Giorgio Espen, pensieri sulla montagna – Di Daniela Larentis
Accademico del CAAI e Istruttore di alpinismo, ha iniziato ad arrampicare all’età di tredici anni. Da allora non si è mai fermato – Prima Parte
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Quante cose si possono imparare osservando ciò che ci circonda, l’ambiente naturale in cui siamo immersi: la campagna, i prati, i boschi, i fiumi, le montagne che sembrano volerci proteggere in uno sconfinato abbraccio.
Da tutta la natura possiamo trarre insegnamento, ognuno di noi ne avrà fatto esperienza.
Ci sono montagne, poi, che istruiscono più d’altre dall’alto delle loro spettacolari guglie.
La roccia è maestra di vita, mostra, a chi la sa e la può cogliere, una diversa angolazione da cui osservare il mondo, insegna la concentrazione e il giusto distacco dalle cose terrene, a raggiungere, per esempio, o a potersi avvicinare ai propri limiti, come nel caso dell’arrampicata, un’esperienza certamente molto fisica, ma al contempo assolutamente anche spirituale.
Chi arrampica, contrariamente al pregiudizio di alcuni, ama moltissimo la vita e proprio per questo avverte il bisogno di misurare se stesso, alla ricerca, forse, di una dimensione più autentica, che potremmo definire anche poetica, della propria esistenza.
Quanta poesia è racchiusa dentro i colori di una parete verticale, quante speranze, quante illusioni, quanti sogni, quanto coraggio può contenere!
Il grande alpinista Reinhold Messner, celeberrimo alpinista altoatesino, il primo a salire l’Everest senza ossigeno e a raggiungere la vetta, nel libro intitolato «La vita secondo me» (Edizioni Corbaccio) a proposito della paura e del coraggio scrive (pag. 69).
«Ciò che ci spingeva a compiere un altro passo decisivo nell’avventura verso l’alto era la curiosità, non il sogno di diventare alpinisti estremi. No, non andavamo a caccia di pericoli a cuor leggero, piuttosto sapevamo che l’alpinismo classico non è possibile senza il pericolo.
«Tutto dipendeva dal fatto che fossimo in grado o no di controllare le nostre paure e di sfruttare al meglio il nostro potenziale. Può sembrare banale: solo osando potevamo accumulare esperienza e quindi coraggio…»
Abbiamo rivolto delle domande a un esperto della montagna, Giorgio Espen, Accademico, Istruttore di alpinismo, nel tentativo di capire quali siano le motivazioni che spingono gli alpinisti come lui a vivere la grande passione per la montagna, rischiando la propria incolumità ad ogni uscita ed accettando ogni volta il rischio di poterci rimettere la loro stessa vita.
Sono ammessi fra gli Accademici nel CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) coloro che, dopo una rigidissima selezione, hanno svolto attività alpinistica non professionale di particolare difficoltà per un lungo periodo; ci può raccontare come si diventa Accademici, riferendosi alla Sua esperienza?
«Il CAAI (Club Alpino Accademico Italiano) è un gruppo d’élite del Club Alpino Italiano, il CAI, ed è nato nel 1904 con l’intento di promuovere l’attività alpinistica non professionale ad elevato livello di difficoltà.
«Per entrare a farne parte ci vogliono due Accademici che valutano l’attività del candidato e che poi la presentano in riunione al gruppo di Accademici della zona, nel mio caso del Trentino Alto Adige (un sotto-sottogruppo dei tre sottogruppi di appartenenza, il Gruppo Occidentale, Centrale e Orientale). Io sono stato presentato dagli Accademici Bruno Menestrina e Fabio Leoni.
«L’attività deve essere di alto livello, dopodiché vengono presi in considerazione tutti gli anni e valutati i migliori cinque anni, in sintesi. Gli Accademici si trovano e fanno le loro valutazioni, poi, in caso di esito positivo, le sottopongono al Gruppo di appartenenza (nel mio caso il Gruppo Orientale) e a una commissione tecnica di cui fanno parte quattro esponenti di ogni sottogruppo. Se viene dato parere favorevole il curriculum viene poi sottoposto al Gruppo Centrale.
«Il percorso dura circa un anno. Per me è stato un grandissimo onore diventare Accademico, considerando anche il fatto che il loro numero complessivo non è certo molto elevato. È stata un’emozione fortissima.»
Come è iniziata la grande passione per la montagna e quando ha iniziato ad arrampicare?
«La passione per la montagna è iniziata quando ero ancora molto piccolo, all’età di quattro-cinque anni, mi è stata trasmessa dai miei genitori; andavamo per rifugi d’estate e a sciare d’inverno. Verso i tredici-quattordici anni ho iniziato ad arrampicare nella palestra di Romagnano, è una palestra storica, credo che le prime vie risalgano più o meno agli anni Quaranta, ora è meno frequentata di un tempo.
