Grande Guerra. – 90 anni fa, la disfatta di Caporetto/ 1
Ottobre 1917. Gli eventi che portarono alla battaglia
All'indomani della battaglia
dell'Ortigara (giugno 1917), anche l'Impero Austro-ungarico aveva
capito che in Trentino la guerra non si sarebbe risolta per nessuna
delle parti in lotta. Sull'Isonzo, invece, l'Undicesima Battaglia
(luglio 1917) scatenata da Cadorna con un impiego gigantesco di
mezzi, aveva dimostrato che con ogni probabilità la Dodicesima
avrebbe potuto far crollare l'intero dispositivo di difesa
austriaco. L'episodio di Carzano (metà settembre 1917) era stato
solo un'interferenza indebita e nulla più. Cadorna per un
brevissimo momento ci aveva creduto ma, come ebbe modo di dire al
maggiore Pettorelli che diresse l'operazione, «Non posso mettermi a
costruire i generali apposta per lei».
1. Da parte Austro Ungarica.
L'Austria aveva capito da tempo che sul versante Trentino non
avrebbe più rischiato uno sfondamento da parte del nemico italiano.
L'incidente di Carzano era stato pericolosissimo, ma non aveva
fatto altro che confermare che non c'era molto da temere.
Sull'Isonzo le cose erano ben diverse. Quel testone di Cadorna,
alla lunga, rischiava davvero di farcela. Anni prima della guerra
era stato visto aggirarsi in giro sul Carso con teodoliti e altri
strumenti di misurazione, con la scusa che era un ingegnere che
faceva i suoi bravi rilevamenti per studiare chissà che cosa.
Adesso avevano capito che da sempre il Comandante supremo del Regio
Esercito Italiano aveva per la testa l'attacco all'Impero
cominciando da Trieste. Suo padre, il generale Raffaele, è passato
alla storia per essere entrato a Roma attraverso la «breccia» che
aveva aperto a cannonate. Pochi ricorderanno
invece che era arrivato addirittura a Cormons alla testa della sua
armata alla fine della Terza guerra di indipendenza, e ci era
arrivato senza colpo ferire perché ormai la guerra era finita.
Armistizio e pace restituirono all'Impero Austro Ungarico il Friuli
e Raffaele* Cadorna era dovuto rientrare in Italia
a mani vuote. Era arrivato troppo tardi. Adesso, suo figlio Luigi
era lì alla testa di due milioni di uomini, decisi a prendersi
Trieste con una «spallata», come diceva lui riferendosi alle
battaglie sull'Isonzo, o con un «colpo di clava», quando si
riferiva alla inevitabile battaglia finale.
(Nell'mmagine sopra, la
«Toten Tanz», la «Danza della Morte»)
Da parte austriaca, il generale Conrad conosceva molto meglio il
Trentino del Carso, non a caso aveva scatenato lì la infruttuosa
«Strafe Expedition». Dalla fine della battaglia dell'Ortigara,
comunque, l'Imperial-Regio esercito austro-ungarico aveva
cominciato a trasferire uomini e artiglierie sul Carso. Era
questione di vita o di morte. L'impero stava letteralmente morendo
di fame e la popolarità del nuovo imperatore Carlo, succeduto alla
morte di Francesco Giuseppe avvenuta nel 1916, non era ancora
sufficiente da garantire scelte drammatiche per il Paese. La
decisione di limitarsi alla difesa si era dimostrata vincente
all'inizio della guerra, perché i propri caduti erano sempre
inferiori a quelli del nemico. Ma adesso avrebbero dovuto prendere
una decisione. Gli Stati Uniti sarebbero presto scesi in campo ed
era quindi solo questione di mesi. La guerra andava conclusa
prima.
L'imperatore aveva anche provato ad intessere timidi approcci per
una uscita onorevole dalla guerra, ma aveva trovato troppi
ostacoli. Primo, non poteva più cedere il Trentino all'Italia (che
certamente lo avrebbe preteso in cambio della pace) perché
difenderlo era costato troppi caduti. Secondo, gli alleati
dell'Intesa non avrebbero mai lasciato uscire l'Italia dal
conflitto da sola e quindi il tutto andava trattato con gli
alleati.
