Il libro storico della settimana – Di Guido de Mozzi
Titolo: Carzano 1917 Autore: Luigi Sardi Editore: Curcu Genovese 2007 Pagine 304, brossura (Altre recensioni in Pagine di Storia)
IL CONTENUTO
Il libro racconta nel dettaglio il fatto d'arme accaduto il 17
luglio 1917 a Carzano (Valsugana), dove Il Regio esercito Italiano
si giocò la possibilità di infliggere al nemico Austro Ungarico una
sconfitta come quella che invece l'Austria riuscì a farci subire
due mesi più tardi a Caporetto.
Mentre l'esercito austriaco alleggeriva il fronte trentino per
ammassare truppe sul Carso, una quarantina di soldati cechi tramò
per favorire lo sfondamento del fronte in Valsugana da parte del
nostro esercito. I nostri servizi informazione fecero un magnifico
lavoro sia di intelligence che organizzativo, tanto vero che il
capo del SIM (Servizio Informazioni Militari), maggiore Pettorelli,
fu uno degli eroi della vicenda. Ma quando fu il momento di
articolare l'attacco, nulla funzionò. Anzi, poche ore dopo
l'inizio, quando vennero fatti fluire 200 prigionieri austriaci
dietro le nostre linee, il generale Etna ordinò la ritirata dicendo
che «il successo fin lì raggiunto era più che sufficiente». Da quel
momento in poi, per i nostri bersaglieri abbandonati a se stessi,
non ci fu più nulla da fare. Isolati a Carzano (vicino a Strigno),
i nostri ragazzi vennero addirittura presi a cannonate dalla nostra
artiglieria. Ne morirono 800 e, insieme a loro, altri 400
austriaci.
Quella che poteva essere una «invasione lampo del territorio
austriaco fino a Trento», si trasformò in un'inutile carneficina
per colpa di generali inetti e totalmente privi di logica
militare.
Per quasi 40 anni non si poté o non di volle parlare di Carzano, né
da una parte né dall'altra. Ma poi, finalmente, dopo la Seconda
guerra sono stati scritti vari testi in merito. Questo è il più
recente ma anche il più competo, scritto in occasione del 90°
anniversario, ovvero nel luglio 2007.
Ne parlammo in un articolo pubblicato il 17 luglio 2007 in Pagina
della Storia, dove lo si può ancora leggere.
IL COMMENTO
Luigi Sardi è un ottimo giornalista e tale si è dimostrato anche in
questo libro, nel quale ha fatto anche lo storico. Forse è meglio
specificare che la differenza tra la prima e la seconda
impostazione professionale, sta nel fatto che il giornalista non
effettua verifiche storiche ma le cita. Lo storico invece lavora
solo sui documenti originali, e quando si trova costretto ad
affidarsi a citazioni altrui, tra i quali gli stessi protagonisti,
avverte appunto che si tratta di «relata refero».
In questo libro, dicevo, Sardi si dimostra ottimo giornalista
perché riesce a mettere insieme in maniera scorrevole una serie di
avvenimenti storici coerentemente legati fra loro e perfettamente
inquadrati nel contesto strategico della guerra. Il materiale sul
quale lavora è in gran parte di pubblico dominio, ed io stesso
avevo letto o consultato buona parte delle sue fonti. Avendo il
senso della notizia, però, Sardi sa cogliere il punto in ogni
situazione che descrive e ne trae una vicenda carica di emozioni e
di suspence.
Come storico, Sardi ha il merito di aver consultato anche materiale
di non comune accessibilità, quali i documenti giacenti presso il
Museo storico Trentino. E dirò che mi ha fatto molto piacere
leggere quanto versato il questa splendida ricostruzione dei fatti,
proprio perché molte cose non le sapevo affatto.
Luigi sardi non ha la pretesa di scrivere un trattato storico,
quanto piuttosto di mettere in luce tutta una serie di particolari
utilissimi per far capire che cosa sia stata la Grande Guerra per
la nostra popolazione, al di qua e al di là del «Maso», il torrente
che gettandosi nel Brenta fungeva da confine di linea a metà
Valsugana. Io stesso, da Trentino prima ancora che da appassionato
di storia, ho letto con delizia tutti i resoconti che ha riportato
sia sull'attività militare nelle retrovie, che sulla vita dei
cittadini di Carzano e di tutta l'area coinvolta da lì fino a
Trento.
A me piace leggere trattati di operazioni militari, ma ancora di
più i dettagli extra bellici, perché sono questi che aiutano a
raccordare la storia con la cronaca. Non avrebbe senso infatti
parlare di guerre e di battaglie senza tener presente che
accadevano in mezzo a popolazioni civili. I militari erano solo la
portante degli avvenimenti accaduti, ma gli attori (protagonisti e
comprimari) erano e restavano i cittadini, i paesani, gli uomini
della strada, le popolazioni inermi. Dall'esposizione di Sardi si
riesce a dare corpo a tutta l'Alta Valsugana, la si vede armata ma
fragile, affamata e debole, popolata da gente che deve comunque
sopravvivere anche senza il fucile in mano, animata da cospiratori
credenti e da eroi convinti.
