«Il Sosia. Artisti e collezioni private» – Di Daniela Larentis
Inaugurata venerdì 29 maggio alla Galleria Civica di Trento la mostra a cura di Federico Mazzonelli rimarrà aperta al pubblico fino a ottobre 2015
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Un’interessantissima mostra inaugurata venerdì 29 maggio a Trento, sarà visitabile presso la Galleria Civica di Via Belenzani 44 fino all’11 ottobre 2015.
Intitolata «Il Sosia – Artisti e collezioni private», la prestigiosa esposizione, attraverso suggestivi intrecci estetici, sviluppa alcuni dei temi più indagati della storia dell’arte, della filosofia e della psicanalisi: il doppio, lo specchio, l’alter-ego.
Otto artisti, scelti tra i più significativi nel panorama nazionale, si confrontano con alcune opere d’arte moderna e contemporanea provenienti da prestigiose collezioni private.
Il progetto nasce da un’idea del curatore Federico Mazzonelli che ha invitato gli artisti Luca Coser, Michael Fliri, Eva Marisaldi, Marzia Migliora, Adrian Paci, Giacomo Raffaelli, Alice Ronchi e Luca Vitone a rintracciare il proprio «sosia», a cercare in una o più opere uno spunto, un’ispirazione, una suggestione per la creazione di altri e nuovi lavori; a ognuno di loro è stato chiesto di riconoscersi in un duplicato, di ritrovarsi in un riflesso che lo descrive.
Luca Coser, Doppio sogno, 2010.
In mostra sei site-specific e due interventi su lavori già esistenti sono il risultato del confronto con le opere di alcuni maestri dell’arte italiana come Medardo Rosso, Giorgio de Chirico, Tullio Garbari, Luigi Ghirri, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto e Pierpaolo Calzolari, fino ai più giovani Giovanni De Lazzari e Federico Lanaro, e dell’arte internazionale come Alexander Archipenko, Darren Almond, Justin Beal, Daniel Buren, Ryan Gander, Django Hernandez, Roni Horn, Zanele Muholi, Mike Nelson, Thomas Ruff a Markus Schinwald.
«Nel caso de Il sosia, la figura del curatore, colui che sceglie e delinea il percorso – sottolinea Federico Mazzonelli nel prezioso catalogo dedicato alla mostra, – sembra infatti compiere un passo a lato, in favore di una concezione aperta, nella quale sono gli artisti stessi, nel duplice ruolo di attori e al contempo di spettatori, ad attraversare le sale dei collezionisti e ad interpretare un dialogo con le loro opere.
«Opere nelle quali possono riconoscersi, dalle quali si sentono attratti o che semplicemente si rivelano ai loro occhi significative per dare riconoscibilità e sostanza alle costellazioni di idee trasferite nelle stanze della mostra.»
Michael Fliri, The void sticks on us II, 2015.
«Ogni artista invitato ha così sviluppato un lavoro in sintonia con una familiare estraneità rispetto non solo alle opere presenti nelle singole collezioni, ma anche alle persone, alle situazioni, alle parole di volta in volta incontrate in questo itinerario di ricerca, mediante un esercizio che lo ha riportato a identificare affinità poetiche o concettuali, a segnalare distanze formali o contenutistiche, a ricomporre tracce mnemoniche o frammenti linguistici emersi lentamente, quasi decantati», – aggiunge, facendo notare come il percorso della mostra sia un mosaico di tessere realizzato interamente dagli artisti e al quale sono stati aggiunti elementi minimi di raccordo, «cuciture leggere là dove il tessuto sembrava allentarsi».
Sale della mostra.
Illustriamo brevemente i lavori degli artisti in mostra
Michael Fliri (Tubre, Bolzano, 1978) mette in relazione una serie di nuove sculture con le opere di Daniel Buren e Giulio Paolini. L’indagine si focalizza sui temi dello specchio e della maschera, sul limite tra veridicità e finzione. «Il suo metodo potrebbe trovare un equivalente letterario nel processo di straniamento introdotto da Bertold Brecht nella disciplina attoriale» rimarca Federico Mazzonelli, «il quale ruota intorno alla capacità di mettere in evidenza, durante la recitazione, la distanza tra interpretazione e realtà». La maschera era per i primitivi un oggetto magico dietro al quale l’uomo annullava la propria soggettività per divenire rito in sé, mentre l’uomo occidentale ricorre alla maschera semplicemente per nascondersi. Un’altra opera dello stesso Fliri si trova nel piano interrato, un video che offre una prospettiva rovesciata e una dinamica surreale. E’ il tentativo dello stesso artista di percorrere una scala collocata sott’acqua, dove la velocità diviene lentezza e dove tutto assume una dimensione diversa e straniante anche se al contempo sorprendente.
Eva Marisaldi (Bologna, 1966) si confronta con opere molto diverse tra loro (di Nelson, Archipenko, Muholi e Hernandez) e costruisce con i suoi disegni un display espositivo che risulta una mostra nella mostra.
Adrian Paci, The guardians, 2015 - Giacomo Raffaelli, Non come la ragione, 2015.
Marzia Migliora (Alessandria,1972) si lascia ispirare da un lavoro di Ryan Gander, una ballerina in bronzo distesa a terra nell’atto di giocare con una forma geometrica, a partire dal quale costruisce e decostruisce il mito del moderno. I quattro gruppi scultorei di Marzia Migliora sono composti da tre o quattro vasi ciascuno, ognuno accosta un vaso di argilla a vasi in bronzo, ancorati mediante una cinghia. Riportiamo il commento della stessa artista (contenuto in catalogo): «La contrapposizione di materiali tanto dissimili crea una sensazione di insicurezza e caducità che mi ha portato a pensare a una famosa citazione dei Promessi Sposi: «S’era dunque accorto, prima quasi di toccare glia anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro»» Ed è proprio il contrasto fra fragilità e durezza a colpirci, una dinamica che appartiene anche all’uomo contemporaneo. Basta pensare al mondo dei giovani, alla loro talvolta sfrontatezza che nasconde spesso una grande fragilità interiore.
