano. Si rischia la
disfatta.
Ma cosa era successo in realtà alla Seconda Armata, dato che
centinaia di migliaia di persone stavano ritirandosi verso
Occidente nel più totale disordine?
I guai iniziali li avevano provocati gli «imboscati», cioè quelli
che stavano nelle retrovie, dediti ai servizi, quelli che non
combattevano. Trovandosi faccia a faccia con il nemico senza che
neanche qualcuno ne avesse dato sentore, avevano abbandonato tutto
e se l'erano data a gambe. Come aveva detto un osservatore
militare, «la fuga inizia dalla coda. In un esercito sconfitto, i
primi a sbandarsi sono i servizi.»
Da parte loro, gli uomini in prima linea avevano da tempo maturalo
l'idea che la guerra veniva vinta con lo sfondamento del fronte. Ma
non avevano una reale idea di come sarebbe potuta finire
tecnicamente la guerra sia pur dopo una vittoria sul campo. Adesso
che le cose si erano rovesciate, cosa potevano pensare? Avevano
perso la guerra? Era davvero finita? Era giunto il momento di
tornare a casa?
Il guaio più grosso stava nel fatto che stavolta neanche gli
ufficiali dei reparti impegnati sapevano che cosa fare perché non
ricevevano ordini dai loro superiori. La cultura che avevano
imponeva loro di non arretrare mai, a qualunque costo ed è
comprensibile che nessuno se la sentisse di prendere iniziative in
tal senso. In qualche caso i soldati si arresero, in altri
gettarono il fucile e se la diedero a gambe, in altri semplicemente
decisero di tornare a casa. Questa grande e inarrestabile ritirata
spontanea, che man mano rendeva difficile se non impossibile
l'azione di quanti continuavano a combattere, rischiò di
trasformare la sconfitta di Caporetto in una disfatta
irreparabile.
Insomma, la
Seconda Armata, priva del suo comandante titolare (Capello) e con
ben due Corpi d'Armata del tutto ab-bandonati a se stessi (Badoglio
e Cavaciocchi), si era praticamente trasformata in una massa di
gente in fuga. Ad essi si unirono presto anche i civili che, alla
notizia dell'arrivo degli austro-tedeschi (a causa anche alla
triste fama di questi ultimi), avevano preso quello che potevano e
si erano ritirati verso Ovest.
Grande lavoro per i Carabinieri, ai quali venne comandato di
arrestare tutti i militari che non portavano il fucile, «prova
evidente della diserzione». Purtroppo questa fu la pagina più nera
per la nostra Giustizia militare. I processi, perlopiù sommari, si
concludevano con la fucilazione immediata. Centinaia di poveri
disgraziati caddero sotto il plotone di esecuzione, vittime
nell'ultimo atto di un terribile meccanismo che stava divorando
un'intera generazione.
Grande lavoro anche per quei pochi rimasti con la testa sulle
spalle che si adoperavano a gestire un ripiegamento da fare secondo
le direttive che il Comando Supremo (o di chi se ne assumeva la
responsabilità) diramava con l'immaginabile incongruenza.
Se la Seconda Armata si era sfasciata, la Terza si stava ritirando
con un certo ordine. Mentre i generali Caviglia e Di Giorgio si
sforzavano per tenere impegnato il nemico e ripiegare solo quando
non potevano più sostenere gli attacchi, il Duca D'Aosta riusciva a
portare i suoi al Tagliamento.
In tutto, i ponti rimasti intatti sul fiume erano una decina. A
Nord si trovava a passare il Corpo d'Armata della Carnia e quel che
rimaneva della Seconda Armata. Al centro, all'altezza di Codroipo,
si erano concentrati gli sbandati e i profughi. A Sud la terza
Armata, sia pur faticosamente, passava dai ponti di Madrisio e
Latisana. A parte quest'ultima, la confusione era totale.
A Nord il corpo speciale del generale Di Giorgio si stava
adoperando per tenere a bada il nemico, manovrando secondo
buonsenso ed esperienza, tanto da costringere il nemico a
modificare i propri piani originali. Fu una battaglia assurda, ma
necessaria per la sopravvivenza del Regio Esercito. Alla fine,
alcune unità non riuscirono a passare il Tagliamento solo perché i
genieri avevano fatto saltare i ponti prima che tutta la sua unità
fosse passata dall'altra parte.
