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«Credere nell’uguaglianza» – Di Daniela Larentis

È uno dei messaggi contenuti nello splendido libro dell’autrice trentina Odilia Zotta e dedicato alla sorella Alcisa, missionaria laica in Africa

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Sono passati poco più di due secoli dalla Rivoluzione francese (era il 14 luglio del 1789 quando il popolo francese assalì la Bastiglia).
Tutti ne ricordano il motto: libertà, uguaglianza, fraternità.
Oggi, l’idea di uguaglianza fra gli uomini, anche se comunemente accettata, resta a ogni modo un concetto complesso, di difficile gestione.
Ma che vuol dire esattamente uguaglianza? Forse sono tutti uguali gli esseri umani? Che siano tutti uguali o meno ha poca importanza, quello che conta è che tutti, ma proprio tutti, hanno la capacità di provare sentimenti, di essere tristi o felici, di nutrire sogni e desideri.
Ci sono diversi modi comunque per intenderla, resta il fatto che l’uguaglianza è un valore da difendere.
Chi credeva nel principio di non discriminazione fra gli uomini fu anche una missionaria laica trentina, una donna davvero non comune, morta in un incidente stradale in Camerun mentre si dirigeva a bordo di un camion nella Repubblica Centroafricana.
 
Quello che sappiamo di lei lo dobbiamo alla sorella Odilia Zotta, autrice del libro intitolato «La sua Africa» (Edizioni Il Margine).
Laureata in sociologia, ecologista, ha insegnato diritto ed economia nella scuola superiore ed ora è impegnata nel volontariato sociale.
A un certo punto della sua esistenza decide di rendere pubblica la vita di sua sorella Alcisa e lo fa regalandoci l’emozione di un’eccezionale storia.
Si tratta dello straordinario racconto di una vita incredibile, quella di una donna forte, coraggiosa, indipendente, dalla fede anticonformista (che mai l’abbandonò, nemmeno nei momenti di grande sofferenza).
Una donna che credeva fortemente nella necessità di porsi al servizio del prossimo, nella condivisione e nell’uguaglianza fra gli uomini.
La dedica del libro recita: «A mia sorella Alcisa perché viva la sua memoria». Odilia Zotta ha scritto questo libro per dare un significato profondo alla sua esistenza.
 

 
Per saperne di più abbiamo dialogato con lei.
Prima nella prefazione e poi nell’introduzione a un certo punto viene citato uno dei quaderni di Alcisa, il secondo, in cui è riportata una frase di Antoine de Saint-Exupéry, l’autore de Il piccolo principe: «Nella morte di un uomo, muore un mondo che resta sconosciuto».
E lei commenta così: «E’ proprio vero, spesso conosciamo poco le persone care che ci vivono accanto. Leggendo il diario mi accorgo di quanto poco io conosca mia sorella»
Per quale motivo lei ha raccolto le lettere, i diari, le foto, le testimonianze della vita di sua sorella, scrivendone poi un libro, è stato per scoprirla, per non dimenticarla o c’è dell’altro?
«La frase di Antoine de Saint-Exupéry è una profonda verità. Nessuno di noi familiari sapeva dei diari. Lei è morta in marzo e noi tre sorelle li abbiamo trovati in soffitta durante l’estate. Erano scritti in inglese per cui li presi io per tradurli.
«Ho iniziato un po’ alla volta, essendo scritti a mano non sempre erano di facile comprensione per via della calligrafia. La prima lettura è stata veloce, avevo una grandissima curiosità di sapere cosa ci fosse scritto in quei quaderni, quindi ogni minuto libero lo dedicavo alla scoperta dei suoi pensieri, degli spostamenti che aveva compiuto di villaggio in villaggio, di quello che mia sorella aveva vissuto. Inizialmente il mio desiderio era far conoscere quella che era stata la vita di Alcisa alla famiglia, alle sorelle, al fratello, ai nipoti, ai miei figli, poi ho capito, molto tempo dopo, che avrei dovuto raccontarla in un libro, non poteva perdersi nel nulla.
«Erano tante le cose che non immaginavo di mia sorella, i suoi pensieri più profondi, il legame con il paese, un rapporto che non pensavo fosse stato di sofferenza, di esclusione.
«Non lo aveva mai fatto capire, lei era sempre molto allegra, molto impegnata. Ho scoperto poi questa forza nel rivendicare il Concilio Vaticano II, il ruolo della donna, la sua grande fede, la sua forza, quindi ho pensato di doverla scrivere questa storia, dopo diciannove anni dovevo farla conoscere, non tenerla solo per me: era un dovere lasciarla andare
 
