Alzheimer: «Il seme germoglia ancora» – Di Daniela Larentis
Premiazione del concorso di poesia e narrativa organizzata dall’Associazione Alzheimer presso il sito archeologico Volksbank, in piazza Lodron a Trento
>
L’Associazione Alzheimer Trento ha organizzato per tutto il mese di settembre una serie di eventi, con l’intento di focalizzare l’attenzione su chi si trova ogni giorno a dover convivere con una malattia terribile, molto diffusa fra la popolazione: l’Alzheimer.
Nata nel 1998 ha come obiettivo principale la diffusione dell’informazione, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni su questa malattia e altre forme di demenza, lo sviluppo di servizi sanitari e sociali adeguati, la promozione della ricerca scientifica, rappresentando un importante punto di riferimento e di appoggio alle famiglie coinvolte (per maggiori informazioni consultare il sito www.alzheimertrento.org).
Fra le diverse manifestazioni in programma nel mese dedicato all’Alzheimer, segnaliamo un interessante evento tenutosi domenica 13 settembre 2015 presso il sito archeologico della Volksbank, in piazza Lodron, a Trento, la premiazione del Secondo concorso di poesia e narrativa promosso dall’Associazione Alzheimer Trento intitolato «Il seme germoglia ancora».
La manifestazione, impreziosita dall’intrattenimento musicale dei Minipolifonici, alla quale era presente la madrina dell’evento, Violetta Plotegher, Assessora Regionale alla Previdenza e all’Ordinamento delle APSP, si è svolta in collaborazione con il Gruppo Acquerellisti Trentini, l’associazione che ha messo a disposizione alcune opere donate personalmente dagli artisti Luca Beltrami, Rosanna Camurri, Wilma DeNadai, Magda Delaini, Lina Pasqualetti e Licia Marampon, meravigliosi quadri estratti a sorte dagli stessi vincitori al momento della premiazione.
Il Gruppo Acqurellisti Trentini è sorto nel 1998. Lina Pasqualetti Bezzi, prima presidente del Gruppo (ora presidente onoraria), Luigi Bevilacqua e Carla Corradi ne sono stati i soci fondatori, con il preciso scopo di promuovere la conoscenza e la diffusione dell’acquerello. In diciassette anni di attività il Gruppo Acquerellisti Trentini ha al suo attivo numerose mostre, l’ultima delle quali, intitolata «Vicino|Lontano», si è tenuta a Torre Mirana, sala Thun, in Via Belenzani a Trento nell’aprile di quest’anno.
Renzo Luca Carrozzini, Presidente dell’Associazione Alzheimmer Trento, sottolinea che «il concorso è frutto della creatività di Bruna Celardo Rizzi, nostro attuale Presidente Onorario e fondatrice dell’Associazione, che ha ben compreso come il dar voce e l’esprimere per iscritto i propri sentimenti e le proprie emozioni possa diventare non solo una forma di autoterapia, ma diviene terapia anche per chi ascolta e per chi legge».
Ha vinto la sfida aggiudicandosi il primo premio la poesia intitolata «Giorno dopo giorno» di Stefano Borile; si è aggiudicata il secondo posto quella dal titolo «Germogli di futuro» di Daniele Ardigò, al terzo posto si è classificata invece quella intitolata «Un fiore nuovo» di Michela Rigotti.
Ha vinto il concorso di narrativa il racconto intitolato «Note di ritorno da un viaggio nel sogno» di Enrica Buratti.
Il secondo posto è toccato a «Piccole parole» Di Annamaria Cenzi, al terzo posto si è classificato infine «Le primavere dimenticate» di Fernanda Beozzo.
In molti modi si può cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica attorno a una realtà molto vicina a tutti noi, quella di una malattia difficile da accettare come l’Alzheimer; lo si può fare riflettendo sui racconti presentati, assaporando i toccanti versi delle poesie, parole che raggiungono il nostro cuore ancor prima della nostra mente.
Enrica Buratti descrive in maniera molto efficace lo stato d’animo di una donna ammalata di Alzheimer, la quale legge lo sgomento in faccia ai suoi cari. Il suo racconto inizia così.
«Da un po’ di tempo m’accorgo che mi scrutano in modo strano, indagatore. I miei cari. Poi si cercano con gli occhi reciprocamente a conferma dei loro dubbi.
«Quando credono che io non sia vigile, mi spiano di sottecchi, un po’ ansiosi. Evidentemente in me c’è qualcosa che non va.»
