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La cura – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

È pre-occuparsi dell’altro, ovvero «Esserci» – Al termine dell'intervento la tradizionale filastrocca di Natale per i lettori

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Da analista la parola «cura» mi appartiene perché nella stanza delle parole, sta sempre lì a fianco, vive della relazione con il paziente, anzi la «cura» la riempie di significato. Che è quello necessario a costruire una nuova narrazione il rinnovamento o il cambiamento anche se non la guarigione.
Ma non è di questa cura che voglio dire. Perché l’etimo non è solamente salvifico e clinico o medico. È prima di tutto quotidiano e forse più impegnativo in quanto la cura è interessamento, attenzione, partecipazione. È «l’esserci».
Hilmann, analista jughiano, diceva ai colleghi che la cura è aprire una finestra e stare con il paziente per aiutarlo a mettere in connessione il mondo interno con quello esterno.
 
La cura è dunque un compito e prima di tutto, una responsabilità o una promessa: «…guarirai da tutte le tue malattie, Perché sei un essere speciale, Ed io, avrò cura di te» cantava Franco Battiato in quello splendido testo che narra il progetto di cura quotidiana che abbiamo con chi ci sta accanto.
Curare allora vuol dire aver tempo, presenza, ascolto e sguardi. Significa condividere la sofferenza che interroga sia chi la vive ma anche chi la assiste. È «generosità e compassione» come scriveva Simon Weil (Attesa di Dio, Adelphi 1999) che appartiene a chi si trova ad attraversare il difficile dell’esistenza sia nel corpo che nell’anima e ha una funzione primaria nella condizione umana.
 
Perché come esseri che siamo dentro la vita, il nostro «esserci» è quello di curare, nel senso che siamo in grado di dare ciò che ad un altro manca, ma anche di ricevere quando noi siamo mancanti.
In fondo l’essere umani è proprio quello di chi ha bisogno di un altro per esistere e la cura non è far guarire, ma l’occuparsi o, più ancora, il pre-occuparsi del mancante.
L’essere mancanti ci rende umani e ci fa fragili, a volte impotenti nonostante le pretese della ragione che ci vuole eroi e vincitori. Allora è compito di chi cura, aiutarci a capire che stiamo come «d’autunno sugli alberi le foglie» (Soldati, G. Ungaretti) vulnerabili e allo stesso tempo vitali proprio perché la vulnerabilità è preziosità da custodire, non da eliminare.
 
Può sembrare un paradosso, ma sentire l’esistenza come fragile e precaria ovunque, non avere in mano il «bandolo» che dà certezze e sicurezze e allo stesso tempo essere ed esserci alla vita, vuol dire sentirsi responsabili per ciò che ci accade e pure dei compiti che abbiamo, soprattutto quello di diventare chi siamo.
La condizione umana non è la leggerezza. Diventare uomini (o donne) è il farsi carico di noi, curare il proprio essere al mondo ed educare il prima possibile i bambini a farlo. Nessuno di noi cresce da solo né fa crescere se insegna solamente la leggerezza della vita, perché alla fine il rischio è di non riuscire a sopportare la fatica dell’esistere.
La prima forma di cura di noi stessi è sopportare le fragilità e le mancanze. La cura dell’altro, a partire dai figli, è educarli a stare-insieme, a con-vivere, cioè attraversare la frontiera dell’egocentrismo per saper passare dall’IO al NOI.

Giuseppe Maiolo - Psicoanalista
Docente Università di Trento


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