La narrazione parte da Castel Tesino, un piccolo paese della Provincia di Trento. A quell’epoca sua sorella aveva 12 anni, un’età in cui si inizia a sognare. Che ricordo ha lei dei suoi dodici anni?
«Ero una ragazzina molto magra, ingenua, mi sentivo isolata e molto sola. Non avevo giocattoli, anche io come Alcisa andavo al pascolo, come spesso capitava allora.
«Ricordo che mi arrabbiai molto perché la mia mamma mi tenne nascosta la morte di una mia sorellina, Anna. Lo venni a sapere da altri, da vicini, e ci rimasi molto male.
«Alcisa a quell’epoca aveva 22 anni, ci separavano ben dieci anni e io non conoscevo quasi nulla di lei, era già uscita dalla famiglia. Lei era caratterialmente ribelle e molto legata alla madre, aveva un rapporto conflittuale con la nonna, al contrario io ero attaccatissima al papà e spesso arrabbiata invece con la mamma.
«In montagna dormivamo tutti in una stanza, io dormivo nel letto dei miei genitori. Ricordo che Alcisa e Maria Bice dormivano insieme e talvolta litigavano furiosamente. Io questo ricordavo di lei da bambina, prima di conoscerla davvero attraverso i suoi scritti.»
 
Odilia Zotta.
 
Perché, secondo lei, sua sorella a un certo punto decide di abbandonare la sua terra per cercare delle esperienze oltreconfine?
«Nella famiglia vivevamo con la nonna e il nonno. La nonna paterna era molto autoritaria e Alcisa non andava caratterialmente d’accordo con lei. Amando la libertà, ha cercato con tutta probabilità una strada per allontanarsi e rendersi indipendente. Voleva sentirsi libera.
«È stata prima puericultrice a Trento, poi in Veneto, a Roma, in Piemonte. A Londra e a Parigi è andata da sola, la scuola di Puericultura non aveva nessun contatto con l’estero.
«Imparò due lingue che le permisero di comunicare con tutti. A Parigi lavorava e studiava, poi si è laureata alla Sorbona e per un po’ si è dedicata all’insegnamento.»
 
Come ha vissuto la vostra mamma la sua lontananza, ci può raccontare qualcosa di lei?
«Erano anni difficili, eravamo una famiglia povera. La mamma scriveva ad Alcisa, loro avevano un rapporto particolare, mia sorella mandava dei soldi a casa permettendo a me e a mia sorella Alma di studiare. Era la figlia maggiore.
«Devo dire che, proprio anche grazie alle lettere scritte ad Alcisa, ho avuto modo di conoscere la bella persona che era la mia mamma. Lei dava fiducia ad Alcisa, una fiducia incondizionata.
«La mia mamma era molto intelligente, fin da bambina. Rimase orfana che aveva solo nove anni, aveva due sorelline più piccole, una di due anni e una di sette. Poi c’è stata la guerra, i profughi dovettero abbandonare le proprie case, andare via.
«Dopo una prima esperienza traumatizzante venne mandata a Mirandola, in Emilia-Romagna, dove frequentò la scuola. Il maestro si affezionò particolarmente a lei, bambina diligente, intelligente, brava, tanto che propose al nonno, prima che rientrasse in paese, di ospitarla per consentirle di studiare, ma il nonno rifiutò l’offerta.
«Alla mia mamma dispiacque immensamente, tanto che ce lo raccontava spesso con rammarico. Forse è per questo che si è identificata in Alcisa, questa figlia che voleva fare esperienze, che voleva andare, studiare, che faceva in fondo quello che lei avrebbe voluto fare.
«Io la ricordo nitidamente con il libro in mano mentre mescolava la polenta.»
 
Quando sua sorella ritorna a casa, nell’estate del 1978, ritrova un paese in cui non si riconosce. Come l’ha trasformata l’esperienza della missione?
«Alcisa a un certo punto ritorna in paese e lo trova arricchito, in pochi anni cambiato. Nella corsa all’arricchimento erano cambiate soprattutto le persone che erano state povere, si era dimenticata un po’ la religione, il senso del mistero.
«Lei non si riconosceva più in quel paese, soffriva, si sentiva un pesce fuor d’acqua. Provava dolore poiché ritornando aveva trovato un paese indifferente, un paese diventato materialista.
«Mi sento un pesce fuor d’acqua, tengo il mio segreto, scriveva. Negli anni vissuti lontana da casa lei aveva vissuto una vita in cui non era importante il denaro ma il donarsi nella relazione.
 