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Adrian Paci (Scutari, Albania, 1969) compone un trittico onirico mettendo in relazione un video inedito, un lavoro metafisico di de Chirico e una recente pittura di Giovanni De Lazzari che ironicamente depotenzia la questione metafisica. Come sottolinea il curatore «Nel video The Guardians il lento scorrere della macchina da presa lungo le architetture del cimitero e la striscia di cielo azzurro che vi si apre nel mezzo, come fosse un riflesso del mezzogiorno dechirichiano o della prospettiva allungata e quasi ideale della piccola tela di De Lazzari, diventano anch’essi frammenti e per certi versi archetipi di questo tempo infinito».
I guardiani del video di Paci sono bambini che strappando le erbacce e lavando con gli stracci le tombe si prendono cura di quelle lastre di pietra e attraverso i loro gesti sembrano rinnovare l’antico rituale degli antenati.
Giacomo Raffaelli (Rovereto, 1988) indaga uno dei processi tipici del mercato dell’arte che vive di emozioni, relazioni, intuizioni. In collaborazione con un collezionista, presenta la traduzione visiva delle informazioni e dei dati che si generano quando un’opera d’arte viene acquistata.
Luca Vitone, Vuole canti, 209 - 2015.
Alice Ronchi (Ponte dell’Olio, Piacenza,1989) amplifica con una scultura e un video la particolare atmosfera che scaturisce da una marina vista attraverso una feritoia di Luigi Ghirri. Noi siamo rimasti imprigionati dalla suggestione di quella grata, oltre la quale abbiamo intravisto il mare e l’orizzonte, simbolo di un orizzonte mentale verso il quale poter dirigere lo sguardo. Un implicito invito, l’installazione di Alice Ronchi, ad andare al di là dell’apparenza, a nostro avviso, liberandosi delle sbarre mentali che noi stessi ci costruiamo quotidianamente.
Luca Coser (Trento, 1965) costruisce un allestimento attorno a una scultura di Medardo Rosso e a una testa retica di Tullio Garbari. Ai due maestri del ‘900 il compito di ispirare una riflessione sul volto e sul ritratto. La sua stanza, come la definisce il curatore, «è un racconto che si moltiplica per sottrazione. «Le opere presenti nella sala costruiscono una narrazione fatta di voci che si sovrappongono e che, dissolvendo il racconto stesso, ne generano di nuove» viene sottolineato da Mazzonelli, il quale aggiunge: «I lavori sembrano ritirarsi, retrocedere in se stessi, definendo in tal modo la loro realtà immaginativa, la loro comunione con lo spettatore: la cera di Rosso nella vibrazione della materi, il volto di Garbari nella lontananza senza tempo del suo sguardo, la pittura di Coser nella sospensione di un’immagine che risale dalla sua stessa cancellazione».
Luca Vitone (Genova, 1964) dedica 18 disegni e 18 anagrammi ad altrettanti artisti con i quali ha condiviso l’avvio della propria ricerca ed espone pari numero di autentiche di opere d’arte individuate presso i collezionisti.
Galleria Civica Trento, Sale della mostra Il Sosia.
«Vuole Canti – spiega Federico Mazzonelli – è in realtà la prosecuzione e la conseguente evoluzione di un progetto editoriale presentato in occasione della nascita della Fondazione Galleria Civica nel 2009 e della relativa mostra dal titolo Civica 1989-2009: Celebration, Institution, Critique a cura di Andrea Viliani.
«È un’opera a suo modo corale, un atto d’amore che Vitone rivolge a diciotto artisti della sua generazione, identificando ognuno di loro con un albero della città. Albero che diviene custode e portatore, mediante un processo di identificazione tra umano e vegetale, di un legame intimo e ideale tra l’artista e quelli che sono stati, anche solo per un periodo, i suoi compagni di strada.»
Galleria Civica Trento, Sale della mostra Il Sosia.
Si tratta quindi di diciotto stampe fotografiche corrispondenti a diciotto autori i cui nomi sono celati da un anagramma. Le opere sono presenti solo con il documento che ne certifica l’esistenza, «il non detto parla e ne suggerisce il percorso».
Nell’ultima sala ci specchiamo nell’opera di Justin Beal, uno specchio dalla superficie disomogenea dentro al quale la nostra figura risulta deformata; guardiamo quindi a sinistra, puntando gli occhi verso la fotografia di Roni Horn che ritrae una meravigliosa volpe artica: l’animale ci fissa intensamente con uno sguardo che a noi sembra indecifrabile e ci sentiamo quasi a disagio di fronte a tanta sfrontatezza. Sembra quasi che voglia chiederci qualcosa.
Ci viene in mente, d’improvviso, un nome, quello del filosofo statunitense Tom Regan (1938), il quale sosteneva sostanzialmente che ogni essere vivente è titolare di diritti naturali (non solo quindi i soggetti coscienti) e che l’uomo ha il dovere di rispettarli.
Poi ci giriamo verso destra e la volpe, quasi ad intuire il nostro imbarazzo, sembra si sia girata per proseguire altrove: in cerca, forse, di possibili risposte.
Daniela Larentis - [email protected]
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