Ma adesso che la Russia Zarista era uscita di scena, si era
presentata una nuova opportunità. Senza più dover mantenere due
fronti, forse avrebbe potuto raccogliere le forze e prendere
l'iniziativa.
L'Impero aveva comunque bisogno di aiuto, altrimenti anche
l'Austria non avrebbe potuto permettersi di intraprendere
un'offensiva sull'Isonzo.
Fu allora che decisero di rivolgersi nuovamente al Kaiser
Guglielmo. Non era la prima volta, ma alla fin dei conti anche loro
adesso avevano un solo fronte…
Agli inizi di settembre 1917, Conrad si recò a Berlino con una
lettera per il Kaiser Guglielmo da parte del suo imperatore. Col
cuore in mano, Carlo chiedeva aiuto militare contro l'Italia.
Ludendorff la pensava come i suoi predecessori capi di Stato
maggiore, per cui la guerra con l'Italia riguardava solo l'Austria.
Stavolta però c'era anche Hindenburg, il quale fece un altro
ragionamento. Con l'Italia messa in ginocchio, battere l'Intesa
sarebbe stato più facile. O meglio, più rapido. Anche i tedeschi
volevano chiudere la partita prima dell'entrata in gioco degli
Americani. Fece analizzare l'attacco progettato da Conrad e lo
scartò immediatamente. In compenso però incaricò uno degli
osservatori più accreditati al suo comando, il generale
Dellmensinger, di fare un sopralluogo sul fronte dell'Isonzo.
Questi partì immediatamente ed ispezionò
tutto il fronte. Poi si soffermò sul settore tra Plezzo e Tolmino.
Infine tornò da Hindenburg a riferire. Sì, una piccola possibilità
c'era, ma era ai margini delle possibilità di successo.
Certamente il progetto andava rifatto completamente dai tedeschi. E
dai tedeschi doveva essere coordinato, diretto e messo in atto. Per
la verità, gli Austriaci avrebbero richiesto solo l'intervento
della famosa artiglieria tedesca, preferendo vincere da soli
l'odiato nemico italico, ma non ci fu nulla da fare. Al massimo
avrebbero concesso il coordinamento «virtuale» (come si sarebbe
detto oggi) al Granduca Eugenio, per puri motivi di facciata. Fatto
sta che tutto il comando andò in mano ai Tedeschi. (Nella foto sopra, da sinistra,
Hindenburg, Guglielmo II e Ludendorff)
Era il 5 settembre e la Germania non volle perdere un solo giorno.
Già l'indomani della battaglia di Riga (vinta i 5 settembre) i
tedeschi ritirarono 2 divisioni dal fronte russo. Altre due
divisioni vennero tolte dal fronte Rumeno e altre due dal settore
dell'Alsazia e Lorena. Raggrupparono le sei divisioni nella nuova
14ª Armata e la affidarono al generale Otto von Below. Il tutto in
soli 5 giorni, perché già il 10 settembre venivano adottate le
decisioni sul piano strategico. L'obbiettivo era di ricacciare gli
Italiani al confine in essere all'inizio del conflitto, i tempi
prevedevano un intervento tra il 10 e il 20 ottobre. Von Below
affidò le divisioni a tre generali di sua fiducia, mentre assegnò a
Conrad la piazzaforte del Trentino, dove avrebbe dovuto solamente
«fingere» di organizzare un attacco da quella direzione.
A quel punto, sull'Isonzo erano dislocate due armate, la tedesca
14ª di von Below (dal monte Rombon a Tolino compresa), l'austriaca
Isonzo Armée di Boroevich da Tolmino al mare. La battaglia si
sarebbe scatenata dal Rombon a Kal (Bainsizza), impiegando 200
battaglioni, contro i 105 italiani, con 2.183 bocche da fuoco,
contro le 1.012 italiane.