«Teneva il segreto», ossia non si confidava perché forse non si sentiva compresa da nessuno, nemmeno dalla famiglia?
«A noi non raccontava questi suoi pensieri, forse solo alla mamma. Con lei aveva un rapporto diverso.
«Forse ci sentiva più distanti dalla sua esperienza di vita, avevamo anche un’età differente, sicuramente mi avrà percepita come la più lontana fra le sorelle, mentre con la mamma aveva un rapporto del tutto speciale, lei la appoggiava sempre nelle sue scelte.»
 
Come definirebbe la sua fede?
«Come ho scritto nel libro la sua fede è stata «ricerca e dubbio». Ad un certo punto, dopo essere rientrata in paese, appunto, si sentì respinta da una Chiesa che sembrava tradire le novità del Concilio Vaticano II e che non valorizzava la donna.»
 
Fare, come ha fatto sua sorella, una scelta di povertà senza l’appoggio di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, è una scelta davvero difficile e non comune in quei tempi. Come ha reagito la vostra famiglia alla sua ultima partenza?
«Nessuno di noi pensava che le sarebbe potuto accadere qualcosa. Fino all’ultimo non disse che sarebbe partita. Non sapevamo che avrebbe utilizzato la macchina, non voleva farci preoccupare. Lasciò un biglietto sulla finestra. Poi arrivò la telefonata.»
 

Lettera suora francese Scritta a Odilia Zotta.
 
Quella che racconta nel libro è una storia di emancipazione femminile, ma anche una storia di grande coraggio, pensiamo al percorso intrapreso da sua sorella che la porta poi a diventare missionaria laica in Africa. Ci può svelare qualche particolare inedito che possa in qualche modo farci capire ulteriormente il carattere di Alcisa?
«C’è una lettera che non ho inserito nel libro, avevo troppo materiale a disposizione e volevo evitare sovrapposizioni, anche se poi un po’ mi è dispiaciuto non farlo.
«È di una suora francese con cui mia sorella lavorò in missione, suor Marie JosèpheTaffin. Si capisce dalle informazioni che mi diede che Alcisa era una donna indipendente e voleva restare libera. Nella lettera che mi mandò scrisse a un certo punto: Dopo parecchi mesi di vita in comune, Elise ha chiesto di separarsi ed abitare sola in una casa del quartiere, voleva realizzare il suo ideale: vivere con pochi mezzi e vicino alla popolazione rurale, i Senoufo.
«Per questo si era procurata una bicicletta per gli spostamenti. Ogni tanto andava per alcuni giorni nei villaggi lontani senza bagaglio, forse un po’ d’acqua per dissetarsi e un cappello tradizionale per proteggersi dal sole implacabile a certe ore del giorno.
«Noi trovavamo che questo non era molto ragionevole, ma era libera e nulla poteva fermarla. Si accontentava di poche cose per mangiare, faceva una cucina molto semplice e sempre con prodotti locali, coltivava qualche spezia in un piccolo orto intorno alla casa e l’insalata amara era il suo piatto preferito. Elise non aveva paura dei ladri né delle persone sospette, era abbastanza forte per difendersi.»
 
Come ha vissuto lei, invece, la lontananza di sua sorella e la sua scelta di vita prima del ritrovamento dei suoi diari?
«Quando da ragazza studiavo la ricordavo vagamente, non sapevo cosa lei stesse facendo esattamente anche se ne sentivo parlare, stavamo vivendo due esperienze completamente diverse.
«Una volta ritornata in paese, al contrario, pensavo di aver imparato a conoscerla: era attivissima, molto intraprendente e avevo l’impressione, spesso, che fosse concentrata molto sulle persone, era disponibilissima con tutti, ma che dedicasse meno tempo alla mamma, a noi familiari, e io mi sentivo un po’ arrabbiata per questo.
«Ho letto il libro intitolato 5 variazioni sul credere [Edizioni Gruppo Abele scritto da più autori, Caramore, Houshmand, Carucci Viterbi, Masi e Viroli – NdR] e nell’introduzione il curatore Marco Bouchard descrive uno stato d’animo simile a ciò che provavo io nei confronti di mia sorella Alcisa e precisamente: Mio padre, pastore protestante, evangelizzava incessantemente. Per lui erano indifferenti il luogo, l’occasione o la persona. Anzi: era proprio lo sconosciuto, incontrato casualmente nello scompartimento di un treno o nella sala d’attesa di uno studio medico, a stimolare in lui la necessità della testimonianza. Se questo capitava in mia presenza provavo un decoroso imbarazzo.
«È esattamente quello che provavo io.»
 