Il momento in cui l’ammalato di Alzheimer scopre lo smarrimento dipingersi sul volto delle persone care deve essere uno di quegli istanti della vita decisivi in cui si acquisisce la piena consapevolezza di se stessi, sapendo che la si dovrà perdere, giorno dopo giorno.
Scrive Enrica Buratti a un certo punto del racconto, descrivendo le sensazioni e i sentimenti della protagonista della storia.
«Non capiscono, loro, che comunque il mio pensiero, il mio parlare continuano in modo logico, scorrevole e la mia vista, anche interiore, è ancora buona.
«Ma non qui dove sono loro, bensì in un altro mondo, che è un mondo forse un po’ strano, apparentemente complesso, ma solo perché ancora lo conosco poco; sembra però essere accogliente e sicuro, un mondo migliore, dove tutto è possibile, dove i legami sono al di là di ogni esteriorizzazione o manifestazione, che diventano quindi superflue.
«Lì vale solo l’essenziale e l’essenziale è il cuore, è il legame d’amore che anche qui è ancora presente come cordone ombelicale, atto a far passare ancora linfa e alimenti e a unire per sempre persone che si sono rapportate tra loro. E quindi non capisco la loro ansia, la loro cupa tristezza…»
Proviamo a riflettere su questo preciso punto, ovvero lo stato d’animo non solo di chi si ammala, vivendo la tragedia di perdere, inesorabilmente, attimi preziosi di vita vissuta, ma anche di chi, del tutto inaspettatamente, si trova a doversi prendere cura di un proprio caro colpito da una malattia giudicata a ragione terribile (chi i ricordi li ha ancora giudica sicuramente terribile l’idea di perderli, inoltre assistere un malato di Alzheimer è molto impegnativo): non è difficile immedesimarsi nella situazione e la prima sensazione che si prova, al solo pensiero, è ansia, una grande sconfinata ansia, poiché la malattia, quella malattia, fa paura e innanzi ad essa ognuno si sente del tutto inerme.
Si sa, non ci sono farmaci che la possano davvero curare, inoltre tutto ciò che non si conosce provoca sempre una grande preoccupazione, un forte timore.
Non è una situazione facile da affrontare per l’ammalato, ma nemmeno per i familiari, i quali vivono la malattia con grande sofferenza e grande sgomento. Stare in pena per qualcuno a cui si vuole bene logora. Sfinisce.
Quando poi alla fatica giornaliera di assistere una persona a cui si vuole bene subentra lo straziante vuoto che segue il lutto, si genera una situazione forse di ancor più difficile gestione: quello è il momento in cui, stanchi e stremati fisicamente e mentalmente, si ha la sensazione di avvertire, come travolti dal flusso incontrollabile di un fiume in piena, tutta la propria impotenza innanzi al mistero della vita.
Che cosa è in fondo la vita? È possibile individuarne una logica? Quante volte se lo sono chiesti migliaia di uomini in secoli e secoli di storia e quante volte lo abbiamo fatto tutti noi, di fronte alle atrocità della guerra, al tormento della malattia, alla sofferenza del mondo?
C’è chi ha difficoltà più d’altri ad accettare la durezza di questa prova. Non tutti reagiscono alla stessa maniera, non tutti possono contare sulla stessa forza fisica e spirituale, non tutti sono in grado di far fronte ai mille problemi di natura anche organizzativa causati direttamente o indirettamente dalla malattia.
Inoltre, molte famiglie sono già allo sbando e il trovarsi di fronte a una situazione tanto problematica, come quella che si presenta a chi si deve occupare di un genitore o di un parente ammalato, diventa la goccia che fa traboccare il vaso.
Capita, del resto siamo solo uomini, nulla più di questo.
Essere uomini può voler dire molte cose, si è «veri uomini» non certo per ciò che si accumula nel tempo, per le ricchezze o per il proprio sapere, forse lo si è quando si vive una vita autentica, una vita che potremmo definire sincera, ma anche giusta, una vita in cui l’amore della verità, la lealtà e la dedizione al bene contano più di tutto il resto.
Riflettendo, vien da dire che la famiglia non sia più in effetti quella di una volta, sempre meno almeno. Purtroppo, viviamo in un mondo tecnologico che ci ha facilitato l’esistenza, per certi versi, offrendoci comodità una volta impensabili, ma che ci ha anche resi fragili, soli e fragili. Smarriti di fronte al dolore.
Nessuno, tuttavia, può scegliere la croce che deve portare.