La 14ª armata di von Below contava su 5 corpi d'armata, per un
totale di 15 divisioni, più 3 di riserva austriache. La 2ª armata
italiana di Capello fronteggiava quella di von Below con 2 soli
corpi d'armata, il IV di Cavaciocchi e il famoso XXVII di Badoglio,
per un totale di sole 7 divisioni, più 2 di riserva.
Senza voler scendere in noiosi dettagli militari, il piano
strategico di von Below era così articolato. Senza contare sulla
fortuna, che invece lo avrebbe decisamente sorretto, decise di
muoversi in tre direzioni. La principale consisteva nello scendere
da ovest sul lato destro dell'Isonzo, grazie alla testa di ponte
che gli Austriaci avevano conservato a Tolmino. La seconda e la
terza consistevano in due operazioni di aggiramento delle forze
Italiane di stanza sulla sinistra dell'Isonzo per poi allacciarsi
alla prima e con quella discendere l'Isonzo separando così due
armate italiane e puntando verso Udine dove risiedeva il Comando
supremo italiano. Un successo in tal senso avrebbe certamente
sconvolto il dispositivo di difesa predisposto da Cadorna. Era
previsto l'utilizzo dei gas, era consentito il saccheggio.
2. Da parte italiana.
Messo da parte il «sogno» di Carzano, Cadorna aveva esaminato a
lungo la situazione, perché aveva molti problemi da risolvere, e da
solo. Si ritirò più volte ufficialmente in vacanza, ma in realtà
aveva solo bisogno di pensare. L'andamento incerto della guerra, e
segnatamente gli scarsi risultati a fronte di elevatissime perdite;
la situazione sociale del Paese che sembrava sfuggire al controllo
del governo (c'erano troppi morti per una guerra che nessuno
sentiva, c'erano troppi imboscati che riuscivano ad evitare la
divisa e c'era troppo poco da mangiare per tutti); il crollo
dell'impero zarista in Russia poteva essere un esempio
pericolosissimo, e solo con la «mano forte» si sarebbe riusciti a
mantenere la disciplina. Ma soprattutto c'erano i suoi
generali.
(Nell'immagine qui
sotto, una cartolina con una poesia di riscatto su
Caporetto)
Lui comandava un
esercito di due milioni di uomini, il 15% dei quali erano in prima
linea, suddivisi in cinque grandi unità, ognuna delle quali
paragonabile per dimensioni ad un'intera armata napoleonica. Un
comandante supremo come lui avrebbe dovuto solo impartire
direttive, affidando così ad ogni singola capacità strategica la
conduzione delle operazioni, ma proprio i suoi generali avevano
dimostrato una grande incompetenza, come se fossero disancorati
dalla realtà del campo di battaglia. Per loro la guerra era
diventata una normale routine, al massimo un'opportunità di fare
carriera e magari di coprirsi di gloria.
Il comandante della Terza Armata era il Duca D'Aosta, cugino del
Re. Nulla da dire su di lui, anzi, salvo il fatto che appunto era
l'unico titolato a prendere il suo posto. A comandare la Seconda
Armata c'era Capello, il quale esprimeva troppo (e male) la propria
soggettività agendo apertamente «contro» le direttive stesse di
Cadorna, rischiando di mettere sempre a repentaglio l'andamento
delle grandi battaglie. Basti pensare alla presa della Bainsizza.
Il merito fu esclusivamente del generale Caviglia, il quale era
riuscito a portare a casa un ottimo risultato, anche se Capello
aveva di propria iniziativa esteso il fronte a grandezze
ingestibili. E poi Capello non piaceva alla truppa. Mentre il Duca
D'Aosta era amato (non a caso i maggiori eroismi si manifestarono
nella Terza Armata), Capello era conosciuto come un sanguinario.
Perfino in Libia aveva lasciato una lunga scia di morti, tanto che
la truppa chiamava sarcasticamente «Villa Capello» il cimitero di
Tripoli.
