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Ernesto Massimo Sossi, «fotografo poeta» – Di Daniela Larentis

Presente con una sua opera a TecnoNart, la prestigiosa mostra-evento curata da Loredana Trestin, ancora visitabile a Sanzeno sino alla fine di agosto

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Ernesto Massimo Sossi è un apprezzato artista italiano che da anni lavora dividendosi fra Londra e Senigallia.
Nato a Taranto nel 1963, inizia a occuparsi di fotografia alla fine degli anni Settanta, si laurea in Architettura a Venezia, dove collabora con Italo Zannier, ha al suo attivo numerose mostre collettive e personali.
Lo abbiamo incontrato in occasione di Tecnonart, la prestigiosa mostra-evento già visitabile da qualche mese presso Casa Gentili, a Sanzeno, Trento, curata da Loredana Trestin, in cui tecnologia, natura e arte sono perfettamente coniugate e integrate tra loro nel rispetto dell’ambiente, della sua rappresentazione, del suo utilizzo e dei progetti ecosostenibili su di esso realizzati, una mostra che sta avendo grande successo e che resterà aperta al pubblico fino alla fine di agosto 2015.
 
Quando è nata la grande passione per la fotografia artistica e quando ha iniziato a interessarsi di video-arte?
«Il mio interesse per la fotografia è nato intorno ai quattordici anni, quando mi è stata regalata la mia prima compatta. Il grande amore è però scoppiato quando, da studente universitario di architettura a Venezia, ho iniziato a frequentare i corsi di storia e tecnica della fotografia tenuti dal Maestro Italo Zannier, con il quale ho poi collaborato a lungo. La video-arte è arrivata molto dopo, ed è ancora in fase di sperimentazione.»
 
Fra i due linguaggi artistici quali preferisce e perché?
«Non c’è una preferenza. Ci sono storie che mi piace raccontare attraverso un progetto fotografico, altre che nascono nella mia mente sotto forma di video ed altre ancora che si presentano sotto forma di istallazione.
Non sono io a decidere. È la storia che voglio raccontare a stabilire in quale maniera vuole essere narrata.»
 

 
Oggetti di design, assemblage e istallazioni, quali sono i soggetti da cui trae maggior ispirazione?
«Mi piace molto lavorare con materiali cosiddetti di riciclo. Periodicamente ci sono degli oggetti che mi trovano e col tempo mi comunicano cosa vogliono diventare. In che modo posso dare loro una seconda vita. Altre volte al ritrovamento segue una fase di progettazione vera e propria.
«Altre volte ancora, l’oggetto di design, l’assemblage o l’istallazione è frutto di uno studio e di una ricerca specifica dettate dalle esigenze del contesto in cui andrò ad operare.»
 
Qual è il rapporto, secondo lei, fra la nostra società e l’arte contemporanea e come definirebbe quest’ultima?
«Viviamo in una società dominata dalla globalizzazione dei consumi e piegata dalla finanza che hanno determinato la crescita di uno sprezzante egoismo e di un’intollerabile disuguaglianza, delegando la funzione di creare sogni, dare punti di riferimento, sicurezza, identità e appartenenza esclusivamente al denaro.
«Tutto viene appiattito e consumato nel più breve tempo possibile. Veniamo bombardati da immagini di opere d’arte inserite in messaggi pubblicitari che hanno come unico fine quello di trasformarci in consumatori passivi. Il nostro patrimonio artistico è preso d’assalto da orde di nuovi barbari armati di telefonino di ultima generazione capace di creare quantità industriali di selfie da inviare in tempo reale agli amici, fregandosene altamente dell’opera d’arte che hanno appena fotografato.
«In questo contesto l’artista contemporaneo cerca disperatamente, ancora una volta, di fare Arte caricando sulle proprie spalle il peso di una società che non ha più punti di riferimento, concependo un’Arte come via per la speranza civile e laica, in cui è importante sapere non solo cosa è utile, ma anche cosa è bello, cosa è buono e cosa è giusto.»
 
Quali sono gli artisti che hanno maggiormente influenzato il suo lavoro?
«André Breton, Bruno Taut, Le Corbusier, Pablo Neruda».
 

