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Dare un senso al dolore – Di Daniela Larentis

Non è sempre facile. Riuscirci aiuta a superare anche le situazioni più dure ma per farlo occorre avere il coraggio di vivere

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Cercare di trovare un significato alla sofferenza non è certo facile, coglierne il senso più profondo lo si fa quasi esclusivamente a posteriori, quando «il peggio è passato».
Nel momento in cui si scivola a terra e ci si fa male ad un braccio, per esempio, certamente non si pensa immediatamente al perché sia successo, più che altro lì per lì si avverte solo un dolore lancinante e si pensa a come farlo cessare.
Succede così anche per il dispiacere, quando lo si prova e vi si è immersi si pensa esclusivamente a distaccarsene, ci sarà poi tempo per accettarlo, per rivalutarne l’esperienza.
Se anche gli animali, dal tenero scoiattolo al mastodontico elefante, siano consapevoli di provare sofferenza non è dato saperlo (noi riteniamo che sia assolutamente possibile).
Quello che è certo è che il mondo è impregnato di dolore.
 
Parlando di sofferenza, tutte le religioni del mondo affrontano il problema diversamente. Ritenere che abbia un fine positivo la rende più sopportabile, questo almeno è quello che pensano in molti.
Per alcuni il dolore sarebbe una sorta di prova da superare per potersi avvicinare maggiormente a Dio, addirittura un’opportunità, uno strumento che renderebbe più forti.
Pare sia stato Martin Luther King jr ad affermare che «ciò che non mi distrugge mi fortifica», una frase celebre che è sulla bocca di tutti quotidianamente.
 
Ma la sofferenza rende davvero migliori? E chi lo sa, alcuni si induriscono e perdono il gusto della vita, altri, al contrario, sembrano acquisire maggior sensibilità verso il prossimo, diventano «più umani», più buoni.
Quando ci si sente sopraffatti, angosciati, è difficile intravedere una via d’uscita (non si è mai davvero pronti ad affrontare un dolore).
Quello che più destabilizza è la sensazione di aver perso il controllo della situazione, si prova uno sconfinato senso di ingiustizia che rende tutto più difficile da affrontare.
L’atteggiamento mentale, a ogni modo, influisce notevolmente sulla capacità di sopportazione.
Ciò che rende più forti forse è la consapevolezza del proprio dolore e la necessità di mettersi in relazione con gli altri: è il rendersi conto di esistere in un contesto più ampio, dove la nostra vita è legata, che lo si voglia o meno, a quella di altre persone.
Del resto non possiamo pensare a noi stessi come un qualcosa di scollegato dal prossimo.
L’amore unisce gli uomini, inconsapevoli cellule di un organismo pulsante, esso è la forza che muove la vita, il filo invisibile che tutto collega.
 
Nel libro del Dalai Lama scritto da Howard C. Cutler intitolato «L’arte della felicità» (Edizioni Oscar Mondadori), l’autore dedica un intero capitolo (l’XI) al significato del dolore e della sofferenza.
A pag 175 leggiamo la risposta a un interrogativo: «Da dove bisogna cominciare quando si cerca di trovare un significato alla sofferenza? Molti rinvengono il punto di partenza nella fede religiosa.
«Benché affrontino in maniera diversa il problema del senso e dello scopo delle traversie umane, tutte le religioni del mondo hanno, del dolore e del modo di affrontarlo, una visione basata sui loro dogmi fondamentali.
«Per il buddhismo e l’induismo, ad esempio, la sofferenza è causata dalle azioni negative compiute in passato ed è considerata lo strumento per conseguire la liberazione spirituale.
«Secondo la tradizione ebraico-cristiana, un Dio buono e giusto creò l’universo, e benché il suo disegno sia a volte misterioso e indecifrabile, sopporteremo di più le sofferenze avendo fede e fiducia nelle Sue vie, confidando che, come dice il Talmud, «Tutto quanto Dio fa, lo fa per il meglio.»
 
La vita sarà ugualmente dolorosa, ma il travaglio, come quello della partoriente, sarà compensato dalla bontà del prodotto finale.
Il guaio è che, diversamente da quanto accade con il parto, non è affatto chiaro quale sia il bene ultimo.
Chi però ha una forte fede nel Dio ebraico-cristiano è convinto che la sofferenza abbia un fine positivo…»
Aggiunge qualche riga più avanti un’interessante riflessione: «Benché la religione aiuti molto le persone a trovare un senso alle traversie della vita, anche chi non ha credenze religiose può, con attenta riflessione, rinvenire un significato e una valore nella sofferenza.
«È indubbio che, per quanto riesca sgradevole a tutti, il dolore ci tempra e ci rafforza, rendendo più profonda la nostra esperienza di vita…»
 
La verità è che la vita è dispensatrice di gioia e di dolore, in un susseguirsi di situazioni in cui il coraggio e tante volte la pazienza vengono messi a dura prova.
Ognuno di noi, purtroppo vien da dire, prima o poi si trova a dover affrontare esperienze dolorose in un modo o nell’altro.
Si cade, ci si rialza faticosamente per poi rimanere in piedi barcollando, prima di riacquistare la giusta postura, imprigionati in una situazione non voluta, costretti a vivere un’esperienza non cercata che poi comunque si supera. Ci vuole solo tanta pazienza.
 
Si sa che le avversità fanno maturare, lo sapevano bene anche gli antichi (pensiamo, tanto per fare un esempio, alle peripezie di Ulisse, l’eroe leggendario che nell’Odissea affrontò il suo lungo viaggio di ritorno verso l’amata Itaca, dopo aver combattuto la mitica guerra di Troia).
L’ alternarsi continuo di luci e ombre, questo in fondo è il nostro viaggio, e in certi momenti cruciali, dopo lo svuotamento dell’anima, l’annegamento nel mare di dolore che sembra non avere fine, si scopre all’improvviso, incredibilmente, di amare ancora la vita, la quale sul piatto ci offre ogni giorno i due rovesci della medaglia.
E allora si ritorna a vivere.
 
Daniela Larentis – [email protected]

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