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Peccato che tu sia femmina – Di G. Maiolo, psicoanalista

Memoria della violenza: molte storie di violenza che ho incontrato, raccontano in vario modo il male, come nasce e quanto rimane dentro

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Dal libro di Giuseppe Maiolo «Se l’amore ferisce» - Erickson.

Come si vede, si respira violenza ogni giorno, da ogni parte. È fisica, psicologica, verbale, diretta oppure assistita ma sempre devastante e ti segna a vita come vittima oppure ti cattura e la ripeti come l’hai conosciuta.
Perché se la vivi fin da bambino il tuo cervello, decisamente plastico cerca di adattarsi e resta attivo come per rispondere a uno stato di allarme continuo.
Ne porta memoria e non manda in oblio la sofferenza, nemmeno la trasforma.
Molte storie di violenza che ho incontrato, raccontano in vario modo il male, come nasce e quanto rimane dentro.
Nella settimana dei diritti del bambino e della violenza sulle donne, allora voglio narrarne una, quella di una donna conosciuta personalmente e insieme a Giuliana Franchini già raccontata in un libro «Se l’amore ferisce» Erickson.

(Esaurito).

Le foto fanno sempre il loro effetto anche quando le conosci. Stanai uno per uno gli album dal loro rifugio e mi ritrovai d’un colpo bambina accanto a mio padre mentre stavo con lui a pescare. Era la passione che avevamo condiviso che ci aveva visto vicini, in silenzio. Io lo guardavo e lo imitavo. Ero la sua ombra, la duplicazione dei suoi gesti e dei suoi tic, il clone del suo mondo chiuso e isolato dalla vita.
 
Una volta, sorpreso dai risultati della mia pesca, invece di complimentarsi, mi disse: «Peccato che tu sia femmina, saresti stato proprio figlio mio se fossi nata maschio!» Non riuscii a capire all’istante la rabbia di quelle parole che nascondevano il sospetto di una vita e l’impossibilità di amarmi, nonostante cercassi di corrispondere ai suoi desideri.
Solo molto tempo dopo mi resi conto della sua gelosia della sfiducia folle che non cessò mai di avere per mia madre. Cercavo di giustificarlo credendolo vittima della sorte che gli aveva impedito di realizzare i suoi desideri. «Una famiglia senza un maschio non è una famiglia» tuonava mio nonno imponendoci una filosofia che aveva contaminato tutti, mio padre per primo.
 
Allora tentai di riparare e cercai di vivere da maschio. Quanto più la mia femminilità prendeva forma, tanto più la sentivo insopportabile. Mi sono domandata per anni quali parti di me odiassi di più, se le mie gambe o il mio seno che ingrossava nonostante cercassi di nasconderlo agli occhi degli altri. Conclusi che provavo disgusto per tutto il mio corpo e mi lasciai portare dall’idea che prima o poi lo avrei cambiato o reso neutro. Giocavo a calcio meglio dei maschi e sapevo che a lui piaceva. Ero attaccante! Quel ruolo mi è rimasto appiccicato addosso come una t-shirt bagnata dopo un diluvio equatoriale.
 
Un giorno, alla fine di una partita tra maschi e femmine, ci fu una rissa che finì a botte e solo io rimasi a combattere contro tutti, sferrando calci come potevo. Non tornai a casa a farmi consolare come le altre femmine e mi ritrovai in un angolo a contare le ferite come dopo una battaglia si contano i morti. Mi portarono al pronto soccorso per medicarmi, senza una lacrima. A casa, mio padre non mi chiese i motivi né volle sapere come stavo.
Disse «Meriteresti il resto!» e se ne andò a dormire.

Giuseppe Maiolo
Docente di Psicologia delle età della vita - Università di Trento
www.iovivobene.it

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