«Mio padre era un appassionato sciatore e anche lui arrampicava, come altri due miei fratelli, Josef e Walter.»
Si ricorda per caso quali sono state le prime emozioni provate in parete?
«È stato amore a prima vista: ho messo le mani sulla roccia e da lì non le ho più staccate. Giocavo a calcio all’epoca, dopo aver terminato l’anno ho iniziato ad andare ad arrampicare con mio fratello.
«A quindici anni mia madre ha voluto che io frequentassi la Scuola di roccia Giorgio Graffer di Trento, per imparare le nozioni di base dell'arrampicata, le prime manovre, come si procede in cordata ecc.
«A quell’età ho iniziato ad arrampicare con degli amici.»
Ci può raccontare qualche aneddoto legato a qualche ascensione che le è rimasta particolarmente nel cuore?
«La mia prima via che feci da capocordata.
«Avevo 15 anni ed ero sullo spigolo della Torre Delago, Vajolet, Dolomiti, Gruppo del Catinaccio. Dopo aver eseguito la prima lunghezza di corda, il primo tiro, mi fermai e i miei compagni, allarmati, mi chiesero il motivo di quell’improvviso arresto. C’erano forse dei problemi?
«Non c’era nessun problema, mi ero fermato solamente perché mi stavo gustando una sensazione straordinaria: girando dietro lo spigolo, particolarmente esposto, improvvisamente il vuoto. La sensazione era talmente intensa che avevo voluto fermarmi per poterla cogliere appieno, cercando di prolungarla al massimo. E’ stata la prima volta che ho assaporato la sensazione di vuoto sul verticale, una sensazione incredibile.»
Su quali cime ha collezionato le Sue esperienze alpinistiche?
«Su un po’ tutte le Dolomiti, dalla Marmolada, al Civetta, al Brenta, alle Pale di San Martino, lo Spiz di Lagunaz ecc., sono stato anche più lontano, in Val d’Aosta, sono salito il Grand Capucin per esempio, in Lombardia, ho arrampicato in Val di Mello, ma sono le Dolomiti le montagne che più mi attraggono.
«È anche per una questione di tempo, andare su cime come il Bianco significa stare via più o meno quattro giorni, mentre le Dolomiti sono velocemente raggiungibili.»
Qual è il Suo Gruppo dolomitico preferito e perché?
«Il mio Gruppo preferito rimane il Civetta. Amo molto le Dolomiti Bellunesi, in genere.
«Il Civetta mi piace particolarmente perché è una parete molto molto severa. È una parete un po’ tetra, alpinisticamente davvero severa, come testa, come approccio.
«Anche la Marmolada è molto impegnativa, ma molto meno fisica, è poi assolata, in cima c’è una funivia che, almeno psicologicamente, un po’ rassicura.
«La ferrata degli Alleghesi è una delle più lunghe delle Dolomiti, scendere dal Monte Civetta è impegnativo. Prendere un temporale in Civetta è una faccenda seria.»
Cosa si prova ad arrampicare su ghiaccio?
«L’arrampicata su ghiaccio è molto adrenalinica. L’elemento in sé è un elemento mobile, in estate vedi la cascata che è fatta d’acqua, in inverno diventa ghiaccio. Sono molto affascinato dalle forme e dai colori del ghiaccio, davvero notevoli, è una bellezza in continuo mutamento quella offerta da questo tipo di esperienza.
«Nella stessa stagione, la stessa cascata affrontata a distanza di un mese regala l’illusione di essere diversa.»
«È più difficile arrampicare su ghiaccio, rispetto alla roccia?
Non è più difficile arrampicare su ghiaccio, ma in questo caso una caduta comporta mediamente maggiori conseguenze. Il ghiaccio è molto effimero. Più sali di livello e più diventa difficile.
«Puoi arrampicare su ghiaccio, su misto (di roccia e ghiaccio), una tecnica che anche mi piace, e che deriva dall’arrampicata su ghiaccio e dall’arrampicata su misto, è poi il dry tooling, con la quale si arrampica su roccia con la piccozza e i ramponi.
C’è qualche alpinista a cui si è ispirato?
«Tutti gli alpinisti sono per me fonte di ispirazione. Il mio alpinismo è di ripetizione, non sono un apritore, anche se ho aperto qualche via, ma generalmente amo ripetere le vie già esistenti.
«A me piace molto Georges Livanos, detto il Greco, un alpinista che ha vissuto la Seconda Guerra mondiale e che ha aperto numerosissime vie.