Vista la pioggia che cadeva incessante da una decina di giorni, il
fiume era in piena.
In centro, a proteggere profughi e sbandati c'erano le divisioni di
Caviglia e Ferrero. Ma il 31 ottobre, anche le loro unità e le
retroguardie della Terza Armata erano riuscite a portarsi sulla
sponda destra.
26-31 Ottobre 1917, fronte Austro-Tedesco. Risultati al di
là di ogni rosea previsione.
Austriaci e tedeschi si trovano in condizione di dover avanzare nel
più breve tempo possibile. Soprattutto i servizi e le artiglierie
facevano fatica a tenere il passo con la massa di sfondamento.
Sotto la pioggia incessante, senza potersi permettere di dormire,
senza generi di necessità, riuscivano a compiere sforzi
giganteschi, soprattutto grazie a quell'incredibile risultato che
avevano ottenuto e che li spingeva in avanti.
Di tanto in tanto incrociavano migliaia di prigionieri italiani che
venivano condotti nelle retrovie. Imbracciavano ancora il fucile,
al quale era stato tolto l'otturatore. Per loro la guerra era
finita. L'alto numero di prigionieri era il frutto della nuova
tattica dei tedeschi, per cui riuscivamo ad accerchiare i reparti
nemici per poi obbligarli alla resa. L'allora giovane tenente
Rommel (la futura «Volpe del Deserto»), con i suoi 100 uomini aveva
fatto più di 800 prigionieri. (Nella foto sotto, cannoni abbandonati
dagli Italiani)
Nella
fretta di procedere per consolidare il successo tattico in una
vittoria strategica, nel pomeriggio del 28 ottobre il generale
Berrer si era fatto portare a Udine con la propria auto, mentre la
città era ancora occupata dalle retroguardie italiane. Venne ucciso
dalla fucilata di un carabiniere italiano che non sapeva di aver
sparato ad uno dei massimi comandanti nemici.
Per conquistare Udine era intervenuta per la prima volta anche la
cavalleria Bulgara, che fu particolarmente avida e brutale nei
saccheggi.
La sera del 29 ottobre, il generale Hofacker presenta a von Below
un nuovo piano di battaglia per adeguare l'avanzata alla situazione
che si evoluta in proprio favore molto meglio del previsto. Anziché
sfondare il centro del fronte italiano, come si era deciso in un
primo momento per passare di slancio il Tagliamento, propone di
passare il fiume a monte e di scendere verso il mare per incastrare
la Terza Armata tra il Tagliamento e il Piave.
Il piano, se fosse stato concepito più presto, avrebbe avuto grandi
probabilità di successo. Ma la mattina del 30 ormai era troppo
tardi perché la Terza Armata italiana era già in marcia verso il
Piave.
Non solo, fu proprio il pericolo avvertito da questa manovra che
fece decidere al comando supremo di ripiegare immediatamente verso
il Piave.
26-31 ottobre 1917. Le reazioni presso gli alleati
dell'Intesa.
Il 26 ottobre, quando Caporetto aveva già ceduto, ma il
ripiegamento non era ancora cominciato, il Comitato di Guerra
francese si era riunito in tutta fretta.
La situazione apparve presso i nostri alleati in tutta la sua
tragica realtà. Se l'Italia cedeva, i guai in prospettiva potevano
essere di due tipi. Il migliore era che, se l'Italia fosse uscita
dalla guerra, gli Imperi centrali avrebbero avuto a disposizione
altre 50 divisioni in più. Il peggiore era che, se Austria e
Germania avessero deciso di attaccare la Francia dalla frontiera
italiana (e magari, nella fretta, da quella svizzera), le sorti
della guerra sarebbero state ben prevedibili. Anche perché
l'intervento ormai dichiarato degli Stati Uniti lasciava
presupporre che gli Americani non sarebbero stati pronti prima del
1919. I Francesi ragionavano sulla base delle proprie capacità
organizzative.
Comunque sia, una
cosa era certa: l'Italia doveva reggere a tutti i costi. Decisero
di mandare subito il generale Foch (nella foto qui di fianco) da
Cadorna. E di farlo seguire a breve distanza da 4 divisioni.