E' difficile in tutto il suo racconto riuscire a stare da una parte
o dall'altra delle parti in lotta e questo, secondo me, è stato il
suo vero grande risultato di narratore.
Si sa fin dall'inizio come andrà a finire, ma si spera fino alla
fine che le cose prenderanno un'altra piega. Come se volessimo
rifare un sogno (quello di Carzano, appunto) per farlo concludere
come lo vorremmo noi.
Questo Sardi è riuscito a farlo proprio perché ha la sensibilità
del giornalista, e forse non sarebbe riuscito a farlo se fosse
stato solo uno storico.
Tra le cose che più mi sono state preziose ci sono la vita dei
protagonisti prima e dopo i fatti di Carzano. Mi ha emozionato la
volontà di Pettorelli di essere sepolto nel cimitero di Carzano i
mezzo ai suoi bersaglieri caduti, così come il Duca D'Aosta aveva
voluto essere inumato insieme ai suoi 100.000 ragazzi sepolti a
Redipuglia. Ho gradito anche l'inquadramento di Cadorna perché - al
di là della sua poca considerazione per la vita altrui, tipico
purtroppo della sua generazione militare - era stato un serio
professionista, forse l'unico grande stratega del paese e uno dei
migliori d'Europa, e comunque tale da mettere in ombra la maggior
parte dei suoi generali (compresi quelli che poi si
sarebbero battuti sul Piave e a Vittorio Veneto).
Utile la semplice descrizione della nascita, dell'addestramento e
dell'utilizzo operativo del corpo degli «Arditi», che a Carzano
fatalmente non venne usato. Prezioso l'inciso dei battaglioni
tedeschi in addestramento sul Bondone e nella zona di Levico.
Se posso fare degli appunti a quest'opera, senza toccare la qualità
e il livello di cui ho parlato, ne avrei tre.
Uno sta nei numeri romani delle unità militari con la
segnatura «°» e «ª» a destra in alto del numero. Come si sa, V è
quinto o quinta senza bisogno della ° o della ª, e questo errore
persiste per tutto il libro.
Il secondo sta nella mancanza di informazioni sui fatti che
accaddero ad altri personaggi del gruppo dei cospiratori dopo la
guerra. Racconta la fine fatta dal tenente Pivco, che morì prima
della Seconda Guerra, ma non riporta la fine fatta dai suoi
colleghi cospiratori che sopravvissero fino all'invasione di
Hitler, quando il führer annesse i Sudeti alla Germania. Per prima
cosa fece fucilare tutti i responsabili del tradimento di Carzano,
che erano inseriti alla guida del paese.
Il terzo merita qualche parola in più.
Forse andava sottolineato che il «Sogno di Carzano» - così come lo
aveva giustamente definito il maggiore Pettorelli, uno dei
protagonisti principali della vicenda - altro non poteva essere che
un sogno. Lo stesso maggiore, quando scrisse il suo libro, mai
distribuito e conservato in qualche copia al Museo Storico del
Trentino, intendeva dire proprio che non era possibile realizzarlo.
Un sogno, appunto.
Si provi a pensare ad una guerra di posizione che stava macinando
qualcosa come 100.000 morti al mese per la sola ragione che i
generali comandanti in capo dell'epoca avevano nel proprio DNA la
guerra intesa solo come trincea da difendere da una parte e trincea
da sfondare dall'altra. Erano tutti militari nati intorno alla metà
dell'800 e si erano formati quando ancora si studiavano le guerre
Napoleoniche per comprendere come il «piccolo» imperatore avesse
fatto a conquistare l'Europa. La seconda rivoluzione industriale
aveva poi messo nelle mani di quei generali degli strumenti
micidiali, tanto vero che se l'arma di Napoleone era stata il
cannone, l'arma della Grande Guerra è rappresentata dalla
mitragliatrice (così come nella Seconda Guerra lo sarà il carro
armato, in quella del Vietnam l'elicottero, in quella del Golfo
l'aereo, ecc.).
L'organizzazione militare era perfettamente funzionante nella
logistica, a patto che non si dovessero muovere strategicamente
interi reparti ad uso tattico e grandi unità ad impiego strategico.
Semplicemente quei generali non erano mentalmente attrezzati per
farlo.