 
Artista eclettico, architetto, studioso di etnologia e antropologia, fotografo. Si è dedicato in particolare allo studio di riti di passaggio e di iniziazione, in anni recenti ha elaborato una personalissima tecnica di «fotografia plurimaterica». Può brevemente raccontarci di che cosa si tratta?
«Mi è sempre piaciuto pensare ad una fotografia che in qualche maniera potesse invadere o sottrarsi allo spazio circostante. Noi siamo abituati a intendere la fotografia in modo classico, quella, per capirci, dell’immagine fotografica stampata su carta o su altro supporto ed attaccata al muro.
«Le mie fotografie plurimateriche sono istallazioni realizzate arricchendo la fotografia (stampata su carta, su tela, su alluminio, su legno, ecc.) con la fisicità della materia. I materiali e gli oggetti che io aggiungo aumentano il volume dell’opera e sottraggono volume allo spazio che la separa dallo spettatore.
«Lo spazio fra l’opera e lo spettatore non è più quindi uno spazio costante, ma cambia al variare dei rapporti fra i due.
«Sta all’opera d’arte e allo spettatore decidere quale sarà la loro linea di confine e come questa potrà variare.»
 

 
Secondo Lei che posto occupano i riti di passaggio nella nostra società?
«I riti di passaggio appaiono come una questione distante dalla nostra realtà, senza evidenti rimandi al quotidiano. Quasi riguardassero esclusivamente tribù primitive in territori lontani da noi.
«Eppure nessuno di noi può ritenersi escluso da questo argomento. Anche cercando di evitarlo non ci è possibile farne a meno: la parte più ancestrale di noi ha ancora bisogno di riti e di magia. I cambiamenti ci spaventano e mandano in crisi la nostra razionalità.
«Non riusciamo a spiegare tutto quello che ci accade e, men che meno, quello che accade dentro di noi. La nostra società scientifica non può più spiegare con la magia o con la religione tutto quello che ancora non capisce, ma non ha però ancora trovato una valida e applicabile teoria che le supplisca efficacemente.
«Nella nostra società contemporanea vi è una netta separazione fra mondo sacro e mondo profano, in altri gruppi societari più primitivi la separazione era meno netta e definita. Nulla era svincolato dal sacro: la nascita, il parto, la caccia, le malattie, i cicli della natura, le intemperie, la morte, ecc. .
«Numerosi passaggi, che nella nostra società si svolgono in modo del tutto profano, si ammantano invece di carattere sacro nelle società semicivilizzate. I riti di passaggio sono appunto i meccanismi cerimoniali che guidano, controllano e regolamentano i mutamenti di ogni tipo, degli individui e dei gruppi.
«Ritengo che ancora oggi i riti di passaggio hanno una parte considerevole nella nostra vita. Il rito di passaggio per eccellenza è rappresentato dall’iniziazione della pubertà, dal passaggio da una determinata età a un’altra.
«Vi sono tuttavia riti di passaggio al momento della nascita, del matrimonio e della morte, e non sarebbe errato parlare ogni volta di iniziazione, verificandosi ovunque un cambiamento radicale di regime ontologico e di statuto sociale.»
 

 
Osservando le sue opere tanto poetiche quanto struggenti, talvolta, il concetto di «confine» oltre quello di «metamorfosi» sembra essere uno dei temi ricorrenti, che significato dà al termine «confine»?
«In qualsiasi passaggio materiale si incontrerà pur sempre una linea di confine più o meno chiara e rigorosa, una soglia, una zona neutra o terra di nessuno, un qualche elemento fisico insomma che divide i due spazi attraverso cui avviene il passaggio.
«La struttura dei riti di passaggio riproduce, in termini simbolici, questa articolazione fisica, per cui questi si configurano necessariamente come: riti di separazione o preliminari, riti di margine o liminari, riti di aggregazione o postliminari.
«I primi agevolano il distacco dell’individuo da una situazione originaria, i secondi lo collocano in uno stato di sospensione, i terzi assecondano la sua introduzione nel nuovo territorio, nel nuovo gruppo o nella nuova categoria sociale.
«L’iniziato non è soltanto un nuovo nato o un risuscitato: è un uomo che sa, conosce i misteri, ha ricevuto delle rivelazioni d’ordine metafisico.
«Nelle rappresentazioni iniziatiche il simbolismo della nascita affianca quasi sempre quello della morte.
«Nei contesti iniziatici la morte significa il superamento della condizione profana, non-santificata, la condizione dell’uomo naturale che ignora il sacro, cieco nello spirito.
«Il mistero dell’iniziazione scopre al neofita, a poco a poco, le vere dimensioni dell’esistenza: l’iniziazione, introducendolo nel sacro, lo obbliga ad assumersi le sue responsabilità di uomo.
«Penetrare nel ventre del mostro - oppure essere simbolicamente sepolto o rinchiuso in una capanna - equivale ad un ritorno nell’indistinto primordiale, nella notte cosmica.
«Uscire dal ventre, o dalla capanna tenebrosa, o dalla tomba iniziatica, equivale a una cosmogonia. La morte iniziatica ripete il ritorno esemplare al caos, in modo tale da rendere possibile la ripetizione della cosmogonia e preparare la nuova nascita.
«L’uomo delle società primitive ha cercato di vincere la morte trasformandola in un rito di passaggio. Per i primitivi vi è sempre una morte di qualche cosa che non è essenziale; soprattutto la morte della vita profana. La morte viene ad essere considerata come la suprema iniziazione, l’inizio di una nuova esistenza spirituale.
«Generazione, morte, rigenerazione (rinascita) sono considerati i tre momenti di un unico mistero.
«La soglia delimita concretamente sia il di fuori e il di dentro, sia la possibilità di passare da una zona all’altra.
Vi sono soglie invisibili attraverso cui non è consentito transitare. Nessuna barriera fisica lo impedisce, ma la soglia, una soglia che tutti sentono.
«La soglia indica un possibile ostacolo – o un possibile filtro, passaggio – o entrambe le possibilità. Ma il passaggio è consentito per lo più solo a patto di fare i conti con l’altro dominio, di accettare la sua influenza benefica o meno sulla nostra identità.
«Attraversare la soglia è una possibilità/pericolo di cambiamento, una inversione, come è un pericolo di invasione per i possessori del dominio oltre la soglia. Se trasgredisco una soglia o la oltrepasso senza indicare o dichiarare le mie intenzioni (quel che sto facendo della mia identità), la mia identità è in pericolo o diventa pericolosa.
«Ogni soglia invisibile anticipa una apertura o una chiusura o una inversione. Io posso scegliere di restare fuori o dentro, a seconda del mio ruolo e a seconda degli stessi mutamenti della linea di soglia.»
 