Cadorna non gradì la visita del collega. Il 30 ottobre aveva già
portato il comando a Treviso e a Padova, cosa che Foch giudicò
negativamente. Treviso stava a significare che Cadorna prevedeva il
Piave, Padova faceva pensare addirittura al Brenta. Non è che Foch
sia poi stato tanto più coraggioso, dato che le divisioni francesi
vennero fatte accampare dalle parti di Verona, sulla riva destra
dell'Adige, naturalmente.
Comunque sia, Cadorna aveva ragione sulla linea del Piave. In
questa maniera riduceva il fronte di centinaia di chilometri
rispetto al 24 maggio del 1915, e poi il Trentino e il Grappa
sarebbero stati inespugnabili. «Qualunque cosa accada - aveva
proclamato Cadorna 20 giorni prima di Caporetto - bisogna che il
Grappa sia imprendibile.»
Restava il Piave come linea dove si sarebbe giocato il futuro del
Paese.
Anche il Presidente del consiglio Orlando, che per il momento non
aveva potuto silurare Cadorna perché non c'era ancora una valida
alternativa, raggiunse il fronte. Insieme al Re si incontrò con
Foch, protestando una serie di lamentele che aveva tutte le ragioni
di mettere sul piatto. In un momento come quello, in cui doveva
chiedere al Paese uno sforzo sovrumano per contrastare il nemico in
casa, il presidente americano Wilson stava per intervenire a fianco
dell'Intesa predicando l'autodeterminazione dei popoli. Sanissimo
principio, per carità, ma in quel momento deleterio. Se se da una
parte comportava lo smembramento dell'Impero Austro Ungarico,
dall'altra impediva di fatto all'Italia nientemeno che annettersi
Trieste, la cui italianità «era tutta da provare». Se si pensa che
l'Intesa aveva convinto l'Italia ad entrare in guerra con la
promessa di Trieste, in effetti c'era da stare poco allegri. Anche
vincendo, i nostri 600 mila morti non sarebbero serviti a
niente…
Il 31 ottobre giunse anche il generale inglese Robertson che,
insieme Foch, fece un vertice con Cadorna. Al termine
dell'incontro, inviarono la seguente relazione ai propri
governi.
1. Le Armate italiane non sono state battute, ma solo la Seconda
Armata.
2. Il regio Esercito dovrà essere portato sulla sponda destra del
Piave.
3. Il destino dell'Italia, nonostante il possibile appoggio degli
alleati, dipende solo dalla capacità italiana di resistere.
4 novembre 1917. Vigilia della battaglia del
Piave.
Mentre le truppe italiane si stavano ritirando abbastanza
ordinatamente verso il Piave, il morale degli Austro-Tedeschi era
alle stelle. Il bilancio della loro offensiva aveva
dell'incredibile e aveva meravigliato gli stessi comandi. Questo il
«bottino*»:
- 100.000 italiani uccisi, feriti o catturati;
- 1.000 cannoni;
- 5.000.000 di scatolette di carne;
- 700.000 scatolette di salmone;
- 27.000 quintali di gallette;
- 13.000 quintali di pasta;
- 7.200 quintali di riso;
- 2.530 quintali di caffé;
- 4.900 ettolitri di vino;
- 672.000 camice;
- 637.000 mutande;
- 430.000 paia di pantaloni;
- 823.000 calze;
- 321.000 paia di scarpe.
* Fonte: Gianni Rocca, «Cadorna».
Nessuno di loro poteva immaginare che esattamente un anno dopo
sarebbero stati battuti e l'Impero si sarebbe sfasciato. Per il
momento pensavano solo a sfondare la linea del Piave. L'Italia,
secolare nemico, era piegata. I vertici austro tedeschi
avevano già predisposto i ritratti dei loro comandanti da apporre
negli uffici di Venezia. Ora sono esposti al Museo della Guerra di
Rovereto.
In effetti, non sapevano che invece una cosa era profondamente
cambiata in Italia, anche se nessuno l'aveva ancora avvertita. Il
popolo italiano si stava svegliando. L'Italia era in pericolo ed
ora sì c'erano validi motivi per combattere fino alla morte. Il
Piave stava per entrare nella storia d'Europa.
Guido de Mozzi