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Il male – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

Riconoscere le nostre parti oscure per contenere il malvagio

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Ci son tempi in cui il male lo sentiamo più vicino a noi, prossimo e angosciante sia per la vita individuale che collettiva.
Da distante invece ci sembra solo di coloro che lo «scelgono» perché malvagi o malati di mente.
E poi vediamo il bene da una parte e il male dall’altra e crediamo che la separazione tra buoni e cattivi ci preservi dal male.
Non è vero, perché la distruttività umana appartiene a tutti e non ci accorgiamo della linea sottile di demarcazione che c’è tra bene e male.
Pensiamo che il male prolifichi dove manca il bene e crediamo di poter risolvere tutto con infantili rassicurazioni-slogan tipo: «AndràTuttoBene» l’inutile tormentone del Covid, che non ha cambiato nulla e nessuno.
 
Avremmo bisogno invece di domandarci cos’è il male, da dove viene e perché si manifesta. Dovremmo riflettere con gli interrogativi della filosofia e della teologia, o della psicologia e della psicoanalisi.
Ora anche delle neuroscienze che come dice Guido Brunetti, psicologo e neuroscienziato, ci mostrano come il nostro cervello sia «una combinazione di bene e male, proprietà innate, stampate nei geni».
Ma già Jung sosteneva che serve cercare il «posto del male» il quale di solito sta nelle oscurità della nostra psiche.
 
Trovarlo servirebbe a fare in modo che «la luce continui a risplendere nelle tenebre…» perché la candela «non ha senso se non nell’oscurità» (Lettere tra C.G. Jung e Victor White, ed. Magi).
In altre parole il male è in noi e dobbiamo riconoscerlo, non eliminarlo ma accettarlo per togliergli la forza di sopraffarci.
Il che non vuol dire giustificare il male, né legittimare la malvagità. Il male rimane male e va condannato, ma serve trovarne le tracce nel nostro lato oscuro, la nostra Ombra.
Non c’è un individuo tutto buono o tutto malevolo, ma la nostra visione manichea proietta all’esterno le parti «cattive» che non ci piacciono e le rende mostruose, negli altri!
 
La «Banalità del male» di cui scrive la filosofa Hannah Arendt non è esclusiva delle persone maligne ma è di tutti e si manifesta quando, ad esempio, non ci si sente responsabili delle proprie azioni, come è emerso al processo di Eichmann, quel grigio burocrate tedesco, autore di crimini contro il popolo ebraico e contro l’umanità.
Le ricerche di psicologia sociale ci aiutano a capire questi meccanismi e oggi ci aiutano a comprendere i pestaggi tra ragazzi, lo stupro di gruppo tra pari, le violenze sulle donne e la disumana brutalità delle azioni di guerra.
Qualunque guerra.
 
Lo psicologo Philip Zimbardo ha messo in evidenza quanto il contesto sociale influenzi le scelte individuali e una persona possa diventare buona o cattiva a seconda dell’ambiente e del ruolo che ricopre.
Ci ha mostrato che la brutalità dei comportamenti è connessa con il non sentirsi colpevoli delle proprie azioni e con la disumanizzazione dell’altro.
E poi Zimbardo dice anche che c’è una via di uscita al male: si possono scegliere azioni eroiche a partire dai piccoli gesti di coraggio e di aiuto.
 
Allora serve più che mai educare i bambini al coraggio della solidarietà, come prevenzione della malvagità umana e, come dice Jung, per accendere una candela in grado di rischiarare il buio.

Giuseppe Maiolo - psicoanalista
Università di Trento - Docente di psicologia delle età della vita
www.iovivobene.it

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