Cosa è poi cambiato nella percezione della sua vita, della sua personalità, dopo la ricerca compiuta per la stesura del libro?
«Il libro mi ha fatto conoscere questa sorella che un tempo sentivo distante, mi ha fatto avvicinare alla sua anima.
«Ho provato molto rimpianto per non aver avuto modo di poter conoscere prima tutto ciò che aveva vissuto, le sue esperienze, i suoi pensieri, quando era ancora in vita.
«Tutto ciò che io ho ricostruito con fatica sarebbe stato bello poterlo apprendere direttamente da lei.»
 
Come lei scrive a pag. 127 «le piste percorse da Alcisa sono oggi prese d’assalto, nella direzione opposta, da chi fugge dall’Africa», ciò per mancanza di prospettive di vita, a causa delle guerre, malattie. Che cosa pensa lei, da sociologa, riguardo alla fuga dalla povertà dei migranti e cosa penserebbe, secondo lei, sua sorella Alcisa se avesse avuto modo di assistere al grande esodo che è sotto gli occhi di tutti, quello dei clandestini che sbarcano ogni giorno in Italia alla ricerca di una vita migliore?
«Alcisa si trovò nel 78 a viaggiare con un ragazzo africano, nell’ultimo ritorno verso casa, attraverso il deserto. Scrisse di lui. Disse che era importante potesse seguire la sua strada. Forse in un certo senso intuì ciò che poi sarebbe accaduto, chissà.
«Alcisa aveva visto la siccità del Niger, la povertà dei villaggi africani, aveva visto le persone morire di fame, aveva incontrato questa realtà. La sua preoccupazione era quella di offrire l’istruzione. In questi giorni siamo tutti un po’ traumatizzati da questo esodo, io credo.
«Ho letto recentemente un articolo che spiega bene la situazione, è di un giornalista de La stampa del 20 aprile 2015, Domenico Quirico.
«Lui scrive di essersi recato nella zona subsahariana, di questo flusso di persone in fuga dice: Partire, ecco la loro unica ideologia. Travolgeranno tutto, non si fermeranno di fronte a nulla. Sgretoleranno ogni muro, barriera, ostacolo. Ho visto nell’Africa a sud del Sahara villaggi e cittadine popolate solo di vecchi.
«È l’Africa di Alcisa, 40 anni dopo. Villaggi che muoiono. Gli stessi villaggi in cui Alcisa cercava di fare qualcosa, ma ora stanno scappando tutti. Restano solo gli anziani. La domanda da porsi è: Noi vivremmo in quelle condizioni?»
 
Nel libro parla di come Alcisa avesse allacciato legami con molti villaggi africani, scrive che «alla base delle relazioni sociali c’è il dono che consiste nel dare, ricevere e restituire» e poi parla anche di sviluppo, definendolo come «concetto legato alla storia dell’Occidente, con ben pochi riscontri in altre società».
«Come ho scritto nel libro, il legame sociale nei villaggi prevedeva lo scambio fondato sulla reciprocità, ma non sul mercato.
«I missionari avrebbero tanto voluto creare sviluppo attraverso la coltivazione di alcuni prodotti tipici come il riso, in alcune zone. Purtroppo però è anche accaduto questo: la gente nei negozi trovava solo riso a basso prezzo prodotto da multinazionali.
«Se un villaggio coltiva il riso e poi non lo riesce a vendere perché subisce la concorrenza della multinazionale che lo fornisce (oltretutto di qualità scadentissima) non si può poi certo parlare di vero sviluppo. In quei villaggi lo sviluppo significherebbe poter coltivare sul posto i prodotti locali, condividendoli.»
 
Se dovesse descrivere sua sorella molto brevemente, che parole userebbe?
«Quelle riportate sulla copertina del libro: coraggio, vocazione, cammino. Aggiungerei fede e dignità.»
 
Daniela Larentis – [email protected]

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