«Era molto scanzonato, non si prendeva troppo sul serio, per lui l’arrampicata era gioia di vivere, un gioco. Io do un valore assoluto all’arrampicata, ma sono d’accordo con la sua visione, l’arrampicata va presa come un gioco, anche se, naturalmente, mentre arrampichi devi essere estremamente preciso e concentrato.
«Noi alpinisti siamo in fondo i conquistatori dell’inutile, come scrisse in un libro sulle sue esperienze in montagna l’alpinista francese Lionel Terray, una frase che divenne un modo per definire l’alpinismo.»
Come vive il rapporto con il «mondo verticale», è un mezzo per raggiungere qualcosa d’altro, che posto occupa nella scala dei Suoi valori?
«L’arrampicata mi ha dato tanto e mi dà tanto, mi ha aiutato nei momenti difficili. Mi ha dato una forza per poter superare qualunque cosa e mi permette di affrontare il lavoro e il resto della vita serenamente. Sono sempre stato contento quando gli altri raggiungevano i loro obiettivi, arrampicare è anche questo.
«Do all’arrampicata un valore altissimo. Ti dà tantissimo e ti toglie tantissimo, nel senso che la tua vita è in funzione di questa grande passione.
Che tipo di rapporto si instaura con il proprio compagno di arrampicata?
«Direi un rapporto simbiotico, nel periodo in cui si arrampica insieme si crea con il proprio compagno un forte legame, difficilmente spiegabile a parole a chi non ha vissuto questo tipo di esperienza. Gli affidi la tua vita, si crea un rapporto di fiducia totale.»
Quali sono stati i Suoi più importanti compagni di cordata, menzionandoli in ordine cronologico?
«Sono quattro: il primo è stato Stefano Linardi, con il quale ho affrontato le prime vie impegnative, ci siamo formati insieme, ho avuto con lui un bel rapporto duraturo, ci vediamo anche adesso anche se lui ha quasi smesso di arrampicare.
«Il secondo è Bruno Menestrina, Accademico, con cui ho affrontato parecchie vie impegnative e con il quale ho iniziato ad affrontare la falesia in maniera sistematica, potendo aumentare così il livello di difficoltà.
«Il terzo compagno con cui ho effettuato forse il numero maggiori di vie impegnative è stato Paolo Loss, anche lui diventato Accademico più o meno nel mio stesso periodo, figlio di Bepi Loss, un personaggio importante nell’alpinismo trentino.
«Infine voglio ricordare la mia attuale compagna di vita e di cordata, Caterina Mazzalai (Istruttore di Alpinismo e di Scialpinismo).»
La scelta del compagno come avviene, come si può intuire che questo o quello è il compagno «giusto»?
«Per quanto mi riguarda lo si sente a pelle. Ho avuto compagni più bravi di me, compagni al mio stesso livello e compagni meno performanti, ma non mi è mai interessato questo aspetto.
«L’aspetto più importante è la totale fiducia reciproca, è il rapporto umano.»
Come considera l’affrontare una parete, c’è competizione con gli altri o la sfida è più con se stessi?
«Non lo considero uno sport, per quanto mi riguarda non c’è competizione con gli altri, piuttosto l’antagonismo, se così si può dire, è con me stesso ed è feroce.
«C’è sempre la ricerca di fare il massimo, di dare il meglio di sé, di cercare di raggiungere i propri limiti.»
Quali sono le emozioni che predominano durante una scalata?
«Sono molteplici e sono cambiate anche negli anni: da giovane vivevo più la competizione con me stesso, avevo l’idea della cima da raggiungere, della difficoltà, del tempo, questi erano i parametri per me importanti.
«Via via è subentrato un altro aspetto essenziale legato alle emozioni provate osservando l’ambiente circostante. L’arrampicata è sempre stata per me comunque molto emozionale. In certi momenti, tuttavia, la concentrazione diviene talmente alta che si ha la sensazione che non esista nulla al di fuori di se stessi e la parete, qualsiasi altra cosa sparisce.
«A me piace molto quella sensazione. A quel punto scompare anche il tuo compagno, la concentrazione è assoluta. E’ molto vicina alla concentrazione delle filosofie orientali. Sei solo. E’ questo il bello.
La si potrebbe definire a quel punto un’esperienza di solitudine?
«Più che di solitudine direi egoistica. Se la definissimo di solitudine significherebbe che ti senti solo, invece è egoistica, in quanto sei tu che vuoi stare solo. Chi arrampica è anche notoriamente un po’ egocentrico, ci si mette al centro del mondo.
Daniela Larentis – [email protected]
Fine della prima parte
(Continua)
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