L’amore, forse l’amore è l’unico antidoto al dolore che la vita ci riserva, vivere con amore ogni rapporto umano, cogliere l’amore che ci circonda, anche nella malattia, proprio nella malattia, vien da aggiungere, pensando agli ammalati di Alzheimer, fragili fiori che sembrano chiudersi a poco a poco, all’avanzar della sera, i quali vivono una vita che le persone sane magari non comprendono pienamente, ma che è pur sempre vita.
Leggendo il toccante racconto di Enrica Buratti, alla fine del quale la commozione lascia spazio alla speranza, è facile perdersi nella profondità di queste parole pronunciate dalla protagonista della storia.
«È pur vero che mi preme ancora la voglia di immergermi dentro il profumo di un fiore, negli occhi di un bambino o tra le onde del mare, ma mi rimangono comunque gli sguardi, i sorrisi delle persone, le situazioni vissute a riempirmi i vuoti che sempre più spesso si impadroniscono di me.
«E comunque non sono poi così distante, non come credono, né tantomeno lo sarò quando me ne andrò via di qui, perché non c’è una vera interruzione tra il mondo terreno e l’oltre, come la mia malattia conferma.»
Scoprire di essere ammalati deve essere devastante, soprattutto all’inizio della malattia, quando è più difficile farsene una ragione. Una volta l’aspettativa di vita era mediamente più bassa, perciò le persone si ammalavano meno di Alzheimer perché molte lasciavano questa vita prima di potersi ammalare.
Stefano Borile e Rosanna Camurri.
Al giorno d’oggi vengono colpite da questa patologia le persone che vivono una stagione della vita in cui, pur avendo accumulato negli anni molte esperienze e avendo spento molte candeline sulla torta, come si usa dire, è ancora bello pensare al domani, vuoi per una ragione piuttosto che per un’altra: c’è chi ha voglia di vedere crescere i nipoti, chi si vuole dedicare a un qualche interesse, questa è a ogni modo per tutti la stagione in cui è proprio bello godere i frutti delle proprie fatiche e in cui è ancora possibile coltivare qualche piccolo sogno da realizzare.
Riflettere su questa malattia, su quello che sta capitando ad altri esseri umani, a persone a noi vicine, a qualcuno che in maniera diretta o indiretta conosciamo e che sta vivendo questa realtà, meditare su ciò che ipoteticamente potrebbe capitare anche a noi stessi o a alle persone a cui vogliamo bene, aiuta ad avvertire appieno la potenza dell’avventura umana, a comprendere che i sentimenti valgono più dei ragionamenti.
«…Affondano nei solchi della vita|semi sparsi con grande maestria|da mani di anziani,| come germogli di futuro|per le voci gioiose dei bambini.|Serbiamo il ricordo del vociar dei bambini,|della sapienza contadina| anche da malati di Alzheimer| perché siamo i semi che coltiviamo,| le tracce vive che lasciamo» scrive Daniele Ardigò.
mpossibile non cogliere la bellezza di quei versi, come quelli scritti da Michela Rigotti, la cui poesia inizia così: «La tua guancia bagnata nell’arsura|dimentica persino la confusione.|Misuratamente sciughi il volto|addolorato, canticchiando strane lodi|al cielo, sospese, sacre, incorrotte…»
Enrica Buratti e Rosanna Camurri.
Questi, così come i versi di tutte le altre stupende poesie, nonché tutti i meravigliosi racconti presentati in concorso (non ci è purtroppo possibile dare spazio a ognuno, anche se tutti lo meriterebbero), rappresentano in fondo un inno di gratitudine alla vita, parlano della complessità e profondità delle relazioni umane, ricordandoci che il rapporto con ogni persona che amiamo o che abbiamo amato, che ci ama o che ci ha amati lungo il cammino, è da considerarsi un dono prezioso.
Di seguito il testo della poesia vincitrice del concorso.
Giorno dopo giorno
di Stefano Borile
Non parli,
mi guardi velocemente
e poi
il mio sospiro riempie la stanza.
Ti ho perduta all’improvviso
come un calendario
svolazzante
nel vento dell’inverno.
Ti ho cercata nelle stagioni
che passano
come un ventaglio
di luci e ombre.
Io, marinaio di emozioni
nascoste
sotto la maschera del mio volto,
appendo alla luna
pensieri e malinconie.
Devo scordarmi
i profumi di un tempo,
imparare
ad amare il silenzio
cogliendo
quel lumicino sorridente
nelle smorfie un sorriso
che accende ancora
i tuoi occhi stanchi.
Daniela Larentis – [email protected]
Commenti (0 inviato)
Invia il tuo commento