 
Nella pubblicazione intitolata «Le soglie invisibili» Lei divide le opere fotografiche in tre sezioni: Limes, Brahmarandhra e Limen. Ci può spiegare il significato di questa suddivisione?
«Le soglie invisibili si compone di novantanove fotografie più una di copertina. Le fotografie abbracciano un arco di tempo che va dal 1992 al 2012. Il filo conduttore è proprio quella invisibile soglia che ci costringe a scegliere da quale parte stare.
Il confine definisce l’identità. Per chi abita al di qua del confine, la propria diversità e singolarità è evidente. Il noi che è possibile esprimere riguarda uno spazio i cui limiti circoscrivono una densità che è impossibile trovare altrove.
Il confine può essere limes, che propriamente significa linea di confine, e, per metonimia, sta ad indicare frontiera fortificata. Rinvia, cioè, anche ad una dimensione militare, in quanto il limes, per esempio, nell’Impero romano, era costituito per lo più da strade, presidiate da soldati, con postazioni fortificate e torri di avvistamento e di controllo.
Dal punto di vista culturale, questo aspetto militare che il termine possiede fa assumere al limes il significato di chiusura, di limite da non superare, nel senso di chiusura difensiva rispetto ad un mondo altro, considerato estraneo e ostile: barbaro.
Il confine può essere limen, che presenta somiglianza fonetica con limes e che, pur significando frontiera, propriamente sta ad indicare soglia e, in senso figurato, inizio, principio. Infatti se il limes viene solitamente, dal punto di vista concettuale, inteso come affine a terminus, limen trova affinità con principium: è la soglia che consente il passaggio, e dunque può essere condizione di rapporto, incontro, comunicazione.
Esclusivo il limes, inclusivo il limen
 