Ai comandi di Capello cerano parecchi generali. Uno di essi si
chiamava Badoglio, e Cadorna lo conosceva bene perché lo aveva
avuto a capo della sua segreteria da colonnello prima di
autorizzarlo a compiere la conquista del Sabotino. Conquista che
Badoglio raggiunse con un po' di iniziativa e un sacco di perdite,
senza conseguire peraltro un significativo risultato strategico.
Indubbiamente aveva portato a casa un risultato di facciata molto
utile in quei tempi. Chissà se, adesso che era diventato
addirittura un generale di corpo d'armata, il XXVII, sarebbe stato
all'altezza dei nuovi compiti. Con Capello c'era appunto anche
Caviglia, il conquistatore della Bainsizza. Caviglia era molto
amato dalla truppa perché non chiedeva mai l'impossibile. Per lui
non esistevano termini come «resistere a qualunque costo» oppure
«avanzare senza esitazione». Sapeva che quando era il momento, i
suoi ragazzi avrebbero dato il massimo, o che comunque non
avrebbero potuto dare di più. Sempre agli ordini di Capello c'era
anche il generale Cavaciocchi, alla testa del IV Corpo d'Armata, il
quale aveva le sue truppe dislocate in un territorio al centro del
quale c'era una piccola cittadina chiamata Caporetto, un posto
abbastanza sicuro perché la lunga ansa dell'Isonzo formava da sola
una impenetrabile linea di sicurezza…
Infine c'era un altro generale, un certo Montuori, il quale non
comandava nessuna unità ma, essendo il sottocapo di stato maggiore
di Capello, si sarebbe trovato di fatto a comandare l'intera
Seconda Armata perché proprio nel momento cruciale Capello avrebbe
avuto una grave crisi di nefrite al punto di dover essere
ricoverato con urgenza a Padova.
Cadorna sapeva esattamente che cosa sarebbe accaduto il 23
o il 24 settembre del 1917. Si sarebbero riversate contro di lui le
6 divisioni di von Below. Tante erano state le informative giunte
sul suo tavolo, perché l'Ufficio Informazioni militari e l'Ufficio
Situazione sapevano fare il loro lavoro. Molti disertori e
cospiratori che avevano lasciato l'esercito austro ungarico avevano
confermato per filo e per segno la traccia delle operazioni che il
nemico avrebbe scatenato. Si era addirittura a conoscenza della
posizione di partenza dell'attacco, della data e dell'ora. Ampie
intercettazioni telefoniche e radio erano state fatte da più parti
e deponevano tutte nella stessa direzione.
Dei battaglioni tedeschi che si stavano esercitando in Trentino,
Cadorna sapeva che erano lì solo per distrarre gli osservatori
italiani.
Fin dagli inizi di ottobre, e questo era la conferma di tutto,
l'Austria aveva chiuso i confini con la Svizzera. Era da lì che
passavano le informazioni e l'unico modo per tagliarle era di
impedire ogni comunicazione.
Infine, le truppe assestate vicino a Tolmino continuavano a
registrare un frenetico passaggio di militari, di carri e di
automezzi intenti a rifornire di uomini e materiali le posizioni
austriache.