Ma anche la Strafe Expedition era fallita solo perché, una volta
sfondate le trincee italiane sugli altipiani di Folgaria e
Lavarone, nessuno era stato in grado di spostare per tempo l'intero
dispositivo militare austriaco. Neanche a Hypres i tedeschi erano
riusciti a capitalizzare lo sfondamento. E perfino a Caporetto gli
austro-tedeschi non riuscirono a fare nulla per sostenere le
proprie truppe che avevano sfondato in profondità al di là di ogni
ottimistica previsione.
Bene, in una situazione militare siffata, si provi a immaginare di
mettere in moto una macchina formata (come indicava il piano) da
qualcosa come 15.000 uomini, qualche centinaio di autocarri per
trasferire cannoni e mitragliatrici, una squadriglia di aerei il
cui impiego era ancora disancorato dalle operazioni terrestri. E,
si badi bene, secondo una tabella di marcia che avrebbe messo in
difficoltà addirittura von Rundstet della Seconda guerra.
Nel Trentino l'esercito austriaco era ai minimi storici e anche i
battaglioni tedeschi in addestramento nella zona di Levico (qui
disclocati per distrarre con la loro presenza le osservazioni
nemiche) non avevano avuto il battesimo del fuoco. I reparti negli
altopiani avrebbero avuto seri problemi a scendere a valle per
contrastare la nostra invasione, per le stesse ragioni che dicevamo
sopra. Non condividiamo quello che ha scritto Sardi sulle
«insormontabili» reazioni austriache nell'ipotesi (fantastica) che
la macchina militare italiana fosse davvero stata messa in moto
come da manuale. Riteniamo invece che sarebbe bastato disporre di
qualche migliaio di militari davvero agguerriti (sarebbero bastati
alcuni battaglioni di semplicissima fanteria che avessero già fatto
anche un solo assalto nel Carso) per sconvolgere lo scacchiere del
Trentino meridionale quel tanto che bastava per consentire ai
reparti regolari di prendere posizione al seguito.
Un treno carico di arditi avrebbe potuto impadronirsi
facilmente del treno che la notte riposava acceso a Borgo.
Avrebbe così potuto risalire velocemente la Valsugana per poi
discendere verso Trento. Avrebbero fatto un paio di colpi di mano,
uno a Levico e uno al Cirè per impadronirsi dell'aeroporto, quindi
sarebbero arrivati alla stazione di Trento e avrebbero preso
d'assalto l'intero comando della Piazza militare austriaca, che era
di stanza nell'attuale sede della Provincia autonoma di Trento,
cioè a due passi dalla stazione.
Nel frattempo i bersaglieri, con le loro biciclette, avrebbero
potuto occupare e consolidare le postazioni di artiglieria e
mitragliatrici, e i distaccamenti più importanti, in attesa che
arrivassero le nostre fanterie, le nostre artiglierie e le nostre
mitragliatrici trasportate con gli autocarri. Gli aerei della
nostra aeronautica avrebbero gettato nello scompiglio l'intero
dispositivo nemico senza essere disturbati neppure dall'aeroporto
di stanza a Maso Spilzi di Folgaria, che ormai era formato da soli
ricognitori.
A questo punto mi domando: Ma è pensabile che qualcuno avesse
sperato davvero in un successo?
Per fare tutto questo non solo eravamo assolutamente impreparati,
ma proprio non ci avevamo creduto affatto. Gli arditi non sono mai
arrivati. I bersaglieri (che - per volontà degli stessi strateghi -
avrebbero dovuto essere "agili e esperti di
combattimento") erano affardellati e appesantiti come per un
normale trasferimento al campo e nessuno di loro aveva mai
partecipato a un solo combattimento a fuoco. Come dire che non
sapevamo neanche come avrebbero reagito di fronte ai primi spari
nemici.
Ma quel che è peggio, nessuno aveva mai pensato a cosa
realmente fare non appena raggiunto il primo obbiettivo
(Carzano). E non a caso il generale Etna, non appena saputo del
"successo" di Carzano (paese occupato e cattura di 200 prigionieri)
decise di sospendere le operazioni, dicendosi «soddisfatto dei
risultati ottenuti». Quegli 800 bersaglieri, caduti a Carzano
per questa folle e invereconda irresponsabilità, avrebbero da soli
giustificato la fucilazione di quel generale.
Indubbiamente il maggiore Pettorelli Lalatta ci aveva creduto, così
come ci aveva creduto il cospiratore tenente Pivco. Ma - secondo
me, sia ben chiaro - anche loro, quando si trovarono ad analizzare
le ragioni della disfatta con il senno di poi, si dovettero rendere
conto che era stato progettato un disegno militare perfetto, ma che
non avrebbe potuto essere messo in atto da quel
"leviatano" che era a tutti gli effetti il Regio Esercito
Italiano (ma non solo quello) nella Grande Guerra.
Per questo il titolo del libro di Pettorelli era esattamente
significativo di quello che era stato: «Il "sogno" di
Carzano».