 
«Il confine può essere interpretato da una ragnatela: storia della nostra vita, tessuto di relazioni che si possono aprire e chiudere, relazioni che si cancellano e che si possono riscrivere. Le ragnatele sono respiro nell’aria, il palpitare della dimensione infinitamente piccola della vita, la sua leggerezza, ma sono anche il dolore e l’angoscia della preda senza scampo imprigionata in un intreccio di fili e ancora, sono la possibilità di uno spazio cosmico suggerito dai fili in rilievo appoggiati sulla fitta trama di uno spazio circoscritto.
«Ragnatela come metafora di un luogo in cui si è soggetto passivo di una cattura e al contempo si diventa soggetto attivo per catturare gli altri.
Il confine può essere un muro scrostato che ci racconta l’inesorabile passare del tempo, una finestra, un portone. Elementi architettonici che hanno la vita di coloro che gli hanno fatti nascere, ma la cui anima attinge ad un patrimonio comune che risale alle origini dell’universo, dell’umanità e delle nostre rispettive civiltà.
«Un patrimonio che risale anche alla nostra nascita e che perpetuamente ogni giorno si rinnova.
«La porta, il primo elemento della casa, il più antico, quello che corrisponde alla parte più remota della nostra abitazione interiore, da sempre rappresenta il passaggio dal dentro al fuori e viceversa. Ed è proprio da questa fessura primordiale di ingresso a questo luogo-comune-matrice che nasceranno i riti di iniziazione.
«La porta cioè costituisce il limite tra il mondo estraneo e il mondo domestico, nel caso di un’abitazione ordinaria, tra il mondo profano e il mondo sacro nel caso di un tempio. Perciò varcare la soglia significa aggregarsi a un mondo nuovo, ed è questo anche un atto importante nelle cerimonie del matrimonio, dell’adorazione, dell’ordinazione, dei funerali.
«Varcare una soglia ha da sempre rappresentato il passaggio da un luogo ad un altro luogo, dunque da uno stato d’animo ad un altro stato d’animo.
La nostra prima soglia è il ventre della mamma, fuori ci aspettiamo di trovare qualcosa di simile che ci avvolga e ci protegga lasciandoci liberi.
Il capitolo Brahmarandhra è invece dedicato alle mie Ma-donne. Si tratta di una serie di scatti che ritraggono corpi femminili coperti da un velo.
«In molte società civilizzate ci si vela il capo per adorare le divinità, in modo da separarsi dal profano e vivere soltanto nel mondo sacro. Nell’adorazione, nel sacrificio, nei riti del matrimonio ecc. il velamento è temporaneo. In altri casi la separazione o l’aggregazione o entrambe sono definitive. Il velo che io pongo sul corpo delle mie Ma-donne, che può avere la pesantezza del filo spinato e l’estrema leggerezza di un fascio di luce, ha la funzione di proteggere e dichiarare la sacralità di quel corpo.
«Lo spettatore è costretto a confrontarsi con un’immagine di donna resa sacra da questa soglia che la tutela e la rende inviolabile.»
 

 
Passiamo ora al video intitolato «Prima di Mezzanotte»: il susseguirsi di immagini, di quel paesaggio i cui fotogrammi sembrano ripetersi al di là del vetro, lungo le rotaie, evoca anche una dinamica umana, l’avvicendarsi della vita, lo scorrere del tempo con tutto ciò che ne consegue; il semplice camminare pare divenire poi lo straniante tentativo dell’uomo di incedere nell’incertezza dell’oggi, aspettando un domani che pure diventerà oggi, attendendo ancora il domani. A un certo punto la velocità diviene lentezza e quel muoversi silenzioso fra le lapidi apre un varco fra caotici pensieri, dove l’interrogarsi sul rapporto fra l’esistenza e la sua fine crea una palpabile tensione e uno sconfinato senso di attesa. Un video che è molto più di questo: ci può svelare il messaggio che questa opera video nella sua completezza racchiude, ciò che lei ha voluto comunicare?
«La sua analisi è perfetta!
Il video, presentato, per esigenze espositive, in un primo momento in tre parti con il titolo Prima di Mezzanotte e successivamente come unico cortometraggio con il titolo Before Midnight si muove su quella linea di confine che è lo scorrere del tempo presente, condizionato dalle vicende del passato.
«I ricordi e l’attualità si rincorrono e si sovrappongono senza soluzione di continuità. La velocità, gli slow-motion, i fermi immagine raccontano drammi e desideri di una vita vissuta nella disperata ricerca di amore.
«Prima di Mezzanotte, dedicato a Nicole e Wladimira, va inteso come: prima che sia troppo tardi. Prima che quell’ incedere nell’incertezza dell’oggi, aspettando un domani che pure diventerà oggi, attendendo ancora il domani, non diventi un buco nero dal quale è impossibile uscire. Prima che si arrivi al punto di non ritorno. Prima che l’apatia abbia preso possesso di ogni singolo muscolo. Prima che la depressione e la schizofrenia prendano il totale sopravvento.
«Il protagonista di questo video, dopo aver tracciato un bilancio della propria esperienza umana, decide di chiudere con una parte del suo passato e proiettarsi verso una nuova vita.
«Tante volte aveva pensato di farlo e poi ci aveva rinunciato; non per paura, fare i conti col passato non lo spaventava affatto, era abituato a pagare il conto che periodicamente la vita gli presentava.
«Ma ora era diverso. Dopo aver affrontato mille avventure, percorso strade che lo hanno portato a successi e fallimenti, viaggiato in cinque continenti, coperto distanze di milioni di chilometri, conosciuto migliaia di esseri umani, decide di affrontare la prova più dura: scrollarsi di dosso i fantasmi che accompagnano le sue notti insonni.
«Questa ideale ri-nascita avviene immergendosi in acqua, quasi a voler ritornare in quel grembo materno che, nel bene e nel male, ha condizionato le scelte della sua vita.
«In questa fonte battesimale ritrova la forza perduta e la voglia di ricominciare. Oramai in pace con se stesso, idealmente chiede scusa alle persone che ha deluso e perdona chi gli ha fatto del male.
«Il battesimo lo rende un uomo nuovo. Ora è pronto ad affrontare una nuova vita.
«I fantasmi sono andati via e non torneranno mai più.»
 