Ovviamente, della sua convinzione ne aveva fatto partecipe Capello
perché la Seconda Armata era quella che avrebbe dovuto sostenere
l'impatto principale. Agli inizi di ottobre Cadorna aveva dunque
dato disposizioni precise sul sistema difensivo che Capello avrebbe
dovuto disporre nelle zone a rischio. Poi era passato dal Veneto a
controllare alcune misure difensive che aveva predisposto
l'indomani della Strafe Expedition. Una linea trincerata a sud del
Piace, un'altra sull'altipiano di Asiago. Sul monte Grappa aveva
fatto costruire una strada militare e delle trincee in grado di
sostenere qualsiasi attacco. Il Grappa, diceva, sarebbe stato il
cardine dell'intero dispositivo di difesa nel malaugurato caso che
il fronte dell'Isonzo avesse dovuto cedere. A Vicenza, dove
risiedeva la Terza Armata, si era raccomandato affinché il Monte
Grappa venisse tenuto sempre all'erta e ben presidiato. Forse lo
stato maggiore dell'armata non aveva capito il perché, ma Cadorna
lo sapeva benissimo. (Nella foto sotto, a sinistra
Cadorna e a destra Capello)
Il 17
ottobre, tornato dalle «ferie», Cadorna prese atto che Capello
aveva disatteso le sue disposizioni per opporre al nemico una
difesa «attiva», ovvero una resistenza con conseguente contrattacco
immediato. In più, e fu qui che Cadorna andò in bestia, Capello non
aveva disposto il ritiro di Caviglia dalla Bainsizza (che sarebbe
stata indifendibile in caso di attacco da Plezzo) ed anzi aveva
ipotizzato di utilizzare il corpo di Caviglia per accerchiare da
Nord Est le eventuali forze nemiche che avessero provato a sfondare
il fronte. «Le divisioni di Caviglia sarebbero piombate come dei
falchi sul nemico.» Operazione, questa, che sarebbe stata forse
sostenibile nella Seconda Guerra mondiale con una logistica
perfettamente rodata e funzionante, ma impossibile da realizzare in
quel frangente, come aveva dimostrato recentemente l'insuccesso di
Carzano.
Perfino il XXIV Corpo d'Armata, comandato da Badoglio, aveva
lasciato le artiglierie sulla sinistra dell'Isonzo. Pura
follia.
Cadorna convocò per quello stesso 17 ottobre il generale Capello,
il quale si presentò da lui in condizioni fisiche talmente
malandate che dovette farsi aiutare per salire al primo piano del
Comando. Cadorna urlò come poche volte aveva fatto, snocciolando
l'elenco delle clamorose disobbedienze ai suoi ordini e i
grossolani errori di vedute militari. In particolare, oltre al
ruolo temerario che aveva affidato a Caviglia sulla Bainsizza, urlò
come un pazzo perché il comandante della Seconda Armata aveva
voluto mantenere le artiglierie di Badoglio sulla sinistra
dell'Isonzo. In caso di attacco insostenibile, gridò Cadorna, le
artiglierie sarebbero state perdute in brevissimo tempo. Ormai non
c'era più niente da fare, Diede nuove disposizioni a Capello per
correggere i buchi riscontrati, poi lo congedò, avvisandolo che il
20 ottobre sarebbe venuto a fare un'ispezione.
In quei due giorni, Cadorna predispose alcune misure opportune nel
caso malaugurato di un cedimento del fronte. Si sarebbero rivelate
preziosissime.
Quando andò a fare l'ispezione il 20 ottobre, Capello lo stava
aspettando con suoi comandanti di Corpo d'Armata. Nulla era stato
fatto di quanto aveva disposto e allora domandò a Badoglio, quello
che conosceva meglio, se si sentiva a posto con la coscienza, dato
che proprio le sue artiglierie erano tuttora sul versante sinistro
dell'Isonzo.
«Ho dimenticato solo una cosa… - rispose spudoratamente Badoglio. -
Non ho predisposto i campi di concentramento per accogliere le
decine di migliaia di prigionieri che faremo.»
Cadorna tornò al comando con la chiara visione della situazione.
Mise in allerta il comando delle ferrovie e fece predisporre un
piano per il ritiro immediato delle truppe nel caso di sfondamento.
Quindi ordinò all'ufficio operazioni di organizzare un «possibile»
trasferimento dell'artiglieria pesante al di là della linea del
Piave.
Luigi Cadorna sarebbe passato alla storia per le undici inutili e
sanguinose battaglie sull'Isonzo, e nessuno lo ricorderà mai per
aver salvato l'Italia dalla rotta definitiva, avendo visto
realisticamente nella linea del Piave e del Grappa l'unica reale
possibilità di arresto del nemico.
G. de Mozzi
*Anche il figlio di Luigi Cadorna si chiamava
Raffaele come il nonno. Comandò l'Esercito di liberazione nazionale
che liberò l'Italia nel 1945.