 
A TecnoNart è presente con l’istallazione dal titolo «Ecce Homo -burattini, bamboline e altre storie-», un’opera unica formata da due blocchi, girando attorno ai quali si sviluppa un sogno. Si tratta di una storia in parte autobiografica, potrebbe spiegarne il significato simbolico e il messaggio che ha voluto trasmettere attraverso l’opera?
«Innanzitutto devo dirle che Ecce Homo - burattini, bamboline e altre storie nasce, come progetto, immediatamente dopo Before Midnight. L’istallazione ha molti elementi in comune con il video; quindi molto di quello che le ho raccontato riguardo al video vale anche per questa istallazione.
«Ecce Homo - burattini, bamboline e altre storie” è stata pensata per essere presentata in forma di due parallelepipedi di base quadrata posti ad una distanza tale da permettere allo spettatore di girarci intorno. L’istallazione è composta da otto “stazioni”, cioè da otto racconti diversi legati al precedente e al successivo, senza soluzione di continuità. Otto momenti di riflessione, ognuno dei quali ne contiene al proprio interno molti altri.
«È presente il tema dell’uomo e la maschera. Un binomio arcaico, che accompagna l’immaginario occidentale sin dalle sue lontane origini. La maschera ha una portata antropologica essenziale: uniformando il volto, lo rende inespressivo, fisso, lontano.
«Esorcizza la paura: mascherandomi, la mia paura non trapela. Nemmeno il mio sorriso o le mie lacrime. La maschera è anche connessa col rischio della perdita del sé: sovrapponendo qualcosa che mi nasconde, mi nascondo a me stesso e agli altri.
«In alcune stazioni è possibile distinguere burattini, maschere e uomini che indossano una maschera sul volto: sono gli imprigionati dalla società, soffocati dalle sue costrizioni, asfissiati dalla sua pesante omologazione.
«In questo desolante scenario antropologico l’unica arma, a doppio taglio, per poter respirare è annullarsi nella maschera. Ma non per tutti. Per alcuni la maschera è solo un ricordo: sono i liberati, coloro che, grazie alla forza artistica che li anima, hanno vinto la maschera.
«È presente il tema delle tante violenze che si consumano all’interno delle mura domestiche, dietro le belle facciate. Dell’infanzia negata. Dei bambini che diventano merce di scambio e ostaggio di genitori incapaci di affrontare i problemi e trovare soluzioni. Di giochi dovuti abbandonare troppo presto, perché troppo presto bisognava diventare grandi.
«Osservando i circa otto metri quadrati di istallazione è possibile, ancora, anche riflettere su temi che riguardano il nostro rapporto con la morte, con Dio e con tutto quello che non siamo in grado di spiegare scientificamente.
«Una stazione di Ecce Homo - burattini, bamboline e altre storie è dedicata a Nicole, che tutte le mattine mi ripete: andrà tutto bene
Poi, ancora, come ha giustamente osservato lei, c’è la parte autobiografica. Ma questa è tutta un’altra storia.»
 

 
Quale consiglio si sentirebbe di dare a chi volesse avvicinarsi per la prima volta all’arte fotografica?
«Consigli? Mi scusi la citazione, ma preferisco continuare a dare cattivo esempio che buoni consigli.»
 
Da artista, come immagina il futuro dell’arte?
«Mi piace continuare a pensare che l’Arte salverà il mondo»
 
Quale fra le numerosissime mostre personali e collettive a cui ha partecipato le è rimasta più nel cuore?
«Gli ultimi ventiquattro mesi sono stati decisivi per la mia crescita come uomo e come artista. In quasi tutte le mostre a cui ho partecipato in questo periodo ho inserito delle opere della serie L’Approdo. Queste sono le mostre che mi sono rimaste più nel cuore. Ma questa è una storia che non le voglio raccontare».
 
Ha qualche sogno nel cassetto?
«Progetti da realizzare ne ho tanti, ma tutti all’aria aperta. I cassetti sono i posti peggiori dove riporre i propri sogni».
 
Daniela Larentis – [email protected]

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